Non si è fatto in tempo a gioire per il risultato referendario che a sinistra nuove scosse, non propriamente positive, giungono dall'ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia.
È la sua intervista rilasciata a Repubblica ad animare il dibattito a sinistra. In mezzo al casino istituzionale lasciato da Renzi (che annuncia le dimissioni immediate, poi rimane un giorno in più per scongiurare l'esercizio provvisorio e che adesso con il suo partito ha in mano il destino del Paese almeno per i prossimi cinque o sei mesi) è l'ex primo cittadino arancione a lanciare un'idea che era palpabile da mesi: costruire un campo progressista che interloquisca anche con Renzi.
Subito sono arrivate le risposte negative di quella parte di Sinistra Italiana meno propensa alla ricostruzione del centro-sinistra. Particolarmente netta la chiusura di Fassina (il quale per altro ha maturato una propria posizione sull'Europa che lo rende corrente a sé) ma forte è stata la presa di distanza anche del segretario dell'ormai disciolta SEL, Fratoianni, e della capogruppo a Senato, Loredana De Petris.
La proposta di Pisapia, seppure giusta ed in linea con l'atto di nascita del partito di Vendola appare infatti intempestiva (non si sa ancora se è quale futuro politico avrà Renzi) e soprattutto mancante di analisi rispetto alle politiche concrete che questo campo progressista dovrebbe proporre ai lavoratori del nostro Paese.
Quale campo si può ragionevolmente costruire con quanti privatizzano le poste, hanno in odio l'impostazione parlamentarista, si piegano senza colpo ferire ad un atlantismo fuori dalla storia e dalla grazia di dio? In ultima analisi: se la domanda è giusta (e per chi non vuole limitarsi alla testimonianza lo è), del tutto sbagliato è il mittente. Sarà il congresso di SI (al quale importanti esponenti di SEL come il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, non partecieranno) previsto in febbraio a sciogliere il nodo, sperando che le due parti possano continuare a dialogare non chiudendosi ognuna in granitiche certezze che renderebbero granitiche anche le divisioni in quello che più che un campo è oggi un piccolo orto.
In questi giorni di caos istituzionale, naturale conseguenza dell’avventurismo personalistico renziano, riscopriamo la povertà con 17 milioni 469 mila italiani in condizioni di "grave deprivazione materiale" (un quarto della popolazione) e il 48,3% delle coppie con tre o più figli a rischio povertà, cioè una coppia su due (solo lo scorso anno erano il 39,4%) [vedi qui].
La grande domanda che interroga la più brillanti menti politiche è: la sinistra che fa? Si esercita nella dialettica politica, che volete di più!? Infatti, Pisapia che ha le idee chiare sulla sinistra per cui nella sua “idea di sinistra non c'è chi ha esultato per la vittoria di Trump, chi vuole costruire i muri in Europa, chi vuole lasciar naufragare i barconi dei disperati. Ma c'è chi vota Sì come chi vota No”, pochi giorni prima dell’evento dell’anno (ormai che l’Expo della borghesia illuminata è finito bisogna tornare alle tradizioni) alla Scala, lancia l’idea “per arrivare al governo”: un bel “campo progressista”!
Il nome è importante e definisce tutto, ma non pensate male, ossia che non ci siano i contenuti. Il nostro Pisapia è un pozzo d’idee: governabilità, legge elettorale con premio di maggioranza alla coalizione, nessuna alleanza con Verdini e Alfano. E allora sì che il PD dovrà finalmente essere un partito di sinistra. E allora finalmente avremo il paradiso progressista che le classi agiate milanesi sognano. Io, per mio conto, mi sento già rincuorato.
Ma siccome questa è alta dialettica politica e non volgare politicismo abbiamo pure il tentativo di creare “un esecutivo che permetta al Parlamento la riscrittura di una legge elettorale in linea con la Costituzione" dicono Arturo Scotto e Loredana De Petris di Sinistra Italiana. Piena fiducia in un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale, del quale fanno parte, per fare una legge elettorale in linea con la Costituzione. Ma del resto se esiste il cosiddetto populismo è perché le élite politiche non hanno più argomenti per uscire dai cortocircuiti logici in cui si sono tragicamente infilate.
Pisapia al centro del dibattito di larga parte di ciò che rimane a sinistra del Partito Democratico. Il "sindaco arancione" di Milano, dopo aver aiutato Renzi a non perdere il capoluogo lombardo alle ultime amministrative (con Sala), pare essere diventato come l'extraterrestre di Eugenio Finardi.
La speranza è che porti tutti su "un pianeta su cui ricominciare".
Da una parte ci sono i molti spaesati dalla vocazione di autosufficienza dell'ex sindaco di Firenze (anche se tutti rimuovono lo spirito con cui Veltroni "battezzò" lo stesso partito), oggi pronti a bussare sulla cassa della riforma costituzionale per recuperare quella agibilità conquistata dal centro del centrodestra.
Dall'altra c'è una tradizione socialdemocratica abituata a declinare il conflitto capitale-lavoro in modo "responsabile", "non settario". Il "fallimento della globalizzazione" (la chiave di lettura sotto cui cascano la vittoria di Brexit, Trump ed ora del no) coinvolge direttamente il Partito Socialista Europeo e i Democratici di Sinistra. Renzi e Pisapia sono comodi, tolgono dall'imbarazzo molti: il nemico da additare è nel Campo Progressista.
Il problema è che al Grande Cocomero pensa di rivolgersi anche larga parte della "nuova sinistra". Il falso problema della vocazione settaria o di governo è un gioco delle parti logorato. Cos'è il neoliberismo, a cui tutti (persino firme autorevoli del Sole 24 Ore) pensano di poter additare le responsabilità della crisi sociale ed economica che investe l'occidente? Il Grande Cocomero è quel capitalismo "dal volto pulito" a cui chiedere un buon equilibrio tra mercato e diritti?
Che di Landini, Pisapia, costituendi, appelli, a larga parte della popolazione interessa poco.
Oggi il campo della politica è quello della visibilità: Bertinotti seppe guidare una storica Rifondazione ad alte cifre di consenso. In troppi pensano a quell'ambito, ignorando l'aspetto della progettualità. La popolazione aumenta, il numero di cittadini iscritti ai partiti diminuisce: in questa dimensione il nuovo si identifica solo con i posizionamenti tattici?
Pisapia fa comodo a tutti quelli che non fanno altro che parlarne da giorni. Ignorarlo perché si hanno altre cose da fare, o meglio ancora parlarci per convincerlo di un altro progetto, risulterebbe troppo faticoso.
Per favore, Pisapia, portali via.
Quando Bersani non era ancora caduto in disgrazia si parlò dell’ipotesi che il principale alleato del Pd, Sel, potesse aderire al Partito socialista europeo e successivamente confluire nel Pd stesso. Il baricentro del Pd si sarebbe così spostato a sinistra: un fatto già accaduto agli albori della segreteria Bersani, con l’uscita di Rutelli e altri moderati. Quella mossa non portò bene né a Rutelli né a Bersani ed era oltretutto in contraddizione con il principio di nascita del Pd (rappresentare tutte le anime del centrosinistra). L’ingresso di Sel avrebbe quindi semmai dovuto essere bilanciato dalla parallela confluenza nel Pd dell’altro alleato, Centro Democratico.
La posizione di Pisapia oggi è speculare a quella di Alfano, che all’indomani del referendum costituzionale ha proposto di andare al voto in tempi rapidi con la “coalizione del Sì”. Con la differenza che Pisapia pone una pregiudiziale esclusiva: nessuna alleanza con forze di centrodestra (ma se, dopo le elezioni, quei voti dovessero essere necessari in Parlamento come nel 2013?). Addirittura, secondo l’ex sindaco di Milano, un’alleanza stabile con Ncd e Ala renderebbe il Pd «geneticamente modificato».
Non risulta che Pisapia avesse posto una pregiudiziale simile contro Tabacci, il leader di Cd che votò cinque anni di fiducie a Berlusconi e che anzi lui stesso nominò assessore al Bilancio a Milano. Non si ricorda neppure che Pisapia, o personalità della sua area politica, avessero levato gli scudi contro il voto determinante di Follini, già vicepresidente nel Governo Berlusconi, per la tenuta del Governo Prodi al Senato.
Sembrano piuttosto le forze di centrodestra quelle geneticamente modificate dal contatto con il Pd: grazie al loro voto si è potuta finalmente approvare una legge che riconosce i diritti delle coppie omosessuali e delle coppie di fatto, tentativo che dieci anni fa naufragò ignominiosamente, in una Legislatura in cui pure il centrosinistra aveva una maggioranza autosufficiente in entrambe le Camere. Il gruppo del senatore Verdini ha consentito addirittura l’approvazione del ddl Cirinnà votando la fiducia, pur non avendo neppure un sottosegretario nell’esecutivo né conferendo ad esso, all’epoca, l’appoggio esterno.
Nel breve intervento alla Direzione del Pd, prima di rassegnare le dimissioni da Palazzo Chigi, Renzi ha fatto riferimento all’intervista di Pisapia e riconosciuto la necessità di allargare il campo delle alleanze. Una consapevolezza già presente da anni ed espressa nella formula “partito della Nazione” con cui egli salutò l’adesione al Pd di esponenti provenienti da sinistra (Sel) e dal centro (Scelta civica). Oggi Renzi ritiene che il Pd non possa farsi carico da solo di ulteriori alleanze sociali e debba appoggiarsi a forze esterne.
Resta da decidere se la formula prescelta sarà quella già bersaniana (un alleato a sinistra, uno a destra) oppure se il peso di immagine dei nomi di Alfano, Verdini e Casini (peraltro uscito da un’UdC passata all’opposizione e vicina a Berlusconi) sarà giudicato insostenibile. Questo interrogativo chiama in causa però non solo la sinistra, ma tutto il quadro politico: il centrodestra oggi alleato del Pd potrebbe tornare verso Forza Italia se e solo se questa si staccasse definitivamente dalle forze di estrema destra.
Un'alleanza elettorale fra la sinistra radicale e quella moderata non è necessariamente un male. Dipende sempre dalla situazione politica e dalla fase storica nella quale di opera. Quella attuale, però, non sembra affatto rendere utile e sensata una simile proposta.
Una tale alleanza richiederebbe la presenza di soggetti politici con una identità politica e una struttura organizzativa ben definite in modo da poter negoziare programmi e confrontare visioni del mondo e letture della realtà. Un'opera di sintesi e di sapiente compromesso potrebbero anche avere degli aspetti virtuosi, quantomeno per mettere un freno alla dilagante crescita delle disuguaglianze e smantellamento dei diritti sociali.
Ma i problemi sono di due ordini:
1- la sempre maggiore lontananza ideologica fra le due sinistre, acutizzatasi col referendum costituzionale, rende molto difficile immaginare la possibilità di elaborare un programma condiviso,
2- le suddette precondizioni organizzative e identitarie mancano completamente alla sinistra radicale. Una galassia di partitini e movimenti senza arte né parte e profondamente divisi, anche se messi insieme alla bene e meglio in un alleanza elettorale, avrebbe pochissimo potere contrattuale e finirebbe per piegarsi totalmente all'agenda del PD, che con o senza Renzi, è e sarà sempre un partito che, abbandonata ogni velleità redistributiva e di protezione della fasce sociali più deboli, si limita a candidarsi come gestore delle politiche neoliberiste correnti, in diretta competizione con le destre dalle quali si discosta solo in ambito di difesa dei diritti civili. In questo modo, quel poco che resta della credibilità delle forze di sinistra radicale verrebbe completamente distrutta.
La totale frammentazione della sinistra italiana che, complessivamente, non manca solo di strategia ma proprio di identità politica, richiede uno sforzo titanico non solo nel mettere insieme le varie "anime" della sinistra, ma anche nel chiedersi in maniera seria "che fare?", nell'elaborare alternative e proposte pragmatiche di trasformazione della società. Ma come al solito si rischia di confondere la strategia politica con la tattica elettorale.
Immagine liberamente ripresa da www.tribunodelpopolo.it