Le grandi trasformazioni della nostra epoca sono spesso il frutto di ciò che viene negoziato e deciso da un gruppo molto ristretto di individui nelle posizioni di potere all'interno della governance globale. L'aspetto più pericoloso e inquietante dei Trattati di libero mercato deriva proprio dal loro presentarsi come dei semplici accordi commerciali e sugli investimenti fra stati quando in realtà, queste misure, non hanno quel carattere tecnico e asettico che i suoi sostenitori gli attribuiscono, né hanno come unico obiettivo quello di accrescere il commercio mondiale. Quello che il saggio "La gabbia dei Trattati" (Dissensi, 2015), mette molto bene in luce è il disegno politico di fondo che si cela dietro degli accordi solo apparentemente innocui: diffondere il dogma neoliberista ovunque, definire i contorni di un utopia in cui tutto possa essere ridotto a merce e scambiato, compresi i più basilari e preziosi beni comuni (per l'economia: "servizi") come l'assistenza sanitaria o l'istruzione.
Si spiega così il titolo del saggio presentato lo scorso 23 giugno a Firenze: CETA, NAFTA, TTIP, TTP sono tutte single che nascondono quel medesimo intento che lo studioso statunitense Stephen Gill definisce di "nuovo costituzionalismo": una miriade di accordi commerciali e di investimenti che piuttosto che stabilire misure economiche, impongono un sistema di regole fra i vari stati firmatari che si traduce in un meccanismo che lungi dal difendere i diritti dei cittadini, garantisce quelli della proprietà privata e le condizioni di piena circolazione del capitale, mettendo dei paletti all'iniziativa e al controllo statale. Il nuovo costituzionalismo è così per Gill il "fulcro giuridico dell'ortodossia economica neoliberista": "esso mira a isolare i vertici decisionali della politica economica dal controllo democratico e dal voto, per porlo nelle mani degli interessi del capitale, in specie finanziario". Si crea così una gabbia d'acciaio di regole volte a limitare fortemente i meccanismi decisionali democratici in favore degli attori del marcato globale.
L’autore, Matteo Bortolon, che scrive di economia per Il Manifesto e che milita in varie organizzazioni e movimenti della società civile, sceglie di approcciarsi all’argomento con il preciso intento di cogliere gli elementi cardine e gli aspetti più rilevanti che caratterizzano e accomunano questi trattati, mettendo però in evidenza anche i grandi cambi di paradigma che sono intervenuti nelle modalità di realizzazione dei trattati, dall'approccio globale e ambizioso del WTO, fino al proliferare di accordi bilaterali e regionali che ricalcano anche gli interessi e le alleanze geopolitiche attuali (basta pensare al TTIP o al TPP). Si tratta dunque di un lavoro di analisi rigoroso, interessato a descrivere i meccanismi di funzionamento di un sistema astratto e pervasivo allo stesso tempo, ma non di un’opera tecnicistica poiché si vuole giustamente privilegiare la dimensione divulgativa. Il libro si propone infatti di essere uno strumento teorico-pratico rivolto a militanti, simpatizzanti della sinistra e più in generale al popolo nella convinzione che l’opposizione ai Trattati possa passare solo per una consapevolezza diffusa. La linearità dei ragionamenti e la chiarezza della trattazione lo rendono lo strumento ideale per raggiungere questo scopo. Coerentemente con questo proposito, viene giustamente riservato uno spazio rilevante alle forme di opposizione e di protesta che hanno accompagnato la negoziazione dei vari trattati, dalle marce dei contadini messicani contro il NAFTA fino al grande corteo contro il TTIP di Bruxelles dove è stato eretto un cavallo di Troia a simboleggiare l'inganno dell'accordo.
Come anche nel libro "TTIP" di Di Sisto, Ferrero e Mazzoni, si postula un salto di qualità nel funzionamento del capitalismo contemporaneo, che sembra aver trovato nei Trattati una modalità efficiente per sbarazzarsi delle vecchie istituzioni liberal-democratiche in favore di una gestione tecnocratica da parte di una governance globale oligarchica e poco trasparente. Bortolon però mette giustamente in guardia dal dare una lettura semplicistica della situazione (i buoni stati contro le cattive multinazionali) ricordandoci che sono proprio i governi dei vari stati, guidati da partiti o colazioni di centrodestra o centrosinistra, ad aver firmato i trattati che sono in vigore e a promuoverne l'adozione di nuovi. Da questo punto di vista, allora, è fondamentale il recupero della dimensione nazionale della lotta, come spiega bene l'autore nelle conclusioni:
«i due soggetti più attivi paiono polarizzarsi su due estremi: da un lato costruzione di percorsi locali, che per quanto incisivi in quell'ambito non riescono a produrre un reale spostamento di rapporti di forza. Dall'altro inseriti in dinamiche internazionaliste di marca cosmopolita, poco in contatto con le realtà di base e che non vanno oltre un coordinamento apicale. La parte mediana, propriamente il ruolo della politica tradizionale, è rimasta abbandonata ai soliti protagonisti. Eppure è a questo livello che si iscrive l'insieme dei poteri propri della forma statuale classicamente intesa».
Si comprende così il sottotitolo del saggio: "per una riconquista della sovranità democratica" è la necessità di rianimare la lotta anche al livello nazionale per ridare forza e vigore alle assemblee legislative in modo che riescano a vincolare con efficacia i governi firmatari dei trattati. Legando così una critica politica a una economica, e avanzando anche proposte di opposizione al disegno egemonico che si nasconde dietro gli accordi di libero scambio, "La Gabbia dei Trattati" è da accogliere come uno strumento di enorme utilità per la comprensione di uno degli aspetti più complessi ma anche più inquietanti del capitalismo globale attuale.