Mercoledì, 27 Settembre 2017 00:00

Dello scontro tra Netflix e Cannes (e come il cinema potrebbe uscirne migliore)

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Dello scontro tra Netflix e Cannes (e come il cinema potrebbe uscirne migliore)

Bong Joon-ho è un regista sudcoreano, e a detta di molti uno dei nomi da seguire nel panorama del cinema contemporaneo. I suoi film condividono un certo amore per le ambientazioni distopiche, e una particolare attenzione per le tematiche delle differenze di classe e del potere delle grandi compagnie che ha spesso conseguenze drammatiche per i più poveri.

Sono temi che riemergono quasi ovunque nella sua opera, dai film di ambientazione coreana, come The Host (2006), un anomalo film di mostri in cui la creatura, effetto dell'inquinamento ambientale, non è una minaccia per le grandi città, ma un problema di scala minore che però ha effetti devastanti per chi vive ai limiti della società; e che tornano quando la sua produzione si sposta in America, con l'hollywoodiano Snowpiercer (2013), un'opera futuristica che parte da una premessa distopica in parte assurda per rivelarsi un'unica grande allegoria delle ineguaglianze sociali che affliggono il nostro mondo contemporaneo, in cui la sola soluzione possibile è una rivoluzione dal basso – con un finale amaro che mette in dubbio perfino la fattibilità di quell'unica soluzione.

Bong ha le idee molto chiare, uno stile cinematografico estremamente personale, uno stile narrativo coraggioso, e un talento indubbio, e le sue opere hanno incontrato negli anni il favore di pubblico e critica e vinto una buona quantità di premi. Nel 2017, il regista sudcoreano porta a Cannes il suo nuovo film, Okja, ancora una storia distopica basata su una premessa tutto sommato semplice: una ragazzina coreana cerca di proteggere un animale con cui ha sviluppato un profondo legame personale – Okja, la creatura che dà il nome al titolo; che però è una creatura geneticamente modificata al centro dei piani di una multinazionale senza scrupoli che intende ricavare un enorme profitto dal farne carne da macello. La ragazzina fa causa comune con una banda di terroristi ambientalisti che sono chiaramente una spietata parodia della PETA, salvo poi scoprire che anche loro hanno a cuore i propri interessi molto più che i suoi, e ritrovarsi a dover combattere la sua battaglia da sola contro tutti, in un film che si rivela sorprendentemente brutale e che ha l'abilità di far piangere e far pensare. L'opera piace al pubblico e piace ai critici, e verrebbe da pensare che, con il supporto di un cast rodato e talentuoso che include Tilda Swinton e Jake Gyllenhaal, sia arrivato a Cannes per guadagnarsi qualche altro meritato premio.

Invece no. Okja arriva a Cannes, e solleva una controversia che si porta dietro echi e strascichi per settimane. Il film viene fischiato prima, durante e dopo lo screening, e regista e attori ricevono lo stesso trattamento sul tappeto rosso. Viene perfino sollevato il dubbio che non dovrebbe essergli permesso di rimanere in concorso. Il dubbio è così persistente che, a festival concluso, si discute di cambiare le regole, in modo che non possa più capitare che un film come Okja possa concorrere.

Cosa c'è che non va nel film di Bong? C'è che il film ha una produzione e una distribuzione non convenzionali, che vengono associate a uno dei grandi fattori di rischio nella crisi degli incassi che il cinema tradizionale lamenta da qualche tempo a questa parte. Il film, infatti, invece di essere distribuito normalmente nelle sale, è uscito come esclusiva per il colosso online di Netflix, che in cambio ha offerto al regista i fondi ingenti che non era riuscito a ottenere dalla produzione convenzionale, insieme ad assoluta libertà creativa. Bong, sostengono quelli che lo hanno fischiato a Cannes, è un traditore: ha accettato la metaforica 'mazzetta' di Netflix e, vendendogli il suo film, contribuito a quella che i più tragici definiscono la morte del cinema convenzionale, il declino delle sale, e così via.

Bong, occorre dirlo, non è il solo ad aver percorso questa via. Con la stessa offerta di fondi cospicui e, forse più importante, di completa libertà creativa Netflix ha potuto assicurarsi in esclusivo le nuove opere di vari registi emergenti o anche più affermati, con buoni successi di pubblico alle spalle e amati dalla critica, ma che avevano difficoltà a produrre per vie convenzionali opere che gli stavano a cuore. Così per dire I Am The Pretty Thing That Lives In The House del canadese Oz Perkins era uscito per Netflix già in Ottobre del 2016, e Mute, opera nuova del britannico Duncan Jones, uscirà prima della fine del 2017, in una data non ancora annunciata. Sono film che hanno tutti una cosa in comune: portano ben chiara l'impronta dei loro registi, e secondo le ricerche di mercato delle major hollywoodiane, non avrebbero dovuto avere speranza alcuna di successo. In un'epoca in cui il cinema si finanzia quasi solo sulla base delle suddette ricerche di mercato, un giudizio simile è sufficiente ad abortire un'opera prima ancora di andare sul set. Okja, per esempio, non aveva un target di mercato sufficientemente chiaro: troppo violento e brutale per essere un film per bambini, troppo fiabesco per essere indirizzato a un pubblico adulto; avrebbe forse potuto essere pubblicizzato come film ambientalista, ma gli ambientalisti non ci fanno neanche loro una gran figura; è troppo sopra le righe per essere un film drammatico, e troppo serio nei suoi sentimenti per essere pura commedia. Okja non sta bene in nessuna scatola, è la storia che il suo regista voleva raccontare ma non è messo insieme per piacere a un target specifico. Quindi secondo gli studi di mercato non avrebbe fruttato soldi a chi l'avesse prodotto; quindi andava o accantonato, o modificato radicalmente. Storie simili sono alle spalle della gestazione dei film di Perkins e Jones, e di altri che ora Netflix produrrà con le stesse modalità.

Che cosa si può comprendere dalla vicenda di Okja e dell'accoglienza burrascosa che ha ottenuto a Cannes? Anzitutto che le major, ormai è chiaro, hanno paura delle piattaforme online; le quali hanno già messo in difficoltà la televisione convenzionale, producendo serie di qualità spesso superiori, ottenibili in blocco e senza pubblicità, per un abbonamento mensile dal prezzo ragionevole, e stanno ora dimostrando di poter produrre cinema di qualità non inferiore (e talora superiore) a quel che esce nelle sale. Mancavano loro i grandi nomi: vicende come questa dimostrano che potrebbero ottenerli. Potrebbero perché ci sono registi che, posti di fronte alla scelta di rinunciare alla distribuzione nelle sale o all'integrità artistica del loro progetto, hanno scelto di rinunciare alla prima. Destabilizzando in questo modo il ricatto velato che le major hanno sempre proposto ai creativi: adattati alle richieste del nostro mercato, fai in modo che il tuo film si possa infilare nelle nostre scatole, o il tuo film non vedrà mai le sale. Bong, Perkins, Jones e altri hanno fatto questa scelta inaspettata e spiazzato un sistema che si basava sull'assoluta certezza che questo non sarebbe accaduto; i fischi di Cannes sono l'atto sulla difensiva di quello stesso sistema, che si vede aggredito.

Ma non sono solo i fischi a essere significativi; il successo ottenuto dall'opera lo è altrettanto. E quel successo dimostra che il pubblico, forse, non ragiona – non sempre, non necessariamente – secondo le logiche che i sondaggi di mercato gli attribuiscono. Il pubblico, forse, si è stancato di essere preso per stupido, e non vuole che gli vengano imboccate storielle semplificate e facilmente classificabili, che entrano bene nelle scatole. Il pubblico, forse, non è spaventato quando vede qualcosa di diverso, ma incuriosito. E il pubblico, forse, tra il richiamo del popcorn e quello di un film che ha qualcosa di intelligente da dire e un modo originale di dirlo, sceglie alle volte il secondo. Che le logiche di mercato, tese a non correre mai un rischio, tendano a sottovalutare le capacità intellettuali del pubblico a cui si rivolgono non è novità: ma la novità è che forse il pubblico si è stancato, e certamente si sono stancati i registi. E le major potrebbero doversi trovare, complice Netflix, a dover fare i conti col fatto che un film è, prima ancora che un prodotto commerciale, un oggetto d'arte.

Cosa abbia spinto Netflix a imbarcarsi su questa via non si sa per certo. È possibile che si tratti di un'etica diversa riguardo alla produzione di opere creative, come è anche possibile che, nel tentativo di accaparrarsi qualche nome di peso, la concessione di libertà creativa fosse una necessità inevitabile di fronte alla perdita della grande distribuzione. Può essere che, se Netflix riuscirà ad affermarsi come nome importante nel gioco della produzione a livello mondiale, inizierà a sua volta a imporre vincoli più stretti ai 'suoi' registi, fondandosi su altri inevitabili sondaggi di mercato. Ma può anche essere che si renda conto che l'esperimento ha funzionato, e che decida di procedere su questa via: per etica o per profitto, ha, in fondo, scarsa importanza.

Una cosa è certa: il mondo del cinema dovrà confrontarsi non già con Netflix, ma con il fatto che i creativi, ben lungi dall'essere traditori con un prezzo facilmente definibile, spesso hanno a cuore la loro opera prima di qualsiasi altra cosa; e che il pubblico, ben lungi dall'essere diventato la massa di pecore ipnotizzate che spesso è accusato di essere, è ancora in grado di riconoscere l'originalità, la passione, e la buona narrazione, e di esserne affascinato.


Immagine liberamente ripresa da cdn3.thr.com

Ultima modifica il Martedì, 26 Settembre 2017 17:11
Chiara Strazzulla

Nata in Sicilia, ha studiato a Roma e Pisa e vive a Cardiff, in Galles, dove lavora a un dottorato in Storia Antica e insegna latino. Autrice di prosa e teatro, è pubblicata in Italia da Einaudi Editore.

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