Giovedì, 13 Dicembre 2012 00:00

Caos climatico arma di distruzione di massa

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L'articolo sarà pubblicato anche sulla rivista cartacea Amerindia, che ringraziamo, insieme ovviamente all'autrice

Aprireste una banca del sangue nel castello di Dracula? In un certo senso è stato fatto. L’ultima e diciottesima Cop (conferenza delle parti) dell’Onu sulla crisi climatica - ormai una questione di vita o di morte – si è svolta a Doha, capitale del Qatar, un Creso climalterante. L’Onu avrebbe piuttosto dovuto riunire i governi in una delle tante aree che già subiscono gli effetti della guerra climatica: fra la sabbia del deserto che avanza in Sahel, ai piedi dei ghiacciai che si sciolgono sulle Ande, ai bordi delle pianure inondate in Bangladesh, fra le zolle delle campagne in carestia, arse da ripetute siccità, o sott’acqua nell’oceano dove tante isole-stato si inabisseranno per via dell’innalzamento del livello dei mari. L’emirato qatariota non aveva il physique du role per presiedere la Cop 18. E’ infatti la massima espressione delle minoranze privilegiate mondiali, paesi e ceti sociali del Nord globale, che dovremmo chiamare grandi debitori del clima. Così infatti li definiscono i paesi “creditori”: dell’Unione africana, dell’Aosis (le piccole isole- stato del Pacifico), e dell’Alleanza bolivariana Alba, con in testa la Bolivia; i più attivi nella denuncia di un capitalismo che ha sconvolto anche il bene comune più globale di tutti.

Responsabili molto irresponsabili contro vittime non responsabili. Belligeranti contro bombardati

Il Qatar, emirato islamista, è il primo paese al mondo per emissioni pro capite di gas serra: 54 tonnellate all’anno. Il Niger, all’ultimo posto, è a circa 300 kg annui. Questa è la faccia dell’ingiustizia climatica, parallela al gap sociale ed economico. Il peso piombo dell’emirato dipende sia dai pletorici consumi interni sia dalle enormi esportazioni di gas naturale, la grande pepita dell’emiro al-Thani (“il gas darà al mondo 300 anni di sicurezza energetica”: e di caos climatico?). Il Qatar è anche il più ricco paese del pianeta: i 250mila sudditi si godono un reddito pro-capite medio di 400mila dollari l'anno (e son serviti da un milione e mezzo di lavoratori stranieri dal Sud globale). E come usa il Qatar i grassi proventi del gas? Non certo a scopi sociali e redistributivi. Ma nel lusso, nella crescita pletorica e in spese militari.

Sempre più negli ultimi anni la bomba climatica si affianca a bombe vere. L’emirato e gli altri membri del Ccg-Consiglio di cooperazione del golfo (petromonarchie) è occupato nel comprare a suon di miliardi di dollari la politica estera di vari paesi della regione, dall'Egitto (Fratelli musulmani) alla Striscia di Gaza (Hamas). E il Ccg con la Nato è ed è stato in prima linea sui fronti di guerra in Libia e Siria, con il sostegno diretto a gruppi armati impegnati in colpi di stato e coinvolti in atti di violenza efferati che hanno portato alla distruzione dei due paesi. Insomma il mondo è aggredito a colpi di gradi (di temperatura nell’atmosfera terrestre) e anche di Grad (missili indiscriminati). Del resto il militarismo bellicoso è uno dei responsabili del cambiamento climatico. Costruire e usare ordigni di morte richiede moltissima energia. Eppure le emissioni climalteranti del settore militari sono escluse dal calcolo: non è loro richiesta alcuna riduzione.

Perché stupirsi dunque se, sotto la presidenza del lussuoso emirato, il documento finale della conferenza Cop 18, il Doha Climate Gateway, è una scatola vuota? Là doveva essere disegnata l’architettura della politica climatica per i prossimi anni visto che è in scadenza il Protocollo di Kyoto, unico strumento che obbliga i paesi storicamente responsabili dei cambiamenti climatici a ridurre le emissioni di gas serra, seppure in modo insufficiente. Ma alla seconda fase (Kyoto II) ha accettato di partecipare solo un gruppo di paesi che insieme raggiunge appena il 15% delle emissioni globali. Restano fuori da Kyoto come sempre gli Stati Uniti. Si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni entro il 2020 del 17%. Ma è niente: significa un misero 3% in meno rispetto al 1990, anno di riferimento normalmente utilizzato.

Di questo passo l’ingiustizia climatica sorella gemella di un capitalismo alienante ci porta verso l’inferno. Lo dice la stessa Banca Mondiale che ha commissionato al Potsdam Institute for Climate Impact Research and Climate Analytics lo studio Turn Down the Heat dal quale emerge che di questo passo il pianeta raggiungerà un aumento medio di temperatura di 4 gradi entro la fine del secolo. Le particelle di anidride carbonica in atmosfera, da contenere entro le 350 parti per milione (ppm), sono già attualmente oltre le 390. Continuando di questo passo, a fine secolo sarebbero 880 e i gradi in più, appunto, 4. Sempre che non si sciolga il permafrost artico liberando metano. Lo scienziato Kevin Anderson ha avvertito: solo mezzo miliardo di persone potranno sopravvivere con 4 gradi in più

I paesi dell’alleanza delle piccole isole Aosis si sono sgolati invano nel ripetere che le stesse 350 ppm sono per loro una sentenza di morte. Insieme alla Bolivia hanno chiesto un accordo globale per ridurre la presenza di CO2 almeno a 300 ppm così da mantenere l’aumento della temperatura entro 1 grado. Non i 2 che tutti prendono come orizzonte e che per l’Africa si tradurrebbero in 3,5. Le parole d'ordine della ricetta di cui avremmo bisogno sono note: riconversione in chiave ecologica della produzione e dei consumi (energetici, agroalimentari, industriali, dei servizi) a partire da un processo di partecipazione ampio che smantelli il capitalismo industrialista. I soldi ci sono. Quanto si spende – e si inquina - nelle armi e nel far guerre?

(Dedicato a Hugo Chavez, con l’augurio affettuoso che continui a lavorare per un uso sociale dei proventi del petrolio, in Venezuela nell’Alba e nel Sud del mondo, e per rendere i fossili uno strumento solo por ahora, finalizzandoli anzi alla costruzione dell’ecosocialismo post-estrattivista, cioè della pace e della giustizia, anche climatica. Un obiettivo necessario che richiederà anche, riteniamo, una nettissima riduzione del flusso di combustibili verso il Nord globale: per obbligarlo a ridimensionarsi e riconvertirsi. O non lo farà mai )

Ultima modifica il Lunedì, 17 Dicembre 2012 19:30
Marinella Correggia

Ecoattivista e attivista per la pace. È anche giornalista e scrittrice: è stata in numerosi paesi del Medio Oriente (oltre che nei balcani), collabora con il Manifesto e il sito www.sibialiria.org

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