Martedì, 29 Novembre 2016 00:00

Bufale liberal sulla vittoria di Trump. La democrazia occidentale alla frutta

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Perché Trump.

Anche negli Stati Uniti, non solo in Europa, si allarga la reazione di popolo guidata da destra contro la mondializzazione economica neoliberista

Antefatti

La scossa tellurica in atto non è solo statunitense ma mondiale. I suoi effetti risulteranno enormi e altamente contraddittori. Nel mirino delle popolazioni occidentali sono sempre più le politiche di libero scambio, di storica matrice liberale, che hanno portato al dominio incontrollato (una sostanziale dittatura) del mercato sulle economie e al dominio incontrollato e rapace della grande finanza speculativa e di un pugno di multinazionali sul mercato, unificando organicamente in un unico processo mondiale neoliberista l’accumulazione capitalistica.

Pochi dati bastano a chiarire quanto siano mistificanti le dichiarazioni dei governanti occidentali sul fatto che ciò servirebbe a far crescere il PIL dei vari paesi e che ciò andrebbe a vantaggio delle popolazioni nelle loro interezze. A parte che ciò non è vero, cioè è vero, al contrario, che la crisi del 2008 è stata il risultato inevitabile della mondializzazione neoliberista e che da questa crisi l’Europa non riesce a uscire, i dati in questione sono i seguenti: in circa quarant’anni il lavoro dipendente del pianeta è raddoppiato; nel medesimo periodo, le retribuzioni pro capite del lavoro dipendente mondiale si sono mediamente dimezzate.

Nel medesimo periodo, il 2% della popolazione mondiale si è vergognosamente arricchito. Metà di quello che era il più grande proletariato industriale del pianeta, quello statunitense, vive in deserti urbani, è disoccupata o precaria, non ha i soldi per pagarsi le assicurazioni sanitarie (ora il più grande proletariato è quello cinese, messo ancora peggio): il fenomeno Trump è frutto diretto di questa situazione negli Stati Uniti di immiserimento e di mancanza di prospettive.

Analoga fenomenologia riguarda tutta l’Europa; sicché quasi ovunque formazioni politiche populiste di destra crescono, alcune con buone probabilità di vittoria elettorale entro termini di tempo relativamente brevi. Le condizioni delle classi popolari europee e la stessa vittoria di Trump, fungendo gli Stati Unti dalla fine della guerra da “modello” dell’intero Occidente, ha messo il vento in poppa a quelle formazioni.

Non è chiaro sotto molti aspetti come davvero si orienterà Trump. Molte delle dichiarazioni effettuate in campagna elettorale sono orribili, inaccettabili e pericolosissime: dall’espulsione degli immigrati latino-americani, messicani in specie, “irregolari” alla teoria stando alla quale quel riscaldamento climatico che obbliga, con i suoi effetti ambientali, decine di milioni di esseri umani a fuggire dalle loro terre sarebbe un’invenzione cinese; dall’intenzione quindi di portare gli Stati Uniti a rilanciare l’uso del fossile, carbone compreso, nella produzione di energia all’intenzione di chiudere la risicata riforma Obama in tema di sanità e alla restituzione integrale di essa all’industria farmaceutica, a quella ospedaliera privata e al livello apicale e straricco della professione medica; dal volgare sessismo antifemminile allo strisciante suprematismo bianco (con dentro Ku Klux Klan e nazisti), onde riconsegnare gli Stati Uniti al potere politico della loro ex maggioranza di origine europea; dall’intenzione di rilanciare la guerra economica e la minaccia militare contro la Siria all’intenzione di fare la stessa cosa contro Cuba.

Giova sottolineare come, tuttavia, in Occidente siamo abituati a sentire discorsi di un tipo nelle campagne elettorali dei partiti di governo, perché il problema in esse dei nostri ceti politici è solamente raccattare voti, a cui poi seguirà quindi altro quando poi governeranno. Parecchie di quelle dichiarazioni risultano semplicemente insensate anche nella prospettiva politica e culturale di Trump.

Le dichiarazioni post-elettorali di Trump sono state perciò assai più caute, dunque, in tema di migranti messicani, riscaldamento climatico e ricorso al carbone, riforma Obama della sanità e suprematismo bianco. Ma il personaggio è quello che è, e le incursioni pericolose non mancheranno.

Tra i finanziatori della sua campagna elettorale (che gli sono stati indispensabili: di tasca sua Trump disponeva di qualche centinaio di milioni di dollari, quisquilie negli Stati Uniti) troviamo l’industria estrattiva (carbone) e petrolifera, la lobby delle armi, l’industria privata della salute: qualcosa gli dovrà pur dare.

Egli inoltre controllerà (benché con qualche difficoltà) il Congresso (tanto la camera dei rappresentanti che il Senato) e la Corte costituzionale, e potrà così muoversi abbastanza agevolmente. Ma fin qui ho solo commentato le cose più evidenti, immeritevoli come tali di un articolo.

Ciò che mi pare invece più meritevole, anche dato che siamo in Italia nelle mani sia di un giornalismo massmediatico che di ceti politici autoreferenziali, inadeguati e irresponsabili, andando da destra a sinistra e viceversa, sono alcune altre questioni.

Il punto di forza vero della campagna elettorale di Trump è stata l’intenzione di ridiscutere i trattati commerciali internazionali neoliberisti

La prima questione che dunque mi pare sia utile commentare è la campagna massmediatica liberal, vedi da noi la Repubblica, successiva alla vittoria di Trump: inorridita dal rischio, a suo avviso, di un passaggio planetario, e prima di tutto occidentale, dal libero-scambismo al protezionismo. Intanto va esplicitato per conto di chi venga svolta questa campagna: della grande finanza speculativa mondiale, di Wall Street, della City di Londra, della Borsa di Francoforte, della grandi multinazionali. Poi va esplicitato che, come d’uso, quella de la Repubblica (e c.) è una bufala: il protezionismo oggi è semplicemente inapplicabile, se questa parola ha un senso, i grandi sistemi territoriali ormai si sovrappongono e si intrecciano tra loro indissolubilmente. Trump in realtà vuole la rinegoziazione dei trattati di libero scambio, onde evitare che importazioni negli Stati Uniti altamente competitive (come quelle dalla Germania e dalla Cina, rispettivamente la prima e la seconda realtà esportatrice del pianeta, e come quelle dal Messico, paese di ampie delocalizzazioni industriali dagli Stati Uniti) producano in questo paese disoccupazione e, perciò, cadute retributive.

Ancora, la superbufala è che il protezionismo sarebbe fonte storica di guerra e il libero-scambismo fonte storica di pace mondiale. La prima guerra mondiale seguì non al protezionismo, ma a una spartizione colonialista del mondo che premiò alcune potenze e ne penalizzò altre. Il quarantennio che abbiamo sino a oggi vissuto di libero-scambismo parossistico sarebbe stato un periodo di pace? C’è da ridere. La seconda questione è che il libero-scambismo neoliberista ha annullato la democrazia (là dove esisteva, come in Occidente), se questa parola ha un senso, sia a livello statale che superstatale.

L’esempio dell’Unione Europea come realtà che aveva obiettivi di democrazia e di pacificazione tra le popolazioni e che si è gradatamente rovesciata nella dittatura politica, in genere insensata, di un pugno di burocrati incontrollabili e spesso incompetenti al servizio degli interessi dell’economia tedesca credo sia sotto agli occhi, ormai, di buona parte della nostra popolazione. Ed è più che bene che essa se ne sia accorta, e che si sia anche accorta di come l’establishment politico liberal ovvero libero-scambista li abbia imbrogliati, e quasi mai in buona fede.

Guardando agli Stati Uniti, Hillary Clinton, parte organica di quest’establishment, è esattamente quest’ordine di cose che ha pagato salato. È per questa sua collocazione storica che gran parte degli operai ha votato Trump. È per questa sua collocazione storica che buona parte dei giovani, delle donne, dei ladinos, dei neri, dei sindacalisti non l’ha votata. Se il Partito Democratico avesse candidato il socialista Sanders anziché Hillary Clinton forse avrebbe vinto queste elezioni, dato che gli stati ex industriali, da sempre democratici, non sarebbero passati dalla parte di Trump. Le donne di questi stati hanno votato a maggioranza per Trump, e così i neri e i ladinos. La responsabilità nella delineazione di questa situazione drammatica, sul piano sociale come su quello politico, da parte della presidenza Obama è assoluta. Egli fu eletto otto anni fa da un “blocco sociale” progressista straordinario: c’erano gli operai, i loro sindacati, le donne, i neri, i giovani, persino buona parte degli agricoltori. C’era dunque il sogno di tutte le formazioni di sinistra dell’Occidente.

Quattro anni fa, avendo combinato poco e contraddittoriamente, da buon liberal con la testa tra le nuvole, Obama già aveva perso largamente consenso. Perseverando, producendo un’iniziativa solo indiretta da parte pubblica sul terreno della crescita economica, favorendo di fatto la chiusura di interi grandi territori industriali, avendo cioè affidato il recupero dell’occupazione al “mercato”, incapace infine di impedire la candidatura Clinton a nome di qualcosa di più presentabile, Obama ha di fatto favorito la vittoria di Trump. Cosa ancor più negativa, ha portato alla frattura il “blocco sociale” che otto anni fa l’aveva fatto vincere, lui, un outsider: gli operai ieri non erano ma oggi sono dal lato di una destra per molti aspetti pericolosa, e in balìa delle sue posizioni retrive e del suo primitivismo; mentre donne, ladinos, neri, giovani sono dal lato opposto; mentre perciò gli uni e gli altri forse si troveranno a scontrarsi tra loro in tempi prossimi.

D’altra parte, ahimè, l’idea di Trump della negoziazione dei trattati commerciali neoliberisti è assolutamente giusta. Naturalmente bisognerà vedere come verrà praticata. Lo stesso vale per la sua idea di un grande programma di investimenti pubblici in infrastrutture e nella ricostituzione del patrimonio industriale statunitense là dove è stato deteriorato, sia di quello tecnologico e caratterizzato da grandi unità produttive, sia di quello eterogeneo composto da imprese minori. Naturalmente anche a questo proposito occorrerà vedere come l’idea verrà praticata.

Verrò più avanti a porre la questione delle questioni riguardante l’Europa: il fatto che quest’idea di Trump è un intervento pesantissimo a gamba tesa sulla situazione europea.

I liberal occidentali, inseguendo le loro illusioni, hanno perso ogni rapporto conoscitivo alla realtà del mondo e alle condizioni di vita delle maggioranze popolari, e regalato così la strada dell’egemonia in Occidente su queste maggioranze alle destre populiste

La comprensione della crisi della democrazia in Occidente richiede che si guardi a tutti i suoi fattori e a tutte le sue angolature; sicché si tratta anche di ragionare più adeguatamente su cosa sia diventato il già non eccellente sistema mondiale, centralizzato largamente dall’Occidente, o meglio dagli Stati Uniti, della grande informazione.

Partiamo da come la quasi totalità dei giornalisti statunitensi e, in coda, europei ci abbia spiegato per mesi su tv, radio e giornali, con grande acume intellettuale, con grande dovizia di argomenti e muovendo da una quantità di analisi sociologiche e di sondaggi, che Hillary Clinton ce l’avrebbe senz’altro fatta contro Donald Trump. E partiamo da come i medesimi giornalisti ci stiano ora spiegando con grande acume e grande dovizia di argomenti che era praticamente impossibile che ella ce la facesse. Domanda: era davvero così arduo capire prima del voto anziché dopo che gli operai statunitensi non si fidavano (giustamente) di giornalisti e sondaggisti, considerandoli parte dell’intellighenzia liberal apologetica di tutto ciò che li aveva colpiti, ben pagata dai detentori dei grandi poteri economici, e che dei danni subiti dalle classi popolari se ne era sempre stropicciata con chiacchere sul PIL e sulle virtù del libero scambio?

O, cosa ancor più preoccupante: perché la parte onesta (maggioritaria) di quest’intellighenzia, a partire dalla sua porzione massmediatica, non si è minimamente accorta, salvo qualche inquietudine all’ultimo minuto, di quel che da tempo e davanti al loro naso stava accadendo in tanta parte della popolazione statunitense? Inoltre: quando parliamo di “informazione”, di che cosa in realtà stiamo oggi parlando? A lungo i media dominanti (ovunque fossero) hanno avuto il ruolo (non esclusivo ma decisivo) di informare le “opinioni pubbliche”, fossero essi allineati perinde ac cadaver ai grandi poteri sistemici (vedi in Italia il Corriere della Sera) o ambiguamente critici ma non esageratamente, bensì “responsabilmente”, a loro dire, dei medesimi (vedi in Italia la Repubblica).

Al tempo stesso il loro obiettivo strategico, tutto politico, era che le ondate di malcontento sociale non si coagulassero in una critica al sistema di rapporti sociali e dunque rivendicassero un cambiamento radicale in sede di potere politico e di potere economico; sicché tali media hanno sempre avuto anche un ruolo manipolativo (parimenti decisivo). Un po’ di notizie era censurato o messo in corpo sei in un trafiletto in ultima pagina, il grosso era connotato ad hoc. In ogni caso un po’ di realtà doveva esserci: perché senza di essa prima o poi tali media non avrebbero più venduto il necessario al profit economico e politico dei gruppi (in genere industriali o finanziari) loro proprietari (si rammenti la pochezza delle copie di quotidiani vendute durante il fascismo, proprio essere totalmente manipolatori).

La grande novità, in atto sotterraneamente e fattasi sempre più organica nel quarantennio neoliberista, venuta esplosivamente alla luce con l’esito delle elezioni statunitensi, è che la realtà è sostanzialmente scomparsa dai grandi media, è che le sue cose vengono al più nominate, poi però l’“informazione” parte per la tangente ed è tutta, proprio tutta, manipolazione.

Dunque la democrazia in un Occidente che si ritiene per definizione democratico è davvero alla frutta. Ci sono ovviamente tante ragioni di ciò: ma se l’informazione è diventata quel che ho indicato, manca alle popolazioni occidentali la materia prima del giudizio realistico ovvero effettivamente democratico sulle cose. Anche per questo la reazione popolare all’impoverimento e alla mancanza di prospettive decenti tende a destra. Non, ripeto, che gli operatori della grande informazione siano tutti manipolatori volontari, per così dire. In genere sono brava gente dal tratto colloquiale e democratico; solo alcuni sono cinici delinquenti. Il grosso di questi operatori ritiene di gestire con il suo lavoro un servizio alla società. Perciò il fatto è che qualcosa è avvenuto in questi decenni, che li ha trasformati in manipolatori ciechi, inconsapevoli e fondamentalmente irresponsabili.

Il fenomeno è analogo e sintonico rispetto ai fenomeni che hanno trasformato ruoli, compiti e obiettivi nella politica o nei top management della grande industria e della grande finanza. Alla fonte di questi passaggi troviamo quella specie di controrivoluzione neoliberista e libero-scambista che gli Stati Uniti avviarono negli anni ottanta e più o meno rapidamente imposero a tutto il mondo. Essa ha trasformato l’intera morfologia dell’economia mondiale, prima di tutto orientandone gli operatori al guadagno immediato. Sicché se si guadagna di più e più rapidamente operando a livello finanziario e licenziando operai e impiegati, anziché investendo, allora si licenzia.

Ciò ha prospettato a lungo la possibilità di facili e consistenti, a volte enormi, guadagni per chiunque disponesse di risparmi minimamente significativi. Rapidamente, sulla scia di ciò e a nome dei loro elettorati abbienti e semi-abbienti, travestiti da “opinione pubblica”, il grosso dei ceti politici di governo si è allineato. Le socialdemocrazie europee sono passate dalla rappresentanza del mondo del lavoro e più in generale delle classi popolari alla rappresentanza dei grandi interessi industriali e finanziari. L’Unione Europea ha buttato via i suoi obiettivi di solidarietà sociale e tra i popoli e si è inventata, su ordine tedesco, “austerità” e “rigore”.

È lungo questa via che, non solo in Occidente, hanno cominciato a saltare come birilli i sistemi di diritti del lavoro e di “stato sociale” ecc. Alla fine, addirittura, per effetto anche della crisi del 2008 anche lavoro intellettuale, professionisti e più o meno vasti strati di piccola e media borghesia hanno cominciato a essere spremuti. Ma nel frattempo era sorta e si era consolidata una frattura radicale nelle popolazioni: gran parte dei loro rappresentanti politici, degli operatori della grande informazione, dell’intellighenzia accademica, e dietro a loro vasta parte della piccola e media borghesia avevano cancellato dalla loro cognizione delle cose le classi popolari, operaie a non solo operaie, le condizioni di vita di questa classi, le loro richieste, in qualche caso (operatori dell’informazione, politici, accademici) al più immaginandosele in modo fantastico.

Non è strano per niente, allora, che in quasi tutto l’Occidente la lotta di classe stia ripartendo anche al suo livello politico, cioè al suo livello più decisivo sul piano generale, e che ciò avvenga in genere sotto la guida di destre populiste quasi sempre semifasciste o anche fasciste. Non è per niente strano: una capacità di guardare e di tentare di raccogliere consenso sul versante del disagio popolare queste destre l’hanno sempre avuta, poi però, fortunatamente, la loro attitudine a gestire questo consenso a nome di obiettivi insensati e ignobili e la loro tendenza a mettersi a disposizione della grande borghesia in presenza di sollevazioni operaie le hanno sempre respinte in ghetti politici marginali.

La vera novità di oggi consiste perciò nel fatto che nelle posizioni dei ceti politici della sinistra tradizionale, in genere socialdemocratica, di quasi tutto l’Occidente ci sia poco o nulla a risultare in grado di sbarrare la strada a queste destre, mostrando di saper rappresentare seriamente e civilmente necessità e richieste popolari (le uniche eccezioni europee riguardano due piccoli paesi continuamente aggrediti dall’infame Commissione Europea e dall’infame governo tedesco: Grecia e Portogallo). Addirittura i ceti di governo appartenenti alla sinistra tradizionale hanno consegnato alle destre semifasciste e fasciste la bandiera della lotta per la democrazia, contro gli abusi e l’imbecillità delle attuali istituzioni europee di governo e contro i poteri soverchianti e incontrollabili di grande finanza e grandi multinazionali.

Potremmo anche sbattercene, alla fin fine, se non fosse che le destre occidentali sono, prima di tutto, estremamente pericolose per la convivenza civile, in quanto razziste, sessiste, omofobe, incolte e, oltre a ciò, del tutto inaffidabili.

Quella parte, più di sinistra, della sinistra italiana non settaria deve dunque fare uno sforzo di reni, deve battere un colpo. Essa è conciata da sbatter via perché soffre da tempo di un male gravissimo, il fatto che le sue figure apicali hanno perso completamente esse pure il rapporto, e con esso ogni connessione sentimentale, retorica a parte, con le classi popolari. Tali figure apicali appaiono oggi intellettualmente e antropologicamente ricalchi di quei giornalisti o sondaggisti statunitensi di sentimenti civili e democratici che non hanno capito nulla di quel che stava accadendo a livello popolare. Peggio ancora, si sono arroccate in ridotti romani blindati a svolgere attività esclusivamente parlamentari e guerriglie correntizie spesso senza capo né coda, orientate alla conquista privata del nulla; dato l’auto-isolamento dalla realtà popolare, per quanto possano a volte essere pregevoli le attività parlamentari, per esempio, nessuno si accorge che ci siano dunque risultano prive di ogni effetto. Debbono tali figure apicali cambiare registro. Se non lo faranno (e il dubbio, sempre più forte, è che non solo non ne abbiano voglia ma che non ne siano minimamente capaci), il fenomeno in corso dell’abbandono da parte della loro militanza periferica, già largo, sarà totale. Ma se non lo faranno, sarà solo ipocrita lamentare da parte loro ulteriori rafforzamenti delle destre populiste, dalla Lega al M5S.

Un’Unione Europea allo sbando sarà in grado di reggere l’urto statunitense sul piano della ridiscussione dei trattati commerciali libero-scambisti e neoliberisti?

Allo stato delle cose la risposta è semplicemente negativa. Vediamo. La grande autentica illusione all’origine dell’Unione Europea fu che il libero scambio neoliberista imposto al mondo dagli Stati Uniti sarebbe stato una grande risorsa prima di tutto per l’Europa, per il semplice fatto di essere la maggiore area economica del pianeta.

Già lì si vide l’insipienza onirica dei ceti politici liberal, a partire da persone colte, civili e democratiche come per esempio Delors o Ciampi. 

Chissà perché la Cina si premurò di infilarsi dentro alle istituzioni sovranazionali orientate alla generalizzazione del libero scambio e parimenti si premurò di orientarsi all’esportazione di volumi immani di ogni cosa. Chissà perché gli Stati Uniti si attrezzarono, tramite l’immane forza finanziaria di Wall Street, a succhiare ricchezza a danno dell’intero pianeta, e lo stesso fece la Gran Bretagna con la City. Chissà perché Cina e Stati Uniti, realtà statali, hanno funzionato meglio in una competizione economica internazionale scatenata, onnipervasiva e feroce rispetto alla sgangherata, pletorica e inefficace struttura istituzionale dell’Unione Europea. Chissà perché, dato che l’ordine di servizio era “competere competere competere”, la Germania cominciò a far fuori, direttamente o indirettamente, controllando sempre più le istituzioni europee di governo, non le capacità industriali di Stati Uniti o Cina ma quelle di Francia e, soprattutto, Italia (secondo paese industriale e tecnologico dell’Unione Europea), e principiò a trasformare in Länder tedeschi i paesi del nord Europa e in colonie tedesche l’Europa centro-orientale. Chissà perché a tutt’oggi alla violazione, ormai decennale, dei limiti al surplus commerciale della Germania imposti dai Trattati non facciano riscontro richiami da parte della Commissione Europea, mentre è diventato un problema, nella crisi in corso per di più, il debito pubblico italiano, che, in realtà, da un punto di vista macro-economico non significa per l’Europa un fico secco.

Ma il fatto più grave, dal punto di vista delle prospettive aperte dalla vittoria di Trump, è che per reggere la competizione commerciale con gli altri grandi sistemi economici mondiali l’Unione Europea abbia dovuto ricorrere alla deflazione salariale e al taglio della spesa pubblica in servizi alle popolazioni, prima di tutto per l’insistenza di una Germania orientata a strafare dai suoi sempre più netti obiettivi di egemonia sugli altri paesi europei. Non è vero che Renzi sia stato il primo a inventarsi milioni di precari nella forma indicata dal Jobs Act: la Germania anche in questo ha battuto l’Italia, con i suoi mini-jobs (oltre 7 milioni di lavoratori), di analoga qualità. Perché tale fatto della deflazione salariale è grave: per il semplice motivo che tutta la struttura produttiva dell’Unione Europea nonché il complesso nella sua quasi interezza delle strutture produttive degli altri paesi risultano pesantemente sbilanciati dal fatto di una produzione troppo orientata all’esportazione, stagnando o addirittura arretrando, proprio per via della deflazione salariale, la domanda interna. Se Trump imporrà, e c’è da ritenere che lo farà, perché questo è il nucleo fondamentale del suo programma, la rinegoziazione dei trattati commmerciali imponendo limiti alle esportazioni negli Stati Uniti da Cina, Messico e, sottolineato, paesi dell’Unione Europea, la botta alle esportazioni di questi paesi sarà dura. La Cina si riaggiusterà. Il Messico andrà a Canossa. L’Unione Europea invece vivrà, con ogni probabilità, guai immani. Il 20% delle esportazioni tedesche, per fare un esempio, va negli Stati Uniti. Cifre analoghe riguardano gli altri paesi dell’Europa occidentale. Che accadrà se verranno caricate di dazi o limitate da nuovi accordi? L’ondata di ulteriore disoccupazione che da ciò deriverebbe come verrà contrastata, dato l’impedimento nei Trattati europei agli investimenti produttivi direttamente da parte statale e finanziabili, come solamente potrebbe accadere, con il debito? Alla gente che subirà cadute di reddito cosa si darà a soddisfazione delle necessità quotidiane di vita, un pezzo della sovrapproduzione di tecnologia industriale? Il made in Italy?

Dal lato della Commissione Europea il povero Juncker continua a inventarsi la creazione di giganteschi investimenti in infrastrutture e servizi mettendo lì una manciata di miliardi di euro e dichiarando che si tratterebbe di una leva che di miliardi di euro ne mobiliterà centinaia. Peccato che in condizioni di crisi, e a maggior ragione se la tendenza è alla deflazione, ciò non possa avvenire, dato che in queste condizioni imprenditoria privata e sistema finanziario tendono a tesaurizzare il più possibile, non già a investire, temendo che l’investimento renda solo buchi ai loro bilanci. Peccato che in tali condizioni di crisi non basti alla ripresa economica, neppure alla Germania, l’affidamento alla propria tecnologia avanzatissima e a forti investimenti infrastrutturali, ma serva anche la crescita salariale, senza la quale il mercato interno langue. Peccato che a pressoché tutti gli altri paesi dell’Unione Europea oltre alla crescita salariale e a più tecnologia serva anche ricorrere al pubblico e al debito per riuscire a realizzare investimenti adeguati alla loro ripresa economica. Peccato che, tutto ciò non avvenendo, l’enorme liquidità messa a disposizione di banche e adesso anche di imprese produttive dalla BCE finisca in tesaurizzazione bancaria; peccato che la BCE riesca solo, e a fatica, a impedire che la deflazione evolva in pesante recessione. Peccato che prima di vedere qualche tentativo di sblocco della situazione, ammesso e non concesso che ciò davvero avvenga in termini seri, dovremo aspettare l’esito (tra quasi un anno) delle elezioni tedesche. Peccato che i termini di tempo impostici dalla situazione per ridurre e mettere sotto controllo gli incombenti guai trumpiani siano brevissimi. Peccato che nel frattempo si continui dal lato delle istituzioni europee di governo a ciarlare di “flessibilità” delle “regole” che impongono “austerità” e “rigore”, ciò che impedisce ai vari paesi di ricorrere in termini adeguati alla spesa sociale, alla ripresa salariale, agli investimenti. Peccato che i rischi di nuove secessioni dall’Unione Europea e di sua dissoluzione a opera dell’urto crescente del populismo di destra siano, quindi, sempre più concreti; e peccato che se ciò avverrà ne seguirà un’ondata di pesante caos economico. Peccato che ciò possa mettere a rischio l’euro, scatenare processi inflativi non controllabili e, dunque, mettere a repentaglio risparmi e pensioni.

Ceti apicali della sinistra italiana battete, per favore, un colpo.

Immagine di copertina liberamente tratta da www.thestandard.com.hk

Ultima modifica il Lunedì, 28 Novembre 2016 23:58
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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