L’intento di (W) era chiaramente quello di conservare alla candidata del Partito democratico il voto, alle presidenziali dell’8 novembre, di quanti alle primarie hanno sostenuto Sanders – appoggiato nella sua candidatura anche da Being Liberal, che ha come immagine profilo una foto di Franklin Delano Roosevelt, il padre del New Deal.
Gary Johnson, già governatore repubblicano del New Mexico negli anni ’90 e già candidato presidenziale per il Partito libertario nel 2012, ha ottenuto una seconda volta la nomination e può sfruttare l’occasione d’oro costituita da Donald Trump, che oltre ad essere il candidato repubblicano più estremista dell’ultimo mezzo secolo si è anche inimicato la dirigenza del partito. Diversi uomini politici del Partito repubblicano hanno già dichiarato il loro voto per Johnson, che al momento ha nei sondaggi l’8-9%, dato significativo per un sistema assolutamente bipolare, anche se ben distante dal 15% richiesto per accedere ai dibattiti tra i candidati.
Johnson tuttavia ha anche un forte seguito tra i giovani, che generalmente si schierano a sinistra. In particolare, i giovani sono stati in questi anni un pilastro della coalizione di Obama, a cui hanno dato almeno il 60% dei loro voti in entrambe le presidenziali.
Sempre i sondaggi mostrano però un diverso equilibrio: confrontando le preferenze espresse dagli elettori sopra e sotto i 30 anni, al momento le differenze di consenso sono le seguenti: la Clinton resta stabile al 41-42%, Trump crolla dal 39 al 21%, Johnson passa dal 7 al 16%, la Stein (del Partito verde) dal 3 al 9%.
Come si vede, i dati sono tre: è scomparso, rispetto alla candidatura Obama, il balzo di consensi per il candidato democratico; c’è una forte ostilità verso Trump (che risulterebbe il candidato di un grande partito meno votato dai giovani dopo la Seconda guerra mondiale, cioè da quando sono effettuate rilevazioni di questo tipo); sono più che duplicati i suffragi ai candidati di altri partiti.
Oltre ai repubblicani moderati, Johnson può contare infatti su un secondo filone di consensi: quello degli entusiasti (prima) e delusi (dopo) sostenitori del senatore Sanders, il quale, secondo le stime dell’Economist, nelle primarie democratiche ha ottenuto un consenso del 70% tra gli under 30.
A un osservatore candidamente ingenuo parrebbe incomprensibile come una stessa persona possa sostenere Sanders, che ha fatto della redistribuzione del reddito la pietra angolare della sua campagna, per poi flirtare con il Partito libertario, secondo il quale il compito dello Stato deve ridursi alla gestione delle forze armate, dell’ordinamento giudiziario e dei corpi di polizia.
Il dilemma viene presto risolto affrontando due realtà.
Una è che, prima che il campo si riducesse ai soli Clinton e Sanders, le intenzioni di voto indicavano un 60% per l’ex Segretario di Stato, un 5-10% per il senatore socialista, con il restante 30-35% distribuito tra altri probabili candidati (Biden, Warren, Cuomo…). Dato che il voto popolare finale ha visto un 55-45% per la Clinton, si può argomentare che soltanto un sesto dell’elettorato di Sanders sia realmente aderente a posizioni socialiste. I restanti cinque sesti hanno rappresentato, in varia misura, elettori interessati a una maggiore regolamentazione del capitalismo ma non per questo socialisti, confuse spinte anti-establishment oppure semplicemente un’opposizione personale a Hillary Clinton. Queste ultime due correnti devono essere state quelle maggioritarie, visto che Sanders ha ottenuto i suoi migliori risultati nelle aree rurali e conservatrici.
Il secondo dato di fatto riguarda invece cosa, nella sfuggente nomenclatura politica statunitense, i giovani intendano per “socialismo”. Le indagini demoscopiche hanno rivelato che sebbene i giovani in maggioranza dichiarino di avere un’opinione favorevole del socialismo (differenziandosi, e molto, da tutte le altre fasce di età), tuttavia riguardo alla redistribuzione del reddito non si registrano negli ultimi quarant’anni significative variazioni di clima, né nell’elettorato generale né tra i giovani, che restano anch’essi tiepidi.
Un’altra categoria politica, però, verso cui i giovani si dimostrano affezionati – sempre dovendo dare credito alle rilevazioni su campioni statistici – è quella di “libertarismo”: un affetto condiviso sia da chi si definisce “democratico liberal” sia dai sostenitori del Tea Party.
Questo inizia a rendere più comprensibile la popolarità di Johnson tra i giovani e, con un paradosso solo apparente, tra i bern-feelers. Ma c’è un altro punto illuminante: i gruppi demografici che hanno sostenuto Sanders sono gli stessi che sostennero Ron Paul nelle primarie repubblicane del 2012. Paul, capo dell’ala libertaria del partito – ora ha lasciato, assieme al Congresso, il testimone al figlio Rand e si è iscritto tout court al Partito libertario – ricevette all’epoca i voti della componente giovane e laica dell’elettorato repubblicano; Sanders, a sua volta, ha fatto molto bene tra i giovani e i bianchi. Poiché virtualmente tutti gli elettori repubblicani sono bianchi e tutti i democratici sono laici, siamo giunti al tipo unificante: il giovane bianco laico.
È stato osservato che questo tipo presenta due caratteristiche peculiari: non subisce le oppressioni e i pregiudizi che serpeggiano nella società nordamericana (come accade invece alle minoranze etniche) e non si sente rappresentato dai principali partiti (come appare dal fatto che sostiene candidature di contestazione verso l’establishment o, addirittura, di altri partiti). Per questo motivo alcuni osservatori hanno sostenuto che la “rivoluzione politica” additata da Sanders, relativa principalmente alla diminuzione dell’influenza elettorale del grande capitale, si sia in realtà incarnata in una “rivoluzione delle aspettative crescenti”, espressa da quei gruppi privilegiati per i quali la ripresa economica non sarebbe all’altezza delle loro ambizioni di ascesa sociale.
Il quadro, in termini assoluti, non è affatto oscuro per i democratici: la loro candidata ha comunque molto più consenso di qualsiasi avversario e le aree d’ombra possono essere interpretate come una debolezza congiunturale (secondo gli indici di gradimento, nell’era post-1945 esiste un solo candidato Presidente più impopolare di Hillary Clinton: Donald Trump). Tuttavia l’asinello non dovrebbe sottovalutare una possibile faglia in grado di porre in crisi la visione deterministica con la quale il partito ha guardato e guarda al futuro: l’idea, cioè, che la maggiore crescita demografica delle minoranze etniche rispetto ai bianchi possa di fatto garantire ai democratici l’egemonia numerica per lunghi anni.
Nell’aprile scorso il blogger liberal Matthew Yglesias, in un intervento su Vox dal significativo titolo “Bernie Sanders è (ancora) il futuro del Partito democratico”, da un lato fustigava la strisciante sostituzione di tale ottimista determinismo a un’autonoma elaborazione di strategia politica; dall’altro, però, sosteneva che la destabilizzazione apportata dal movimento a sostegno di Sanders sarebbe consistita nel far saltare il partito come gruppo di mediazione tra attivismo di sinistra e circoli capitalisti, quale esso si presenta oggi, trasformandolo invece in un partito ideologico organico quale sarebbe a destra il Partito repubblicano. Questa destabilizzazione, che dunque avrebbe un connotato positivo, si realizzerebbe sicuramente man mano che la giovane generazione prenderà il controllo del partito: un giorno (2020? 2024?) essa farebbe emergere un Ronald Reagan.
In queste ultime osservazioni – oltre, incidentalmente, a ricadere anch’egli in un certo determinismo demografico – Yglesias tralasciava però di riconoscere il sommovimento che il sistema politico nordamericano sta subendo.
Se è vero che le elezioni presidenziali del 2008 hanno segnato – ormai i dubbi sono pochi – un pesante riassestamento del quadro politico, riconsegnando ai democratici un ruolo di avanguardia perduto quarant’anni prima, questo riassestamento pare però non aver ancora esaurito tutte le proprie scosse: il Partito repubblicano, infatti, è in preda a un convulso mutamento dal quale potrebbe uscire o completamente trasfigurato oppure addirittura distrutto. Già nell’analisi interna della sconfitta del 2012 i repubblicani indicavano come insufficienti la mitizzazione e l’ampio uso propagandistico di Reagan, per il quale, si osservava, “oggi nessuno sotto i cinquant’anni è abbastanza vecchio da averlo votato per il suo primo mandato”. E ad essersi allargata è proprio la frattura tra il dottrinarismo conservatore della dirigenza e la demagogia sociale della base (e di Trump, che ne è l’espressione).
Come, in Italia, hanno dovuto accorgersi i post-comunisti dopo Tangentopoli e il centrosinistra dopo la crisi del 2011, la rovina del proprio avversario non è necessariamente latrice di buone notizie.