Sabato, 15 Agosto 2015 00:00

Se la politica estera USA naviga in acque burrascose

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La politica estera come terreno esplosivo pericolosissimo delle difficoltà di riadattamento alla realtà mondiale da parte USA
Riflessione generale pessimista ormai obbligata

Il titolo e l’inizio di quest’articolo si limitano a segnalare un problema non di oggi ma ormai acuto della gestione politica degli Stati Uniti, non solo di quella estera ma anche di quella interna. La parte di superpotenza politica mondiale basata sulla superpotenza economica e militare e, conseguentemente, con licenza di uccidere sta volgendo da tempo al declino. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti realizzavano il 40% del PIL mondiale, oggi sono sì e no al 20. Il crollo dell’Unione Sovietica e il collasso della Russia fecero sperare agli Stati Uniti che la prospettiva fosse un mondo unipolare, ma ciò fu presto contraddetto dall’emergenza cinese e, a ruota, di altre grandi realtà della ex periferia capitalistica, tra le quali la stessa Russia. Né l’Europa occidentale, paralizzata economicamente e politicamente da un tentativo egemonico tedesco incapace di egemonia e privo di forza militare, è palesemente in grado di integrare la forza degli Stati Uniti (come mostrano chiaramente le mezze guerre a Libia e Siria, cioè due impressionanti autoreti, e l’incapacità di esistere nella crisi medio-orientale e dinanzi al conflitto Russia-Ucraina, e come Obama appare ormai obbligato a registrare).

Le iniziative attuali di politica estera di Obama sembrano molto appartenere al campo delle oscillazioni e delle incertezze tipiche dell’intellettuale statunitense liberal prestato alla politica. In parte è così. Ma soprattutto è il risultato del quadro di cui sopra, inoltre di una contraddizione di fondo irrisolta propria storicamente degli Stati Uniti. Essa consiste nel fatto che la politica dei governi degli Stati Uniti è indubbiamente da sempre orientata al benessere politico e sociale, ma a spese di aree dominate (concretamente, dell’America Latina) e perciò da gestire come colonie di sfruttamento, attraverso intromissioni politiche pesanti, ricatti economici, golpe pilotati dai servizi, ecc. Legami storici ed eventi politici concreti (la vittoria sovietica sul nazismo, l’occupazione sovietica dell’Europa centrale) hanno voluto che, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti adottassero come loro partner l’Europa occidentale, consentendole di proseguire in forma neocoloniale il proprio precedente colonialismo. Ma, essendosi trattato di partner deboli e a disposizione di ogni richiesta statunitense come tali nonché in quanto garantiti dall’ombrello militare statunitense, è avvenuta in questa parte dell’Europa una selezione sempre più a rovescio dei ceti politici di governo, fino alle mezze calze attuali. Sicché oggi gli Stati Uniti sono sostanzialmente soli a gestirsi i loro problemi. L’America Latina ha intrapreso la strada della propria emancipazione. Addirittura il tradizionale Forte Alamo israeliano si permette di prendere gli Stati Uniti a pesci in faccia dando una mano sia allo Stato Islamico che alla campagna elettorale repubblicana. Addirittura le monarchie petroliere armate dagli Stati Uniti contro le loro popolazioni si permettono di fare più o meno la stessa cosa, attualmente sin aiuto ad al Qaeda e dintorni. Addirittura la Turchia dell’assassino di curdi e di ragazzi di sinistra Erdoĝan si permette di violare accordi militari appena presi con gli Stati Uniti, profittando di una visita di Obama in Africa.

Tutto questo, guardando agli Stati Uniti, cioè al loro indebolimento, è bene, in ultima analisi? Nella mitologia ossificata di una parte della sinistra “radicale” sarebbe bene. In realtà è di una pericolosità estrema, data la mancanza di qualcosa di avanzato civilmente in termini ampi che si metta all’opera in Occidente, e negli Stati Uniti prima di tutto. La fascistizzazione in corso dei repubblicani statunitensi rappresenta una minaccia terribile per l’intero pianeta, sia sul piano della limitazione delle aree di guerra che su quella della crisi climatica. La fascistizzazione nazionalista e razzista più o meno organica in parte ampia dell’Europa dell’opposizione al neoliberismo (in Italia da parte di Salvini, Meloni ma anche Grillo) non è che la proiezione locale, a sua volta, della parte peggiore della realtà statunitense, consentita, come negli Stati Uniti, dal carattere liberal allo sbando delle (ex) sinistre “grosse”.
Ecco perché sostenere la causa curda è importante. Ecco perché è anche importante sostenere la causa palestinese. Si tratta di due trincee popolari democratiche e civili avanzate nel deserto culturale terrificante medio-orientale, diventato un tritacarne a opera dapprima delle guerre statunitensi, poi del loro tentativo di imitazione anglo-francese, infine di ben tre fondamentalismi inferociti che si sono messi in proprio, quello sunnita, quello sciita e quello ebraico.

Obama è incazzato: si è accorto, parrebbe, che gli amici storici medio-orientali sono diventati i maggiori nemici. Sarà coerente?
Il ricorso alla logica avrebbe dovuto far capire da tempo a Obama come stavano le cose. Il fatto che lo stia capendo con estremo ritardo depone male. Già ha combinato un mezzo disastro mettendosi d’accordo con Erdoĝan e, invista di quest’accordo, rifiutando di fornire materiale militare adeguato ai curdi siriani. Nei giorni scorsi ogni osservatore si è interrogato sui termini precisi di tale accordo: essendo evidente che Erdoĝan tende alla riapertura della guerra della Turchia contro i curdi del sud-est del paese e i loro profughi nel nord dell’Iraq, allo scopo di giungere rapidamente a elezioni anticipate vincenti, ed essendo evidente che lo Stato Islamico è stato aiutato in questi due anni dalla Turchia e che molti fatti mostrano come quest’aiuto non sia per nulla venuto meno. Un dato valga per tutti: le luci notturne, gestite dall’esercito turco, sul confine tra la Turchia e le parti di Siria controllate dallo Stato Islamico tuttora capita che vengano spente per ore, onde consentire il viavai tra Siria e Turchia di miliziani dello Stato islamico, il ricovero di loro feriti, il loro rifornimento di armi, la loro vendita di petrolio dei pozzi siriani e iracheni in mano allo Stato islamico, ecc.
I mass-media italiani si sono ben guardati dal dare notizia di una serie di dichiarazioni statunitensi sul contenuto esatto dell’accordo militare Stati Uniti-Turchia. Non sanno come gestire politicamente un accordo benedetto dalla NATO, quindi anche dal governo italiano, di cui era noto che la Turchia era appoggiata nella sua lotta contro il “terrorismo”, fosse esso quello vero dello Stato Islamico o quello falso del PKK, dopo aver sottolineato per mesi il ruolo militare decisivo nella lotta allo Stato islamico da parte dei curdi del PYD, cioè della sezione siriana del PKK. Va da sé che i mass-media italiani se non c’è la velina la notizia per quanto importante non possono neppure accennarla. Mentre la velina è presa per oro colato: la RAI si è affrettata a presentare le manifestazioni popolari in corso nelle città curde, attaccate brutalmente dalla polizia, come “manifestazioni del PKK”. Né i mass-media italiani hanno sinora dato notizia della dichiarazione ufficiale del governo tedesco deplorante il carattere disastroso, guardando alle prospettive della crisi medio-orientale, della guerra riavviata dalla Turchia contro il PKK e delle provocazioni di polizia contro la sua popolazione curda.
Ancor meno, come fossero quisquilie, si ha eco da parte dei mass-media italiani delle recentissime dichiarazioni statunitensi sul contenuto degli accordi militari con la Turchia e su ciò che gli Stati Uniti rivendicano che da parte turca avvenga: risolvendo così gli imbarazzanti interrogativi in materia, tra i quali quello del rischio di un abbandono dei curdi siriani alla tenaglia Turchia-Stato Islamico.

Le prime dichiarazioni, a una platea di una decina di giornalisti, quindi “pesanti”, sono state dello stesso presidente Obama appena rientrato dall’Africa. A proposito delle operazioni militari turche cosiddette contro il PKK, Obama ha affermato di aver messo in guardia a suo tempo Erdoĝan di come sia lo Stato Islamico la minaccia fondamentale in Medio Oriente, dunque come lo sforzo militare vada concentrato contro di esso. Gli Stati Uniti, ha aggiunto Obama, hanno dichiarato alla Turchia che gli attacchi militari al PKK non debbano andare oltre il carattere di risposte difensive ad attacchi del PKK. Essi inoltre (da sottolineare) hanno chiesto alla Turchia cosa intenda fare per chiudere il confine siriano, onde bloccare il passaggio di militanti stranieri dello Stato Islamico verso la Siria (risultando essere la Turchia la tappa fondamentale intermedia di questo passaggio), e hanno sottolineato come debba essere fatto in questo senso ogni sforzo.
Gli Stati Uniti, ha dichiarato in un momento successivo il Dipartimento di Stato, sono consapevoli di come gli attacchi aerei della Turchia al PKK siano suscettibili di complicare la lotta contro lo Stato Islamico. Parimenti gli Stati Uniti avvertono una diversità di interpretazione sull’uso da parte dell’aviazione statunitense della base di İncirlik (la Turchia non vuole che gli aerei statunitensi che la usano bombardino le posizioni dello Stato islamico che fronteggiano i territori sotto controllo curdo-siriano): nel quadro, più in generale, di una preoccupazione turca nei confronti delle vittorie curde in territorio siriano e dell’espansione dei territori in Siria sotto controllo curdo, così come di una forte preoccupazione turca nei confronti del fatto che gli Stati Uniti considerano il PYD un alleato affidabile e una forza decisiva nella guerra allo Stato Islamico. Gli Stati Uniti, infine, hanno chiesto alla parte turca di attendersi che le forze curdo-siriane non siano messe in difficoltà e ancor meno attaccate: e, ha affermato sempre il Dipartimento di Stato, la Turchia avrebbe accettato questa richiesta statunitense.

Avrebbe accettato: salvo, subito dopo l’entrata in vigore dell’accordo, aver bombardato postazioni dei curdi di Kobanê, magari per tastare il polso statunitense. Funzioneranno queste posizioni e queste richieste statunitensi? Non c’è da scommetterci. I sondaggi elettorali svolti in questi giorni in Turchia indicano una crescita dei consensi all’AKP di Erdoĝan, che lo porterebbe a conquistare la metà dei seggi parlamentari, mentre gli altri partiti tendono tutti quanti ad arretrare, HDP (curdo legale) compreso, benché esso non cali sotto alla soglia di sbarramento del 10%. Nella logica di Erdoĝan questo significa solo un incoraggiamento ad andare avanti nell’attacco frontale contro il PKK e contro la popolazione curda di Turchia.

I fatti più recenti riguardano la visita di una delegazione di parlamentari dell’HDP a Öcalan, posto di nuovo in condizione di massimo isolamento carcerario. Öcalan nel corso della visita ha dichiarato la sua disponibilità, alla condizione che venga meno il suo isolamento, a selezionare e a orientare, pur indirettamente, una delegazione curda che sia stata riconosciuta da parte turca abilitata a riavviare le trattative per una soluzione valida e definitiva della questione curda in Turchia.
Infine una notizia importante riguardante un altro grande “alleato” degli Stati Uniti in Medio Oriente: Israele. Obama ha formalmente diffidato il governo di questo paese dalla prosecuzione dei suoi interventi diretti nella campagna pre-elettorale per la selezione dei candidati alla Presidenza, a favore dei repubblicani, attraverso il finanziamento, in particolare, di trasmissioni televisive e delle maggiori associazioni e lobbies ebraiche statunitensi, aventi come tema centrale l’obiettivo, pericolosissimo per la pace mondiale, del fallimento degli accordi sul nucleare iraniano (una novità assoluta questo tipo di interventi per gli Stati Uniti, abituati, al contrario, a interferire in tutti i modi nelle faccende interne di altri paesi).
Il gioco dentro alla crisi dell’egemonia planetaria statunitense e su come risolverla si è fatto davvero duro, e riguarda, ahimè, il mondo intero.

Ultima modifica il Giovedì, 13 Agosto 2015 14:47
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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