Cominciato con il ricordare che quando nel 2011, nel bel mezzo del turbinio di quelle che sarebbero state etichettate come “primavere arabe” ma che in realtà non hanno registrato esiti rivoluzionari in quasi nessun caso, la caduta di Mubarak e la conseguente transizione verso le elezioni furono gestite dall'esercito. È fondamentale spendere due parole su quest'istituzione e sul ruolo che ha sempre svolto nella storia del paese. L'esercito egiziano ebbe nel 1952 un ruolo fondamentale nell'abbattimento della monarchia di Re Faruq: il primo presidente della nuova repubblica fu il generale Naghib, dimessosi poco tempo dopo per fare posto all'”uomo forte”, il generale Gamal Nasser, anche questi proveniente dall'Accademia militare. Nasser, considerato il padre dell'Egitto moderno, ideatore di un panarabismo che prevedeva una via specifica per lo sviluppo dei paesi arabi, uno sviluppo laico e antimperialista. Nasser, che con la nazionalizzazione della crisi di Suez dimostrò a tutti i paesi dell'area che un'unità politica e culturale che non fossero subalterne alle potenze occidentali erano possibili. Ed è anche importante specificare come Nasser si oppose si dall'inizio, molto fermamente, alla Fratellanza Musulmana, organizzazione che proprio in Egitto vede il suo paese d'origine.
Senza stare troppo a dilungarsi, questi accenni, per quanto superficiali e sbrigativi, sono utili a comprendere che le istituzioni egiziane non sono classificabili secondo schemi che applichiamo da noi. Detto questo, facciamo un salto avanti nel tempo. Con la morte di Nasser e l'uccisione di Sadat, l'esercito ha perso gran parte della sua funzione progressista ed emancipatrice: con la morte del presidente Nasser è letteralmente naufragato il progetto panarabo e, con il passare degli anni, l'esercito egiziano è diventato un'istituzione accondiscendente nei confronti delle potenze occidentali, Stati Uniti in primis. È stata, infatti, proprio l'aereonautica egiziana la culla di Hosni Mubarak, eletto presidente nel 1981 e rimasto alla guida del paese per trent'anni. Il suo lungo governo, che ha visto vigere per tutta la sua durata la legge marziale, instaurata come precauzione dopo la morte di Sadat, ha comportato uno stravolgimento dell'economia egiziana: lo stato ha rinunciato al suo forte ruolo pianificatore in economia, lasciando spazio ai grandi capitali, anche stranieri, largamente favoriti dalle privatizzazioni promosse dal governo. Questo non ha fatto che peggiorare le condizioni dei lavoratori. Ed è così che arriviamo alle rivolte del 2011, scoppiate a seguito dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari, della disuguaglianza di reddito e della disoccupazione, soprattutto giovanile. L'Egitto è oggi un paese drasticamente diviso, sotto molti punti di vista: innanzitutto, quello economico, dal momento che vede opporre il grande lusso dei luoghi di vacanza per turisti alla desolazione e povertà del resto del paese (oltre il 50% della popolazione vive al disotto della soglia di povertà). Sono state appunto queste disuguaglianze a portare migliaia di persone in Piazza Tahrir a Il Cairo: le rivendicazioni erano quindi sociali ed economiche.
Come tutti sappiamo, nel febbraio del 2011 Hosni Mubarak è stato costretto alle dimissioni e il potere, nel periodo di transizione verso le nuove elezioni, è stato detenuto dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, lo stesso esercito che, bene tenerlo a mente, lo ha supportato per un ventennio. La tornata elettorale del 2012 ha visto la vittoria del candidato del Partito Libertà e Giustizia, braccio della Fratellanza Musulmana, Muhammad Morsi. Il nuovo governo ha però avuto vita breve: in seguito ai tentativi di stravolgimento della Costituzione per adeguare la legge dello stato a quella del Corano, alla Sharia, forti contestazioni sono nate nei suoi confronti. Piazza Tahrir, nel giugno di quest'anno, è così tornata a riempirsi di migliaia di persone che hanno accusato il Presidente di aver tradito lo spirito “della rivoluzione” con la quale era stato deposto Mubarak. Le manifestazioni che vediamo adesso in televisione sono quelle che la Fratellanza Musulmana ha organizzato in risposta alle dimissioni di Morsi e all'affidamento del governo al generale Abdel El Sisi.
Dopo questa breve e superficiale cronologia, siamo consapevoli del fatto che un'interpretazione unilaterale non solo non rispecchierebbe la realtà dei fatti ma soprattutto ci farebbe peccare della superbia che noi, da membri dell'Unione Europea, usiamo nel valutare le vicende di altri paesi. I fattori da tenere in conto sono molteplici: in primo luogo, il ruolo assunto dalla Fratellanza Musulmana, organizzazione egemone nel mondo arabo ma comunque con diverse sfaccettature che permettono di farsi portavoce della vera ed unica entità islamica (e difensore di questa dalle ingerenze dei deviati occidentali) ed allo stesso tempo di costituire un valido e trasversale punto di riferimento per gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste. Per quanto la posizioni assunte dai vari partiti ed organizzazioni che ne fanno parte siano diverse (basta pensare alla differenza che corre tra Hamas ed i fratelli musulmani in Arabia Saudit), non si può comunque non evidenziare che tendenzialmente questa organizzazione svolge un ruolo reazionario, dal momento che con l'applicazione della sharia ed il mantenimento dello status quo non favorisce certo l'emancipazione dei popoli.
In secondo luogo, l'esercito: per quanto, come abbiamo appena detto, storicamente questa istituzione abbia rappresentato la parte progressista della società, cercando di far sviluppare un sentimento nazionalista che permettesse anche l'avanzamento delle condizioni delle classi medio-basse e tutelando gli interessi dello stato da ingerenze imperialiste, dobbiamo anche ricordare che il trentennio che ha visto Mubarak al governo è stato condito da abbondante accondiscendenza da parte degli Stati Uniti nei confronti dell'operato del rais.
Dobbiamo a questo aggiungere anche che limitare la lettura dello scontro alla frattura laici-religiosi è limitativo: in ballo ci sono molte altre dinamiche che negli ultimi tempi stanno stravolgendo gli equilibri nel mondo arabo. Basti pensare che se le immagini che ci raccontano dei quasi mille morti che sono caduti per le strade egiziane sono arrivate sui nostri schermi è grazie al lavoro delle due maggiori televisioni del mondo arabo: Al Jazeera, l'emittente di origine qatariota che si appresta a sbarcare anche negli Stati Uniti e supporta energicamente la causa dei Fratelli Musulmani si sta “scontrando” nel dare la sua versione dei fatti con Al Arabiya, emittente con sede a Dubai, Emirati Arabi, che sostiene l'operato della giunta militare capeggiata da El Sisi.
Con questo articolo non avevamo alcuna pretesa di riuscire a dare una risposta agli scontri tra tifoserie che si sono create in questi giorni. Ci premeva solo provare a dare qualche elemento ulteriore da tenere in conto nella lettura della situazione. Ed esprimere il nostro rammarico nel constatare che, per l'ennesima volta, grazie all'operato dei media italiani, siamo riusciti a trasformare il dramma politico di uno stato in uno scontro tra tifosi: l'operazione di martirizzazione dei manifestanti dei Fratelli Musulmani è riuscita completamente, cancellando ogni traccia delle violenze perpetuate anche dalle migliaia di persone raccolte in giro per il paese ed “arruolate” dalle campagne per esprimere il proprio sostegno a Morsi. Sono riusciti a portare la discussione su un livello che non ha niente a che fare con quello che sta avvenendo nella realtà: d'altra parte, non sia mai che si corra il rischio di ragionare con serietà, anche nella sinistra del nostro paese, che sta dando veramente il peggio di sé in questa situazione, di quelle che potrebbero essere le condizioni a garantire un effettivo avanzamento delle condizioni dei lavoratori e degli interessi dello stato egiziano.
Immagine tratta liberamente da: www.arabpress.eu