La paura degli immigrati, il rifiuto all'accoglienza - sulla base di quote comuni europee - di profughi provenienti dai conflitti mediorientali, è stata infatti il motore principale che ha spinto larghe fasce della popolazione inglese e gallese verso il rifiuto del processo di integrazione europea. Questa avversione nei confronti dei processi migratori (ed anche nei confronti, è bene ricordarlo, di centinaia di migliaia di italiani che vivono e lavorano nel Regno Unito) non è un elemento di secondo piano nella valutazione che, a sinistra, si può dare su quanto avvenuto il 23 giugno.
Difficilmente da un risultato generato da quel sottofondo ideologico e sposato - secondo le prime analisi dei flussi elettorali - da buona parte dei lavoratori e dei pensionati a sud del Vallo di Adriano, potrà sbocciare qualcosa di positivo per i laburisti di Corbyn o per le, minuscole ed ininfluenti, formazioni alla sua sinistra.
Altro dato di cui andrà necessariamente tenuto conto, saranno le conseguenze che la Brexit avrà sull'economia del Regno Unito e su quella di gran parte dei Paesi che lì esportano (Italia compresa). Un forte calo del PIL britannico, già all'orizzonte, avrà infatti come prima conseguenza (probabilmente anche in caso di futura vittoria dei laburisti in elezioni, comunque, ancora di là da venire), il dispiegarsi di nuove misure di austerità e dunque di tagli a sanità e prestazioni sociali.
Detto degli elementi negativi, può, chi si schiera on the left side, intravedere qualche segno positivo dall'esito referendario? Probabilmente sì, ma unicamente da una disgregazione della Gran Bretagna.
Le forze dirigenti dei nazionalismi periferici britannici (lo Scottish National Party, il Plaid Cymru gallese e, con una propria specificità, il Sinn Fein), tutte contrarie alla Brexit (64% di sì all'Unione in Scozia e 55% in Ulster), sono - tutte, pur con accenti diversissimi - collocate a sinistra e dunque antirazziste.
Una disgregazione - che comincerà, come già annunciato dalla sua premier, Nicola Sturgeon, dalla Scozia - guidata da questi partiti rappresenterebbe un duro colpo in primo luogo per la NATO (che ne uscirebbe più piccola) e la possibilità, per quanti abitano in quelle regioni, di una politica economica maggiormente progressista. Per quanto concerne l'Irlanda del Nord, un'Ulster isolata dal contesto europeo e dai propri “cugini” (o “fratelli”) del sud, sarebbe l'occasione più ghiotta, e probabilmente l'ultimo treno, per convincere i protestanti del nord a riunirsi nella, cattolica e meno sviluppata, Repubblica d'Irlanda.
Comunque andranno le cose il processo di “disconnessione” del Regno Unito dall'UE si preannuncia lungo e pieno di rischi per i lavoratori britannici.
Si poteva rimanere, e sarebbe stato meglio, si poteva uscire, ma uscirne meglio.