Mercoledì, 23 Aprile 2014 00:00

Sul ciclo di formazione de Il Becco

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Di Yuri Borgianni

Purché si assista quotidianamente al restringimento sostanziale del numero dei militanti delle forze politiche di sinistra e comuniste (come del resto succede per tutte le altre), il dibattito sui temi fondamentali relativi alla crisi economica e sociale del Paese non riesce a svilupparsi. Il problema pertanto non riguarda difficoltà gestionali nell’organizzazione di molte persone che abbiano volontà di dialogare, capire, approfondire. Anzi, forse l’assenza di una discussione collettiva e non banale sui temi del lavoro e della crisi è proprio la causa scatenante dell’abbandono della fiducia riposta nella politica e nella ricerca di capri espiatori, scorciatoie, slogan ad effetto: tattiche che poi si scontrano con i fatti, che notoriamente hanno la testa dura.

Il merito de “Il Becco” è senz’altro quello di ravvivare il dialogo coinvolgendo anche personalità ed intellettuali di una certa caratura. E capita anche di verificare come soggetti con formazioni politiche affini (fondamentalmente marxiste) partano da analisi del tutto convergenti e producano conclusioni diverse. Credo che proprio su queste conclusioni dovrebbe svilupparsi un ulteriore sforzo di analisi e comprensione. Ma veniamo al punto.

Secondo una lettura marxiana della situazione attuale (ma che avrebbe condiviso anche Keynes) le sperequazioni tra la distribuzione della ricchezza e quote crescenti di reddito che finiscono in risparmi producono un rallentamento della circolazione del denaro che produce la crisi. In soldoni, nonostante gran parte dei salariati, dei pensionati, dei precari, delle partite IVA più o meno fittizie, ma anche dei piccoli imprenditori siano costretti a spendere tutto il reddito disponibile fino all’ultimo euro, si manifesta la crescita della quota della ricchezza che non viene destinata alla spesa o ad investimenti (ovviamente grazie alle enormi disponibilità di pochi privilegiati). Del resto, la legge fondamentale della caduta tendenziale del saggio di profitto scoraggia la ripresa degli investimenti nei Paesi a capitalismo maturo (come l’Italia), dove la profittabilità è ormai scesa a livelli non gratificanti. In aggiunta a ciò, le capacità del Welfare State keynesiano (che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra) di intervenire per sbloccare la spesa, far circolare la moneta, ridistribuire la ricchezza (ad esempio tramite i servizi pubblici) si sono inceppate: sia per l’affievolirsi dell’effetto moltiplicatore, sia poi per il ritorno di fiamma dei paradigmi neoliberisti che porta alle attuali sciagurate ricette rigoriste. [Personalmente consiglio vivamente l’ascolto dell’intervento di Gian Paolo Patta particolarmente chiaro sulla prima parte del ragionamento e quello di Giovanni Mazzetti che ha articolato meglio il secondo spezzone dell’analisi da me sintetizzata].

Chi si batte (da sinistra) per la trasformazione della società (e magari per l’emancipazione dell’umanità) si trova di fronte, fondamentalmente, a due strade, che qui schematizzo in maniera assai rozza. In realtà, la descrizione delle ricette proposte e delle possibili prospettive tratteggiate negli incontri mostrano una certa preponderanza verso una delle due soluzioni, ma non certo escludono elementi e chance offerte dall’altra.

Da una parte si sostiene che ai disastri provocati dalla controrivoluzione liberista si debba rispondere ripristinando i diritti e le tutele sottratti a partire dagli anni ’80-‘90 del secolo scorso [sintetizzati nell’intervento di Alessio Branciamore]. Ciò si dovrebbe materializzare grazie ad un ritrovato intervento dello Stato in economia, che permetta la creazione di nuovi posti di lavoro e quindi un nuovo arricchimento generalizzato delle classi subalterne. Si osserva infatti come, all’interno del ciclo capitalista che perdura dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli anni in cui le politiche keynesiane sono state applicate coincidono, grossolanamente, con i periodi storici di maggiore crescita del reddito e della ricchezza delle nazioni.

Dall’altro lato, si considera come l’avvenuto aumento della produttività permetta già di soddisfare i bisogni dell’uomo. Si sostiene, di conseguenza, che la ricerca di meccanismi che favoriscano l’attivazione di nuove forme di lavoro salariato sia fondamentalmente anacronistica: sia che questo avvenga tramite l’intervento massiccio dello Stato, sia che questo si voglia illusoriamente fondare sulla spontaneità del mercato e del laissez-faire. Benché molte persone siano (paradossalmente) portatrici di molti bisogni da soddisfare, le loro necessità non possono tradursi in domanda (dato lo stato di indisponibilità finanziaria, dovuto fondamentalmente alla loro espulsione dall’attività produttiva), alla quale rispondere con l’offerta di mercato. L’unica prospettiva praticabile risulterebbe quindi la redistribuzione del lavoro, la partecipazione di tutti al processo produttivo tramite la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e della vita lavorativa (in totale controtendenza con la Fornero, insomma!).

Al termine degli incontri (ed influenzato da altre letture) mi chiedo perciò: è questo il nodo fondamentale che i comunisti e la sinistra debbono affrontare oggi per avanzare una proposta politica all’altezza dei tempi ed in sintonia con l’analisi della situazione concreta? L’insegnamento di Marx, può aiutarci ad interpretare, oltre alle dinamiche del capitalismo, anche il quadro generale, il livello di obsolescenza del sistema e quindi la necessità di effettuare una rottura rivoluzionaria? Il metodo dialettico con cui Marx produce l’analisi della storia e delle relazioni umane è ancora valido allo scopo per non ricadere nell’errore di chi immagina un’evoluzione meccanicistica e gradualistica dei rapporti di produzione?

Immagine tratta da: www.elmonomudo.com

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