Un paese nel quale Ali Mohammed an-Nimr, ragazzo di appena ventun’anni, andrà incontro ad una condanna a morte per decapitazione per poi essere esposto, a mo’ di pubblico monito, crocifisso nella pubblica piazza. Il ragazzo, già considerato pericoloso in quanto nipote dell’imam Sheikh Nimr Baqr al-Nimr, dissidente sciita vittima per decapitazione della giustigia regia, è stato arrestato nel 2012, quando aveva solo diciassette anni, per aver partecipato ad una manifestazione contro il governo. Sotto tortura e senza alcuna assistenza legale, ha ammesso di aver non solo partecipato ma “addirittura” organizzato la manifestazione e di aver tirato molotov contro la polizia. Da quanto riportato dall’organizzazione Reprieve, l’unica possibilità di salvezza è il perdono del monarca (sempre per restare in tema).
Tutto ciò avviene mentre Faisal Trad, ambasciatore saudita a Ginevra presso le Nazioni Unite, viene eletto alla presidenza di un gruppo di esperti che avrà il compito di vigilare sulle violazioni dei diritti umani nel mondo.
Come accusare di cinismo, quindi, chi non si meraviglia del fatto che la crociata della difesa dei diritti umani venga organizzata contro paesi più scomodi ma non contro gli alleati storici dell’imperialismo a stelle e strisce in Medio Oriente, soprattutto in un momento come questo nel quale la firma di un accordo con l’Iran, potenza sciita, ha messo duramente a rischio la tenuta dei rapporti con la maggiore monarchia del Golfo. In un momento, in aggiunta, nel quale l’Arabia Saudita continua a giocare un ruolo preminente nella guerra al governo siriano di Bashar Al Assad e nel quale la determinazione occidentale a non scendere a compromessi per un superamento della crisi porta le “grandi democrazie” ad ingorare il doppio filo che collega l’Arabia Saudita al Califfato dell’Isis.