Il direttore del Forum del Terzo Mondo ricostruisce le vicende storiche della Russia incastonandole nella teoria del sistema-mondo che egli conosce a fondo per dimostrare come, al contrario di quanto pensi la sinistra europeista, la Russia sia in transizione verso un modello socialista piuttosto che capitalista. Nulla di sconvolgente se si conoscono i suoi lavori precedenti che sostenevano la necessità di un «mondo multipolare» in grado di fronteggiare la Triade imperialista rappresentata dagli Stati Uniti, dall’Europa e dal Giappone. Ciò che più risulta utile è l’individuazione e il rafforzamento di una reale alternativa allo sviluppo capitalistico trainato dal centro che esercita uno sfruttamento sempre più parassitario sulle risorse delle periferie. Infatti, nella ricostruzione storica emerge con chiarezza quanta differenza passi tra un impero coloniale divenuto centro imperialista e un impero (quello russo) decaduto come nazione della periferia sfruttata. Addirittura la violenza dei «paesi civilizzati», contraddistinta dall’«accumulazione per espropriazione», risulta incomparabilmente maggiore rispetto ai progetti espansivi dell’impero zarista, basati unicamente sulle conquiste feudali. Viceversa l’accumulazione capitalista si basa sul genocidio delle popolazioni e l’espropriazione dei territori, dunque nulla di più inumano.
E l’Unione Sovietica, pur con i difetti che Amin non tralascia affatto, giocò un ruolo centrale nel fronteggiare un tale livello di barbarie, poiché «i sovietici diedero un autentico aiuto allo sviluppo, che presenta un netto contrasto con l’assistenza al falso sviluppo dei cosiddetti paesi donatori di oggi»1. E il progetto predatorio dell’«imperialismo contemporaneo» diventa evidente per le stesse popolazioni euroasiatiche con la «controrivoluzione» del 1989 e lo «smantellamento del sistema produttivo» da parte dei monopoli occidentali e la «ricompradorizzazione» del più longevo Paese socialista del mondo (almeno fino ad oggi). La lucidità su come venne minato il progetto sovietico, con la «latinoamericanizzazione dell’Europa dell’Est» è evidente nell’analisi, laddove Amin afferma che «l'emergere di questo sistema di produzione globalizzata eliminò le coerenti politiche di "sviluppo nazionale”», pur senza sostituirvi una nuova coerenza poiché «il sistema di produzione globalizzato è incoerente per natura»2.
Ecco quindi emergere il punto debole del neoliberismo che colpì a morte il progetto sovietico. Un punto debole che qualsiasi si ponga il problema del socialismo nel XXI secolo deve saper individuare e colpire. La Cina socialista capì ben prima dell’Unione Sovietica l’importanza della resistenza alla destrutturazione neoliberista e infatti sopravvisse al 1989, seppur mutando radicalmente. Certo, vista da sinistra la transizione dall'economia pianificata a un'economia aperta al mercato sembrò un mutamento troppo radicale, tale da snaturare la natura stessa del socialismo cinese. Tuttavia, ad oggi la Cina difende un nucleo di economia mista ancora invidiabile per i paesi occidentali flagellati da oltre un trentennio di politiche neoliberiste. Inoltre la Banca Mondiale di Sviluppo di Shangai ha rappresentato e rappresenta tuttora un’importante alternativa per i BRICS e per tutti i paesi africani e latinoamericani che hanno manifestato la volontà di rompere con il F.M.I., la Banca Mondiale e la finanziarizzazione.
Dal saggio di Amin emerge come la Russia sia a stento sopravvissuta alla disintegrazione delle privatizzazioni. Insomma, nessuna rappresentazione idilliaca dell’attuale realtà russa, anzi non mancano le critiche pungenti, come quando si afferma che questa «nuova forma di capitalismo in Russia ha incrementato piuttosto che ridotto le caratteristiche del sistema sovietico, raggiungendo una fase di estremo declino»3. Tuttavia emerge come sia in corso una reale opposizione al capitalismo neoliberista, intrapresa sulla via del modello cinese, cioè riducendo il potere delle oligarchie, rinforzando il controllo statale e stabilendo il capitalismo di stato. Ciò ovviamente non significa che il capitalismo non possa sopravvivere, ma che dovrebbe essere subordinato al controllo statale, il quale a sua volta andrebbe indirizzato verso politiche progressiste in ambito sociale, garantendo buoni livelli in ambito dei servizi sociali, educativi e infrastrutturali. La direzione da dare allo sviluppo è quindi segnata da un’impronta marcatamente antimperialista e l’efficacia di un tale progetto richiede di «rinunciare al supporto delle oligarchie che sfruttano e opprimono il popolo russo», l’esempio paradigmatico è il fallimento dei governi filo-russi in Georgia e Ucraina dove «Mosca ha mitizzato individui che si sono rivelati solamente dei volgari agenti stranieri»4.
Allo stesso tempo, il recupero del patriottismo è inteso quale elemento positivo, in opposizione alla globalizzazione neoliberista americana e in grado di stabilire uno «sviluppo autosufficiente» sempre se sarà in grado di «aprirsi a tutte le classi lavoratrici, non diventando una retorica demagogica e ingannevole»5. Anche in questo caso, seppure la Cina rimanga l’unico Paese con un progetto di sovranità nazionale valido, la Russia agli occhi di Amin sembra muoversi verso quella direzione anche se paga ancora chiaramente il prezzo delle privatizzazioni di Gorbaciov ed Eltsin che tentarono di consegnare alla finanza internazionale il Paese.
Il Presidente del Forum Mondiale delle Alternative cerca così di raccogliere quanto è rimasto del «secolo breve» per fornire una possibilità al nocciolo duro dell’imperialismo, intrappolato ora più che mai in una «crisi di egemonia» che è la rappresentazione della miopia delle classi dominanti convinte ora più che mai di essersi messe alle spalle quel secolo che invece torna come uno spettro per riafferrare il presente, chiedendo il conto. Lo scontro che si profila con la presidenza Trump, tra la Cina e gli Stati Uniti, è esattamente questo: una resa dei conti storica la cui portata non riusciamo ancora a definire. Il ruolo della Russia sarà certamente decisivo, ma è tutt’altro che scontata la cieca sottomissione alle politiche anti-cinesi americane che sembrano invece ben più certe.
1 S. Amin, Russia and the Long Transition from Capitalism to Socialism, Monthly Review Press, 2016, p. 29.
2 ivi, pp. 34-35
3 ivi, p. 89
4 ivi, p. 105
5 ivi, p. 99