Mercoledì, 30 Novembre 2016 00:00

Il fascino del populismo?

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Da più parti, dopo un'epoca di condivisa riprovazione, si invoca in questo periodo la categoria del “populismo” come risposta salvifica o come strategia vincente. La Brexit e la vittoria di Donald Trump alle elezioni USA hanno di sicuro attirato ulteriormente l'attenzione verso il populismo di destra ed i suoi pericoli per l'Europa e per le minoranze.

Sempre dal Regno Unito e negli USA vengono i due fenomeni, in realtà molto diversi, su cui si concentra l'attenzione degli interessati al populismo di sinistra, la mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders e la leadership laburista di Jeremy Corbyn, con annesso il fenomeno di Momentum, sua organizzazione di supporto.

Un “populismo” nebuloso quindi, categoria scivolosa in cui non si riesce a separare bene la retorica dalla realtà dei processi politici. Sistematizzazioni a livello di teoria politica della “opzione populista” in una prospettiva radicale di sinistra in realtà esistono, e si devono principalmente all'opera di Ernesto Laclau e (secondariamente) Chantal Mouffe.

Il populismo “di destra” non ha invece alle spalle un vero lavoro teorico, anche se (come si vedrà) il suo discorso nel contesto contemporaneo è sicuramente più diffuso e più antico.

Va subito specificato che solo incidentalmente si esaminerà il lavoro critico degli accademici citati, che merita uno studio più approfondito e tutt'altro tipo di attenzioni. Questo è il primo di una piccola serie di articoli che condividono temi e impostazione e articolano una serie di riflessioni sparse sul tema del populismo, che possono essere concepiti come seguiti ed espansioni di questo, ma che nei limiti del possibile si possono anche leggere singolarmente..

Civiltà in transizione

Sui due eventi citati sono stati spesi fiumi d'inchiostro. Molti commentatori, non analizzando i dati con la dovuta dovizia, hanno immediatamente sposato l'idea che la differenza l'abbia fatta il voto di volta in volta delle “classi lavoratrici” o delle “classi medie” o addirittura del “proletariato”.

Analisi più dettagliate (come quelle uscite su questa testata per quanto riguarda le elezioni americane) hanno rivelato una realtà più complessa.

Da un lato è semplicemente falso che Trump abbia vinto grazie al voto del “proletariato”: guardando solo al dato economico le fasce di reddito inferiori e medie hanno votato prevalentemente per la Clinton o sono rimaste a casa. Casomai c'è stata una tendenza di alcune fasce di lavoratori bianchi delle regioni più minacciate dalla delocalizzazione a votare Trump, come fanno notare i commentatori più attenti.

Cogliamo lo spunto, astraendo e lasciando perdere un analisi nel merito del voto americano o del referendum britannico. Nessuno può negare che all'incirca dalla caduta dell'Unione Sovietica il mondo sia cambiato radicalmente, con una netta accelerazione del processo di integrazione mondiale che i trattati multilaterali (CETA, TPP, TTIP) avrebbero dovuto coronare.

Si tratta alla fin fine della amata/odiata globalizzazione, stadio più recente dell'integrazione del mondo nel sistema economico capitalista, un processo con radici secolari che ha conosciuto accelerazioni e rallentamenti dovuti a temporanee rotture degli equilibri mondiali e al contrapporsi delle necessità sociali dei Paesi coinvolti.

Bisogna ricordare come la globalizzazione sia stata ampiamente preceduta dalla diffusione in tutti i Paesi del nucleo mondiale delle dottrine economiche e politiche di marca libertaria collegate alla rivoluzione conservatrice Thatcheriana: le interpretazioni e sintesi più o meno volgari del monetarismo, il new public management e una generale corrente ideologica contraria all'intervento statale all'interno dei mercati permeeranno il piano della politica di governo così a fondo e così rapidamente da arrivare a soppiantare gli ultimi rimasugli del keynesismo persino nella sinistra di governo – la velocità con cui è stato abbandonato un tale orizzonte di politica economica dalla sinistra “moderata” è testamento alla scarsa comprensione originaria dell'opera del genio di Cambridge e della limitatezza di orizzonti di un'interpretazione assai conservatrice della sua opera.

Niente di tutto ciò è in realtà nuovo nella sostanza, il liberoscambismo e l'enfasi sui mercati autoregolati contemporanei non hanno sostanzialmente granché di diverso dai loro predecessori storici dell'epoca della “grande trasformazione”, e le cause della loro diffusione hanno probabilmente a che vedere come nel passato con il cambiamento tecnologico.

Conta ai nostri fini rilevare che nel “doppio movimento” polanyiano – da un lato verso il mercato, all'opposto verso la protezione sociale che ne è negazione – l'epoca contemporanea si è aperta all'insegna di una forte spinta verso un ritorno al mercato, restaurandone tramite una energica azione statale i fondamenti spezzati dall'epoca dell'interventismo sociale degli anni del dopoguerra.

Indubbiamente per le aree manifatturiere del mondo occidentale ciò ha rappresentato una catastrofe culturale prima (e molto più) che economica: il mondo della fabbrica e della miniera (o del distretto manifatturiero, come spesso nel caso dell'Italia), come secoli prima il mondo contadino, con tutto il suo corollario di forme di vita, viene smantellato e regioni intere cambiano fisionomia.

Il colpo finale è stato assestato dalla mutazione genetica della sinistra politica e sociale in Europa, cui abbiamo già accennato, che priva di idee proprie e fiaccata nelle basi sociali è stata ridotta al mutismo o ha abbandonato direttamente ogni velleità di socialismo, condannandosi così ad essere ancillare al centrodestra conservatore, non riuscendo a rallentare i processi di trasformazione nemmeno quando ha avuto a disposizione spazi inauditi di governo a disposizione. Così tutte le istituzioni (ideologia compresa) che fornivano un quadro di significati in cui il lavoratore industriale viveva e agiva da “animale politico” vengono smantellate o diventano radicalmente altro. È di questo che parlo quando parlo di “catastrofe culturale”.

La sinistra che nel frattempo non ha optato per una stabile collocazione centrista, in mancanza di idee migliori ha quindi retto più o meno bene facendo appello con alterne fortune alla “nuova classe” dei giovani istruiti, iniziando una difficile quanto inevitabile transizione e, nei casi migliori, difendendo le sembianze del tenore di vita meramente economico delle classi medie e inferiori o, nei casi peggiori, dei pensionati e dei dipendenti pubblici.

La crisi economica mondiale del tardo '00, accoppiata ad una consolidata egemonia di teorie antinterventiste (risultano ipocrite le parole di apprezzamento per Minsky o per il pensiero radicale di accademici e policy makers, se non sostenute da fatti politici concreti) ha solo generalizzato un processo già in atto nelle aree di crisi industriale, con un netto declassamento di molta classe media e con la definitiva eclisse della sinistra di governo, costretta dalla congiuntura storica e – lo ripetiamo – dalla carenza di idee alternative a imporre tagli e programmi di austerità là dove al governo.

Intrappolata tra bancarotta ideologica e necessità di fase la sinistra si trova quindi di fronte a un fallimento storico, che mette a repentaglio la sua stessa esistenza: a mio parere il non aver saputo proporre una narrazione che salvaguardando un cosmopolitismo progressista sapesse, supportata da adeguate politiche pro-sociali, integrare nuovamente in un quadro organico e dotato di senso le vittime del declassamento coessenziale alla trasformazione del sistema mondiale capitalista e alla crisi economica.

La destra padronale, scindendosi nella falsa dicotomia destra moderata “di casta”/destra radicale “populista” e affidando a quest'ultima la riverniciatura di un discorso che fa leva sulle immediate categorie pseudonaturalistiche della nazione e dello straniero e sull'odio verso una fantomatica “élite”, di cui rappresenta socialmente una filiazione (e come vedremo l'estrema ancora di salvezza), si muoverà per egemonizzare la massa dei declassati.

Immagine liberamente ripresa da qz.com

Ultima modifica il Martedì, 29 Novembre 2016 23:49
Niccolò Bassanello

Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all'Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all'Università degli Studi di Torino. Mi interesso di filosofia delle scienze sociali, antropologia culturale, diritti delle minoranze e studi sull'educazione. Intellettualmente sono particolarmente influenzato dai lavori di Polanyi, Geertz, Wittgenstein e Feyerabend, su cui mi sono formato, oltre che dal postoperaismo e dal radicalismo statunitense. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l'animazione, i fumetti ed il vino.

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