Mercoledì, 25 Gennaio 2017 00:00

Una democrazia d’ancien régime 2

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Una democrazia d’ancien régime

Maître à penser d’annata e giornalisti di fama più o meno larga hanno espresso la loro autorevole opinione sull’esito delle elezioni presidenziali americane. La vittoria di Donald Trump – secondo costoro - è dovuta in gran parte, se non esclusivamente, al voto degli operai bianchi della cosiddetta rust belt (cintura della ruggine), ovvero le città e le contee un tempo sedi di grandi industrie – per lo più siderurgiche e meccaniche - che dagli anni ottanta hanno subito un drastico processo di deindustrializzazione.

Come prova probante del loro pensiero essi portano lo swing (altalena) avvenuto in tre stati chiave: Pennsylvania, Michigan e Ohio, che con i loro 54 voti di grandi elettori hanno consentito l’elezione di Trump, ciò grazie al voto decisivo dei blue collars bianchi. L’opinione di tanto autorevoli opinionisti è ovviamente del tutto opinabile e non regge alla prova dei fatti.

In questo caso i fatti si chiamano numeri! Numeri che sono a disposizione di tutti tramite internet. I risultati elettorali, in molti casi a livello di precinct (le nostre sezioni elettorali), sono reperibili sui siti degli stati o delle singole contee oppure sul Dave Leip’s Atlas, un sito che offre il vantaggio di trovare i dati immediatamente disponibili fino a livello di contea. Per i dati di carattere demografico o sociale (popolazione, composizione etnica, reddito pro capite, ecc), il sito www.statsamerica.org mette a disposizione molte statistiche sui singoli stati (Usa states in profile) e contee (Usa counties in profile), nonché dati ad altri livelli territoriali.
Separate le contee appartenenti alla rust belt (colonna A) da tutte le altre (colonna B), si è proceduto a calcolare secondo la formula: (voti 2016 – voti 2012 o 2008) / voti 2012 o 2008 X 100), la variazione relativa sulle precedenti presidenziali. Questo calcolo permette di “misurare” la variazione senza il condizionamento dei numeri assoluti dei voti persi o guadagnati; è evidente al lettore che una differenza di 10.000 voti persi o guadagnati ha un peso diverso se il dato precedente era di 100.000 o 500.000 voti.
Il calcolo così eseguito ha dato i risultati evidenziati in tabella.

Da questi dati si ricava che la sconfitta della Clinton è dovuta più al voto delle contee esterne alla rust belt che al voto di quelle che ne fanno parte. I voti persi dai democratici poi, è più probabile che siano confluiti nell’astensione e nel voto ai terzi candidati che a Trump, come lasciano supporre i dati. Il voto delle singole città confermerebbe questo considerazioni.

A Flint (Michigan), che è un po’ la città simbolo della rust belt, la Clinton ha preso l’82% dei voti contro il 13,8% di Trump. Nelle altre città: Pittsburgh (74,8% Clinton, 20,6%), Philadelfia (82,3%, 15,3%), Detroit (94,9%, 3,1%), Cleveland (81,6%, 11,6%), Columbus (66,5%, 27,4%), Cincinnati (74,3%, 21,2%). Ciò non vuole dire che non vi siano stati operai che hanno dato la loro preferenza a Trump, ma fra questo e la landslide (frana) democratica esaltata o esecrata dai commentatori nostrani ce ne corre.

Un voto comunque è stato comunque più condizionato da elementi razziali, problema ancora non risolto della società americana, che da questioni economiche e sociali. In buona sostanza su certo elettorato fanno ancora presa sottintese pulsioni razziste, nascoste magari sotto il velo della sicurezza interna ed esterna e dell’immigrazione e della lotta al terrorismo islamista, piuttosto che il protezionismo economico e la trumpnomics, confuse idee che promettono milioni di posti di lavoro.
D’altra parte le amministrazioni repubblicane hanno la maggiore responsabilità nella deindustrializzazione della rust belt, a partire da Reagan con la sua ampia deregulation dell’economia americana e cquesto è evidente agli elettori americani. Comunque è il caso di confrontare alcuni dati relativi alle contee prese in esame, delle quali 12 a prevalenza democratica (le più popolose e urbanizzate) e 6 a prevalenza repubblicana, delle quali 3 lo erano anche in precedenza, allo scopo di offrire un quadro delle diversità o delle contraddizioni se vogliamo, interne alla realtà complessiva delle zone industriali o ex industriali.

Sono dati, per quanto piuttosto sintetici, bastantemente interessanti; in primo luogo si evidenzia come nelle contee democratiche la proporzione di popolazione afroamericana sia doppia rispetto a quelle repubblicane e al complesso dei tre stati, in secondo luogo si notano alcuni elementi contraddittori: il maggior reddito delle contee democratiche accanto al maggiore indice di povertà. In ogni caso questi dati in mano a politici d’assalto possono essere utilizzati per diffondere la sensazione che le minoranze, etniche, religiose o sessuali, siano favorite oltremisura rispetto alla maggioranza della popolazione. Tanto più negli Stati Uniti dove la pratica dell’affermative action, vale a dire il complesso di norme tese a garantire l’equità razziale e di genere nell’accesso ai posti di lavoro, è da tempo sotto il mirino dei settori più conservatori. Sul tema dei bianchi “discriminati” si è consumato fra l’altro la conquista repubblicana degli stati già della ex confederazione, un tempo off limits per il partito repubblicano.

La questione del voto dei blue collars si presta anche ad altre considerazioni di ordine generale:
1. Un’organizzazione industriale di vaste proporzioni registra al proprio interno diverse figure professionali, corrispondenti ciascuna ad un preciso livello gerarchico nell’impresa e ad un diverso apprezzamento sociale nella comunità di residenza.
2. Allo stesso tempo un territorio che sia sede di una grande industria produce altre e diverse figure sociali (contoterzisti e fornitori di servizi all’impresa, fornitori di beni di consumo e di servizi d’ogni genere ai lavoratori dell’impresa o delle imprese.

È quindi ovvio che la presenza massiccia di lavoratori dell’industria non sempre comporta un automatico consenso maggioritario alle forze politiche che intendono rappresentarli, fatto che è determinato non solo dalla presenza più o meno massiccia di altre figure sociali e dai rapporti intercorrenti fra queste e i lavoratori, ma anche da fattori culturali e religiosi. Se ciò non fosse non si spiegherebbe il fatto che Brescia, una delle province più industrializzate d’Italia, abbia sempre un altissimo consenso alla DC e ora alla Lega. Negli Stati Uniti poi il voto degli operai e le stesse lotte sociali sono state massicciamente condizionate da altri elementi: la razza, la provenienza nazionale, l’appartenenza religiosa.

Una condizione particolare è stata la storica divisione dei lavoratori in specializzati e non specializzati, che ha determinato anche la storia del sindacato, diviso fra fautori dell’organizzazione per mestieri (AFL) e fautori dell’organizzazione per settore produttivo (CIO), unificati nel 1955. Solo gli IWW agli albori del 20° hanno cercato di dar vita ad un sindacato generale e di classe, tentativo presto stroncato con la violenza da padroni e governo. Nondimeno i sindacati americani, ora vicini ai democratici, hanno offerto un ampio sostegno, anche finanziario, alla Clinton. In ogni caso alcuni dei commentatori italiani hanno tirato in ballo Bernie Sanders, sostenendo che gli elettori di quest’ultimo hanno poi dato il voto a Trump.
Anche questa affermazione non risponde a verità: nelle contee della rust belt Sanders ha ricevuto un consenso inferiore rispetto alle altre, questo in linea con la tradizione del socialismo americano che ha sempre ricevuto più consensi dagli operai non specializzati del sud ovest e degli stati delle praterie che dai lavoratori dei grandi centri industriali, con l’eccezione della città di New York per quanto riguarda il Partito Comunista.

Ecco perché gioire o soffrire di un presunto massiccio voto operaio a Trump è del tutto infondato ed è un dibattito che può agita solo i commentatori nostrani come tanti Nando Mericoni. La vittoria di Trump è dovuta soprattutto alla concentrazione del suo impegno elettorale negli stati dove la vittoria era possibile, escludendo dal suo giro stati come la California e New York saldamente democratici, nonché da un sistema elettorale che pressappoco è lo stesso, salvo il voto popolare, con cui si eleggevano il Re di Polonia e il Doge di Venezia.

Per chi volesse approfondire questi ultimi temi suggerisco infine alcune letture:
1) Leo Huberman, Storia popolare degli Stati Uniti, Einaudi;
2) Friedrich Adolph Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America. 1783 - 1892, Pantarei;
3) Antologia, Lotte operaie negli Stati Uniti d’America. 1890 – 1910, Pantarei;
4) Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore;
5) Howard Zinn – Anthony Arnove, Voci del popolo americano. Dalle rivolte dei primi schiavi alla guerra al terrorismo, Il Saggiatore.

Ultima modifica il Martedì, 24 Gennaio 2017 22:10
Francesco Draghi

Francesco Draghi, nel Partito Comunista Italiano prima e dalla sua fondazione nel PRC, ha ricoperto in entrambi incarichi di direzione politica, è stato amministratore pubblico.

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