Lunedì, 19 Dicembre 2016 00:00

Ennesima crisi ministeriale italiana

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Ennesima crisi ministeriale (a dieci mani)

La presentazione del Governo Gentiloni alle Camere è stata accolta dagli strascichi muscolari del 4 dicembre: le forze di opposizione hanno accusato la maggioranza di non aver “imparato la lezione” del 59% di No, mentre i partiti di governo hanno rivendicato, all’opposto, le dimissioni di Renzi in ossequio al voto referendario e nonostante un sostegno stabile in Parlamento.

Qualche esponente più avventuroso della maggioranza ha esteso il “riconoscimento della sconfitta” oltre l’avvicendamento a Palazzo Chigi, asserendo che il disagio sociale manifestato nel No deve impegnare l’esecutivo a percorrere con ancora più convinzione la via delle riforme.

Secondo il capogruppo di Sel, invece, le forze di governo sono ormai prigioniere della “pillola sbagliata di Matrix”, quella che continua a incatenare la percezione ad un universo inesistente e simulato.

Sicuramente (almeno) uno dei due fronti ha ingerito la pillola sbagliata. Su questo si confrontano questa settimana "le dieci mani".

Roberto Capizzi

Una crisi iniziata male e finita peggio, quella che ha segnato la fine del governo Renzi e l'inizio di quello Gentiloni. Che vi fosse la necessità di un breve (ma breve per davvero) gabinetto che accompagnasse il parlamento, senza mettersi in mezzo, nella definizione di una legge elettorale (che si spera proporzionale, ma di questo parleremo qui a legge approvata) era del tutto evidente. L'ignominia, la bestialità di una legge elettorale che, oltre ad essere nascostamente iperpresidenzialista, non prevedeva nessun sistema ponte in caso di non approvazione, come è poi "rotondamente" accaduto, della riforma costituzionale è una irresponsabilità che peserà a lungo sul gruppo dirigente del PD e sul passato inquilino del Quirinale.

Ciò che il Partito Democratico poteva evitare, financo per propria tutela, era una fotocopia venuta male dell'esecutivo precedente. Se infatti l'ipotesi di governo di tutti era ridicola (tanto quanto il voto subito invocato da Salvini, Meloni e dal loro amico Grillo) e certo il fatto che fosse compito della maggioranza PD/SC/NCD/SVP etc. indicare una soluzione, essa avrebbe potuto marciare in un senso maggiormente in linea con l'esito referendario in termini di uomini e conseguentemente di politiche che questi avrebbero portato avanti. Le forze della maggioranza hanno scelto un'altra strada: la peggiore.

È di pochi giorni fa una dichiarazione del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, incommentabile per lo scarso senso democratico che da essa traspare e che è indice di quanto male (in mezzo per fortuna a tanto bene) sia cresciuto nel mondo cooperativo. Rimane sul tappeto il problema di un'alternativa progressista a questo sovversivismo che variamente si manifesta: tanto al governo quanto nelle principali opposizioni. 

Dovrà pur esserci un'alternativa tra morire renziani, fascio-salviniani o fascio-grillini.


Alex Marsaglia

Occorre essere chiari. Il governo Renzi è nato in seguito al rifiuto del Partito Democratico di eleggere un Presidente della Repubblica condiviso con la principale forza politica parlamentare, il M5S. Un governo nato così non poteva che finire per altrettanta miopia politica.

La personalizzazione di un referendum costituzionale ne rappresenta il massimo esempio ed infatti è una scelta criticata dallo stesso padre politico del governo Renzi, ossia Giorgio Napolitano. E il primo Presidente della Repubblica ad essere rieletto non è certo uno che si tira indietro davanti allo sconquasso delle basilari norme e principi del nostro ordinamento. Lui stesso ha difeso nel merito la riforma costituzionale del governo Renzi mettendoci (e rimettendoci) la faccia.

La critica fatta da Napolitano sul metodo adottato dal governo Renzi deriva chiaramente dall'acume politico di una vecchia volpe della politica italiana che aveva altrettanto chiaramente intuito come fosse una mossa azzardata una tale personalizzazione politica delle riforme. Fare ingoiare a forza al Paese le riforme richieste dalla finanza internazionale non era evidentemente la soluzione.

La soluzione migliore era lavorare sull'egemonia delle masse popolari italiane. Un lavoro totalmente fallito. Il governo Renzi ne ha pagato il prezzo, ma per fortuna delle classi dominanti il potere politico borghese si autorigenera (anche se non all'infinito). Dunque abbiamo un governo che continua a rappresentare il fronte del Sì, pur avendo vinto il No con una larga maggioranza.

Chiaramente questo contesto rappresenta al meglio il declino democratico in cui siamo, ma il ritorno a forme autocratiche è l'unica alternativa oggettivamente rimasta alle élites borghesi.


Dmitrij Palagi

Correre alle urne senza alcuna progettualità non ha molto senso, ma sembra essere l'unica soluzione per larga parte delle opposizioni. L'impianto comunicativo suggerisce di farlo anche per questioni di opportunità, per indebolire una maggioranza da descrivere come un sistema di potere assettato di governo, con parlamentari che desiderano maturare la pensione, superando i limiti di tempo previsti dalla legge.

Alcuni cambiamenti ci saranno, principalmente nel rapporto con le rappresentanze sociali uscite rafforzate da un referendum in cui rischiavano tutto (ARCI e CGIL su tutte, oltre ovviamente all'ANPI). Fedeli, inutilmente contestata perché non laureata, troppo poco criticata per "invenzione di laurea", ha già dato un segnale di discontinuità nei rapporto con i sindacati, irritando quel pezzo di sistema economico che gioiva all'idea di un rottamatore pronto a relegare la contrattazione in condizioni di progressivo indebolimento dei diritti dei lavoratori.

La sostanza del Governo non cambierà, però. Non è un problema di nomi, né di singole maggioranze: dopo la caduta dell'ultimo esecutivo Berlusconi qualcuno ha davvero chiaro quali sono le distinzioni tra le diverse coalizioni?

Questo referendum costituzionale coltivava l'illusione di risolvere il problema dell'inadeguatezza dei partiti, rispetto a quanto previsto dalla Costituzione, modificando la qualità della democrazia. Per una serie peculiare di circostanze, per errore dei promotori e per una sana formazione scolastica relativa ai principi della Repubblica nascita dalla Resistenza, il disegno di Renzi non si è realizzato. Rimane però l'inefficacia di fondo delle proposte politiche.

Continueranno a susseguirsi episodi di cronaca e polemiche vuote. La stabilità dei governi non conta in realtà poi molto, il problema è lo stato della sovranità del Parlamento, che rimane oggi un luogo fortemente svalutato, anche se costituzionalmente centrale.


Jacopo Vannucchi

Il 41% di maggio 2014 valse a Renzi l’onore delle armi di molti rivali, ma la tregua ebbe breve durata: già in estate alleati di governo e minoranza Pd sgomitavano per ritrovare uno spazio. Questa incertezza condusse Renzi a tenere il 1° settembre una conferenza stampa per presentare l’orizzonte del suo governo: mille giorni (in luogo dei canonici cento, già trascorsi), raccolti sotto lo slogan “passo dopo passo” (il sito che monitora il conteggio dei giorni e i risultati di governo è ancora felicemente attivo).

«Saremo giudicati a maggio 2017». Il giudizio è arrivato un po’ prima, ma dopo circa mille giorni di governo. E i risultati del referendum presentano due analogie: non solo tra il 41% del Sì e il 41% del Pd alle europee, riflesso della “politicizzazione del voto” che Renzi ha ammesso di non aver avvertito in tempo (in effetti, secondo Demopolis solo un No su tre è dovuto a obiezioni sulla riforma costituzionale, mentre i due terzi miravano a far cadere il governo).

Ma anche tra il 59% di No e il 61% di No nel referendum costituzionale del 2006. La composizione geografica è però assai dissimile: il Nord dieci anni fa votò a favore e oggi contro; la zona rossa votò pesantemente No nel 2006 e blandamente Sì quest’anno. La sola macro-area che ha votato No in entrambi i casi è stato il Centro-Sud (Lazio, ex-Due Sicilie, Sardegna).

Lo scollamento col Sud è stato riconosciuto da Renzi all’Assemblea nazionale del Pd, in cui ha citato un caso di voto in Sicilia: su ventisei candidati per tre posti di lavoro si erano avuti ventiquattro No e un Sì; tutti i candidati si trovavano al colloquio perché “sponsorizzati” da qualcuno. Secondo Renzi le dimensioni della sconfitta sono dovute all’aver puntato più sui notabili locali che sulle comunità. Analisi che ha bisogno di essere integrata da un altro punto, cioè che proprio le comunità locali sono il punto di forza dei “notabili”: pensiamo all’alto tasso di voti di preferenza nelle elezioni amministrative. 

Anche per questo è assai arduo convincersi che il No sia stato un voto “per la Costituzione antifascista”, così come difficilmente gli elettori di Trump hanno voluto vendicare Sanders. Le presidenziali Usa e la Brexit sono state seguite, nei loro Paesi, da un’impennata di aggressioni razziste; in Italia invece abbiamo avuto il tentato sequestro dell’ex deputato Napoli da parte di una banda di squadristi forconi e il massacro mediatico di una sindacalista, ora ministro, rea di non essere laureata (Di Vittorio aveva la seconda elementare). Posizioni e atti di cui a fatica si cercherà la compatibilità con lo spirito antifascista della Costituzione (che mantiene, s’immagina, la stessa efficacia con cui ha consentito per decenni l’elezione in Parlamento di ex ministri e deputati del regime fascista).

Il voto ha cambiato di poco gli equilibri politici nel palazzo e nel Paese, ma l’interrogativo incombente è: continuerà l’isolamento del Pd da un lato contro un blocco di forze disomogeneo dall’altro, oppure ad essere isolate saranno le forze eversive (pardon, “populiste”), per mano di un ricostituito “fronte popolare”? A meno di modifiche legislative al Jobs Act, pare già cosa fatta la nuova saldatura referendaria tra Cgil e Grillo, quello di «voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati» (a proposito di Costituzione).


Alessandro Zabban

La personalizzazione del voto referendario ha rappresentato un azzardo che alla fine non ha pagato per Renzi. Al di là dell’opportunità politica di assumersi questo rischio, resta un grossissimo errore strategico che non solo indebolisce il proprio partito (che appare ancor più frammentato di prima), ma che potrebbe anche rappresentare un prezioso e inaspettato regalo per le opposizioni, o meglio per quelle opposizioni che, in caso di un rapido ritorno alla urne, sono gia pronte ad affrontare da protagoniste quella che si prospetterebbe come una durissima campagna elettorale. Ci si riferisce in particular modo al M5S ma anche in certa misura alla Lega di Salvini (nonostante le divisioni nel centrodestra).

Impostando il referendum alla stregua di un questionario di gradimento su se stesso e sul suo governo, Renzi ha involontariamente reso piu forte e piu pregna di significati politici la vittoria del “no” poiché il rifiuto di riformare la Costituzione va ora intesa anche come una forte contrarietà di buona parte dell’elettorato nei confronti dell’operato di Renzi e dei suoi collaboratori.

Se è indubbio che il governo Gentiloni sotto il profilo tecnico-istituzionale sia legittimo in quanto ha ottenuto la fiducia del Parlamento, restano invece molti dubbi sulla sua legittimità politica. Il nuovo esecutivo è infatti in tutto e per tutto una riproposizione fedele della squadra messa insieme da Renzi già quasi tre anni fa. E Gentiloni stesso non rappresenta certo una discontinuità forte rispetto alla linea tracciata dal político di Rignano. Anche la perdita (momentanea) del sostegno della destra governativa di Verdini, per quanto positiva, è venuta meno solo per futili questioni di investiture politiche (ALA non ha aderito perché non ha avuto in cambio alcun ministerio) ma resta una condivisione sostanziale di contenuti che restituisce un’idea chiara di che tipo di esecutivo si stia profilando, vale a dire una fotocopia di quello sconfitto al voto referendario.

Il PD si trova così in una situazione piuttosto brutta perché sembra avere solo due alternative ed entrambe poco promettenti: in breve, o punta ad andare il prima possibile alle urne con tutte le incognite del caso, oppure prova a mandare avanti l’esperienza di un governo Gentiloni políticamente renziano ma orfano del carisma magnetico del politico di Rignano, in un contesto in cui già in primavera si potrebbe votare un altro delicatissimo referendum (quello della CGIL sul lavoro) che potrebbe sancire un altra batosta per il PD. In entrambi i casi, la situazione risulta incerta e imprevedibile.

Immagine liberamente ripresa da www.tribunodelpopolo.it

Ultima modifica il Domenica, 18 Dicembre 2016 23:13
Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al "tema della settimana". Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

www.ilbecco.it/diecimani.html
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