L’evoluzione verso un femminismo glamour può essere maggiormente compresa ricollocandolo all'interno del vasto panorama frammentato del femminismo contemporaneo. I femminismi che si sono sviluppati negli anni ‘70 hanno compreso come in un mondo che non considerava le donne dei soggetti agenti, lottare per i propri diritti e la propria autodeterminazione significava lottare per esistere. Alla fine degli anni ’70 le rivendicazioni delle donne si sono spostate dalle piazze alle accademie e alle conferenze mondiali; in questo modo il femminismo è entrato pian piano a far parte del linguaggio delle istituzioni internazionali.
Si è trattato di un passo importante, poiché a partire dagli anni ’80 alcune lotte femministe sono passate da essere controcultura a cultura. Il femminismo, dopo un decennio stantio di lontananza dalle piazze e di forti pregiudizi nei suoi confronti, ha riacquisto negli anni ‘00 mediaticità, anche grazie all'ampliarsi delle conquiste sui diritti civili e alle battaglie contro la violenza sulle donne; gli stessi vocaboli ‘di lotta’ sono entrati nell'uso comune - fino a pochi anni fa era impensabile sentire nei programmi televisivi di intrattenimento le parole gender o femminicidio.
Se da una parte questo passaggio, dalla lotta ‘dura e pura’ alla cultura di massa, risulta necessario in quanto attualmente non si può pensare di creare un cambiamento culturale che contrasti il patriarcato ignorando il mondo dei mass media, dall'altra questa trasposizione ha portato a una semplificazione dei messaggi femministi, che sono in parte divenuti un bene di consumo per le politiche neoliberiste. Questo da una parte permette di veicolare messaggi femministi a settori più ampi della società ma dall'altra parte può risultare pericoloso; basti pensare che i diritti delle donne, godendo di un vasto consenso, sono stati utilizzati per giustificare politiche capitaliste e colonialiste spesso controproducenti per le stesse donne come la guerra in Afghanistan e l’utilizzo delle rivendicazioni per il part-time lavorativo (portata avanti per favorire la conciliazione tra famiglia e lavoro) come scusa della precarietà lavorativa.
Questo però è solo un aspetto del femminismo: non bisogna dimenticare che esso, come movimento con un messaggio e un ideologia unitaria, non esiste, per cui è impossibile inglobarlo in toto. E se alcune lotte –ahimè – sono state incluse nella retorica neoliberista, ci sono anche storie di resistenza che si oppongono con forza alle logiche liberiste ed individualiste. È da decenni infatti che molti femminismi portano avanti un femminismo intersezionale, anti-razzista e anti-capitalista, poiché consci del fatto che la liberazione delle donne non può ignorare le differenze di posizionamento di poteri esistenti anche tra le donne stesse. In questi casi il negare l’esistenza di una sorellanza compatta tra tutte le donne del mondo (come avveniva nel femminismo della differenza) non significa rinunciare all'elemento solidaristico ma significa riconoscere che il genere non deve essere l’unica chiave di lettura dei movimenti di rappresentanza femminile se non si vuole cadere nello stesso errore del patriarcato, ossia quello di una sovra-determinazione di una minoranza sociale. L’esaltazione delle diversità tra donne e la lotta per l’autodeterminazione dei nostri corpi rimane quindi un fulcro centrale per le politiche identitarie di rappresentanza, che non contrasta ma anzi aiuta la lotta contro il capitalismo. Ne è testimonianza l’esistenza di centinaia di movimenti anti-patriarcali e anti-capitalisti che sono riusciti ad avere un potere di cambiamento enorme e che hanno anche superato l’immaginario mediatico del femminismo glamour: se da una parte abbiamo pop star con messaggi femministi soft e H&M che vende magliette con slogan femministi dall'altra abbiamo le donne curde che combattono Daesh, le lotte indigene del COPINH e le battaglie delle donne Argentine, che sono riuscite a creare il movimento Ni una menos, che ha portato pochi giorni fa al primo sciopero globale delle donne.
L'ultima rivoluzione, quella del 1968, ha portato alla ribalta i movimenti antisistemici di tutto il mondo. Tra questi troviamo anche il femminismo. Come spiega però Wallerstein nella sua critica a questi movimenti che hanno progressivamente perso forza, essi sono stati cooptati dal potere.
Così la cooptazione sistemica della resistenza culturale femminista è passata in primo luogo per la mercificazione, quindi attraverso lo snaturamento di ogni prassi di resistenza culturale al capitalismo. In secondo luogo per un individualismo sfrenato che ha condotto la resistenza culturale ad una lotta libertaria tanto facilmente organizzabile (in quanto basata sullo spontaneismo) quanto velleitaria.
Dunque un movimento antisistemico, come quello femminista, che mira alla trasformazione del sistema pur essendo - come tutti infondo - prodotto del sistema, rischia di perdere definitivamente ogni radicalità politica nel giro di boa del nuovo secolo.
Partito come movimento trasversale che interessava sia il movimento operaio e socialista che le correnti liberali e democratiche “borghesi” per l’eguaglianza dei diritti fra donne e uomini, ha traghettato il sesso femminile al suffragio universale, alla eleggibilità delle cariche e alle professioni maschili più prestigiose. L'integrazione del movimento nelle battaglie tipiche della borghesia l'ha reso sempre più disponibile a prostrarsi ai piedi del capitalismo. Ed ecco le battaglie per le quote rosa e per il carrierismo di chi denuncia il soffitto di cristallo da una poltrona di velluto fine.
Insomma l'ultimo femminismo, lungi dal rappresentare la frontiera di una guerra di posizione contro le forze che difendono le ineguaglianze nel mondo, in quanto prodotto più puro dell'universalismo europeo, finisce per essere una delle correnti d'élite più organiche al capitalismo.
Da uomo bianco, eterosessuale, occidentale, laureato e comunista mi sono talvolta interrogato sulla categoria del femminismo (e su tutte le battaglie che non mi riguardano direttamente). Essendo nato all'estero, seppure come cittadino italiano, mi è capitato spesso di comprendere la carica di pregiudizio che accompagna la condizione degli "stranieri". Uno sguardo del dipendente postale quando legge la carta di identità, un commento poco opportuno della persona che per la prima volta legge il tuo patronimico, la confusione della burocrazia statale rispetto ad un'entità statale non più presente (l'Unione Sovietica) con tutto ciò che ne consegue.
Perché dico questo? Perché non mi ritengo perfettamente in grado di entrare nel merito del femminismo e della battaglia che riguarda una condizione non comprensibile in forma piena in prima persona. Provo profondo disagio quando qualche uomo evidenzia i limiti del femminismo "a misura di capitale". Lo stesso disagio provato con chi qualche mese fa auspicava la vittoria di Trump sulla Clinton, ignorando completamente il "prezzo" a carico delle minoranze etniche e di chi "subisce" le politiche repubblicane (di certo non così diverse da quelle democratiche, ma pur sempre peggiori per i soggetti più "deboli" o vulnerabili). Il tema dei diritti civili è separabile da quello dei diritti sociali? In una certa misura sì. Le donne possono vivere meglio o peggio in un sistema capitalista, a prescindere dal socialismo.
Fino a che non ci sarà giustizia sociale non potrà esserci reale libertà. È una giusta affermazione di principio. Inutile avere diritti riconosciuti sulla carta, se poi permane una situazione di sfruttamento. Però è vero che il capitalismo è in grado di adattarsi a diverse situazioni, producendo benessere e sviluppo, anche se poi è inevitabilmente destinato a fasi di crisi e stallo.
Le comuniste e i comunisti sono certi che nessuna delle contraddizioni del capitale potrà essere superata senza il suo stesso superamento (quindi la questione ambientale, quella dell'emancipazione, la piena libertà, et cetera). Questo però non ci deve impedire di accettare che ci possa essere un progresso relativo anche all'interno di un sistema che contrastiamo. Se da uomo bianco, eterosessuale e laureato godo di maggiore libertà di altre persone con caratteristiche diverse, non c'è niente di errato nell'accettare che anche altre categorie si battano per battaglie parziali (e dovrebbe essere un dovere sostenerle e battersi con loro).
Sta poi alle comuniste e ai comunisti dimostrare che ogni battaglia parziale è vana se non si inserisce nel quadro complessivo di una società che non si basi sullo sfruttamento, nella consapevolezza che la discriminazione è una fondamentale base per giustificare la separazione tra un noi e un voi, tra chi guida l'economia e chi è chiamato a farla funzionare, tra padroni e lavoratori. Pensare che la lotta delle donne, priva di coscienza di classe, possa essere funzionale al capitalismo è un po' troppo. Anche quando queste stesse donne chiedono che alle manifestazioni dell'8 marzo non vi siano bandiere di partito o sindacali, perché ogni elemento politico snaturerebbe una battaglia che è principalmente politica, consapevolmente o meno.
Se manca qualcosa a una lotta va aggiunta, non bisogna indebolire la lotta stessa.
Da quando il femminismo è divenuto un movimento esteso oltre un ristretto circolo di élite illuminata esso ha conosciuto sostanzialmente due grandi fasi. In una prima fase, a partire da fine Ottocento, è stato intimamente legato alle lotte del movimento operaio, denunziando le cause sociali dell’abbrutimento femminile nella prostituzione o in lavori manuali di fatica e dal ritmo massacrante (mondine, braccianti, filatrici). Anche le lotte non legate al lavoro e quindi condivise dalle femministe borghesi (massime quella per il diritto di voto) testimoniavano la contestazione di una società non sufficientemente inclusiva.
La seconda fase, avviatasi con il Sessantotto e prodotta dall’incontro tra civiltà dei consumi e mutamento dei costumi sessuali (diffusione dei contraccettivi, legalizzazione dell’aborto), ha visto il movimento inizialmente rendersi autonomo da quello operaio e successivamente assumere un’impronta sempre più individualista. In quest’ultima fase l’accento è stato completamente spostato sulla libertà di scelta della singola donna, senza rilevare che la libertà effettiva dipende in larga parte dall’estrazione sociale e inoltre ammettendo, tra gli oggetti di questa “libera” scelta, anche comportamenti che si rovesciano nel contrario della libertà.
La bandiera del femminismo – qualunque cosa il termine potesse a tal punto significare – è stata quindi rivendicata da esponenti dei più alti strati della società (e in particolare dello spettacolo), spesso fornite di dubbie credenziali in materia: Emma Watson, Angelina Jolie, Amal Clooney, Taylor Swift, Beyoncé…, per le quali il punto sembra essere – come messo in evidenza da alcune commentatrici – non cosa loro possano fare per il femminismo ma cosa il femminismo possa fare per loro.
In questi anni stiamo forse entrando in una terza fase del femminismo, in cui l’incontro tra crisi economica e nuove frontiere etiche (gravidanza surrogata, congelamento degli ovuli…) sta finalmente appannando l’attrattiva di un approccio reaganiano alla libertà della donna. Eloquente, a questo proposito, la controversia che ha coinvolto Emma Watson proprio a ridosso dell’8 marzo: una giornalista anti-femminista l’ha accusata di incoerenza e ipocrisia per aver posato a seno (semi)nudo in un servizio fotografico. L’attrice ha ribattuto che il femminismo è per lei libertà di scelta, per la precisione poter dire «“voglio indossare un abito” o “non voglio indossare un abito”, “voglio questo tipo di futuro” oppure “non voglio questo tipo di futuro”», e non invece «un bastone con cui colpire altre donne». A questo punto anche l’osservatore più pigro si renderà conto che la scelta del proprio futuro è possibile solo se si hanno adeguati mezzi economici e sociali e che la scelta specifica di posare o meno nuda per un fotoservizio riguarda una platea davvero ristretta di donne, le quali sono invece spesso alle prese con problemi un po’ più prosaici.
La risposta della Watson ha infatti innescato la partecipazione al dibattito, fin allora abbastanza frivolo, di studiose che hanno messo in luce come il femminismo non sia affatto legato a una completa libertà di scelta bensì riguardi piuttosto un’esigenza di giustizia sociale. Nelle parole della ricercatrice Finn Mackay, «alcune donne scelgono cose terribili, come lavorare per partiti politici che negano alle donne il diritto all’aborto e alla sanità o negano alle madri l’accesso allo stato sociale […] La cosa più radicale che le donne possano fare è tenere indosso i loro vestiti e aprire la bocca per ragionare in termini politici».
Ha recentemente avuto un'alta risonanza mediatica la statua di bronzo raffigurante una bambina che, posta di fronte al toro di Wall Street, lo fronteggia impavida. Un ingenuo marxista come il sottoscritto potrebbe essere portato a pensare che il messaggio veicolato dalla peculiare installazione rappresenti la lotta delle donne oppresse contro un potere economico e finanziario ingiusto. Sembrerebbe naturale leggere nell'opera d'arte una doppia critica, tanto al patriarcato machista quanto al sistema finanziario.
Purtroppo però non è così. Scrive l'Huffington Post: "commissionato da State Street Global Advisors, terzo asset manager più grande del mondo, il progetto ha lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica sul ruolo delle donne. L'istallazione fa parte di uno sforzo più ampio: quello di chiedere a 3500 aziende di investire di più sulle donne e aumentare il numero di dirigenti femmina". Svuotato da ogni riferimento alla giustizia sociale e all'oppressione economica ed esistenziale, la statua della bambina ha il mero significato di reclamare l'aumento del numero di donne in posizione di potere all'interno dello spietato e cinico sistema finanziario mondiale. Siamo in presenza di un femminismo depurato e isolato rispetto a tutte le altre lotte (sociali, economiche, per il riconoscimento) che ha come unico obiettivo quello di far sì che le donne possano concorrere a gestire, alla pari degli uomini, il sistema di sfruttamento globale. Questo femminismo predatorio, del tutto in contrasto con altri movimenti sociali e per i diritti delle donne, fa tanto più paura quanto più viene a far parte della narrazione egemonica delle classi dominanti. Nancy Frazer parla a proposito, giustamente, di un neoliberismo progressista, ovvero di un sistema economico di destra che riproduce le sue condizioni di dominazione tramite una cultura egemonica gouchiste e liberal.
Così un femminismo glamour da caffè letterario che rivendica solo i diritti civili e che enfatizza l'aspetto individuale e identitario non fa più paura, anzi il suo potenziale sovversivo viene assorbito e, spogliato della sua carica contestatrice, utilizzato allo scopo di mantenere lo status quo. La carica retorica dei discorsi della cantante Taylor Swift o dell'attrice Emma Watson, che tanto piace alle élite cosmopolite e alle istituzioni internazionali come ONU e FMI, è l'emblema di un politically correct che rischia di fagocitare anche il mondo femminista e ridurlo ad ancella del sistema neoliberista transnazionale. Da una parte si tende a tornare a un femminismo liberale ottocentesco, interessato solo a rimuovere alcune barriere formali e a rompere il soffitto di cristallo senza mettere in discussione le altre forme di oppressione, dall'altra si reifica eccessivamente un approccio edonista ("disobbedire godendo") e iperindividualista che non fa più scalpore nemmeno coi suoi slogan più raccapriccianti come "non ho mai abortito ma avrei voluto farlo". Come spesso accade, il prezzo pagato per l'attenzione mediatica è stato uno snaturamento che rischia di essere fatale. La contingenza storica è estremamente negativa, ma occorre ripartire da quel femminismo (oggi purtroppo minoritario) in grado di dare una lettura più approfondita e articolata dell'oppressione e del conflitto sociale.