Mercoledì, 01 Gennaio 2014 00:00

Ecuador: a rischio il polmone verde del paese

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Lungo il confine nord-est dell'Ecuador la natura ha creato qualcosa di unico: qui gli ecosistemi amazzonici e andini si incontrano lungo l'equatore mescolandosi e garantendo una biodiversità unica al mondo in un contesto in buona parte incontaminato. In un solo ettaro ci sono più specie di alberi che in tutto il Nordamerica. Alcune cifre possono renderci facilmente chiara la rarità e l'importanza di questa piccola fetta di mondo: 153 specie di anfibi (record mondiale), oltre 600 specie di uccelli e 183 di mammiferi. Tutto questo è tutelato dai 10.000 km2 del Parco Nazionale Yasunì, dichiarato Riserva della Biosfera dall'UNESCO, nel quale vivono pure svariate popolazioni indigene fra cui Tagaeri e Taromenane, le ultime a non aver mai avuto, volutamente, alcun tipo di rapporto diretto con la “civiltà”.

Una veduta del Parco Nazionale Yasunì. [http://i42.tinypic.com/vd3bl3.jpg]

Quindi tutto bene e tutto bello? Purtroppo no ed ancora una volta la minaccia proviene da interessi che ormai da decenni logorano mortalmente il polmone verde del pianeta e che continuano, pur in forme nuove, a mettere in ginocchio le realtà sociali dell'America Latina. In questo caso si tratta di interessi petroliferi: si è calcolato che nell'area le riserve petrolifere ammontano a circa 846 miliardi di barili, il 20 % di quelle totali dell'Ecuador.

Dagli anni '60 fino al '92 il paese ha dovuto subire le politiche predatorie della compagnia petrolifera Chevron-Texaco, responsabile di un disastro naturale che ha pochi eguali: la fuoriuscita di almeno 71 milioni di litri di residui di petrolio e di 64 milioni di litri di petrolio greggio su oltre 2 milioni di ettari di Amazzonia ecuadoriana, Yasunì incluso; nel contempo le popolazioni del posto hanno visto un aumento vertiginoso del tasso di tumori, causato in primis dall'acqua tossica. Già vittima del neo-liberismo e del capitalismo selvaggio, la società civile ecuadoriana avviò nel 2007 l'iniziativa Yasunì ITT, incentrata sulla preservazione delle tre aree ancora vergini del parco: Ishpingo, Tiputini, Tambococha. Immediatamente aderì il presidente socialista Rafael Correa e nel giro di poco prese il via una moratoria internazionale che portò alla creazione di un fondo benefico amministrato dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite.
L'idea era di evitare estrazioni nell'area, ricorrendo al supporto della comunità internazionale che avrebbe dovuto coprire il 50% del valore delle riserve, 3,6 miliardi di dollari dilazionati in 12 anni. Si sperava nel buon senso dell'Occidente: i cambiamenti climatici erano ormai una realtà evidente così come era evidente che la prosperità del Nord era stata possibile grazie allo sfruttamento scriteriato delle periferie del Sud.
Ma ad agosto il presidente Correa ha liquidato l'iniziativa, prendendo atto del suo fallimento: i 13 milioni di dollari raccolti in tre anni sono più un insulto che una dimostrazione di buoni intenti, soprattutto di fronte alla povertà e all'analfabetismo dilaganti in Ecuador.

Dichiarando che il mondo aveva voltato le spalle all'iniziativa, con un atto di totale irresponsabilità, il presidente ha affidato alla compagnia statale Petroamazonas il compito di esplorare e trivellare nelle zone ITT, rassicurando però l'opinione pubblica sulla non-invasività dei progetti: l'area intaccata sarebbe stata l'1% del totale, non sarebbero state costruite nuove strade e sarebbero stati sfruttati invece “percorsi ecologici”. Purtroppo queste dichiarazioni erano basate sulle analisi poco affidabili della Petroamazonas.

Uno dei “percorsi ecologici” creati dalla Petroamazonas nel Blocco 31, confinante con il Blocco ITT. [http://i42.tinypic.com/4sbd6t.jpg]

Ma non è finita qui. Già prima della fine dell'iniziativa Yasunì-ITT il presidente portava avanti la Decimo Primera Ronda Petrolera, piano di suddivisione dell'intera Amazzonia ecuadoriana in 29 lotti di concessioni petrolifere, oltre 3 milioni di ettari: svendita al miglior offerente, probabilmente per ripianare l'oneroso debito contratto con la Cina, scavalcando letteralmente i diritti delle sette popolazioni indigene che abitano l'area.
Le proteste si sono estese a macchia d'olio e la risposta del governo “socialista” non si è fatta attendere articolandosi in censura, repressione e criminalizzazione di chi dissente: emblematica la chiusura della fondazione ambientalista Pachamama, accusata di aver partecipato all'aggressione dell'ambasciatore cileno e di un uomo d'affari bielorusso. Questo sarà il pretesto per tentare di chiudere tutte le altre associazioni ambientaliste, soprattutto ora che stanno promuovendo una raccolta firme per avviare un referendum popolare contro i nuovi interventi nel parco.

E nonostante tutto, anche credendo nelle buone intenzioni del governo (tralasciando i comportamenti autoritari e di repressione del dissenso), il paese non otterrà niente dal saccheggio indiscriminato dell'Amazzonia. Probabilmente, se continuerà a basarsi quasi unicamente sull'esportazione del petrolio, verrà afflitto dal cosiddetto “male olandese”: esportazioni di grandi quantità di risorse naturali, massiccio afflusso di valuta estera, aumento del valore della moneta locale, riduzione della competitività dei prodotti nazionali, di conseguenza importazione di beni stranieri concorrenti e deindustrializzazione interna, un po' come la Spagna imperiale del XVI secolo.

Quella che serve è un'alternativa economica, sociale e politica al sistema capitalista ecuadoriano: è necessario qui come in tutto il mondo valorizzare le energie rinnovabili, rendere la tutela ambientale non un peso da trascinare faticosamente dietro ma una risorsa sia per un turismo consapevole che per le comunità locali; la povertà è combattibile in mille modi, fra i peggiori la svendita del territorio alle multinazionali, fra i migliori quelli che ho precedentemente citato. È tutt'altro che un percorso facile ma è possibile: basta la volontà di farlo. Altrimenti, continuando su questa strada, le uniche cose che ci riserverà il futuro saranno polvere e cenere.

Immagine tratta da: www.dailystorm.it

Ultima modifica il Lunedì, 30 Dicembre 2013 21:57
Pietro Antonio Spinelli

Ho 21 anni, sono nato a Pisa ed attualmente vivo a Pontedera. Finito il liceo classico mi sono iscritto al corso di storia dell'Università di Pisa, cosa che si è dimostrata una scelta felice. In passato ho scritto in alcuni giornalini studenteschi (Easy Press prima, Gagarin successivamente) nei quali, per interesse, ho affrontato tematiche incentrate su cultura videoludica, ambiente e Terzo Mondo.

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