Riassumendo velocemente, il Tribunale ha dato ragione alla multinazionale della consegna a domicilio che aveva interrotto il rapporto con sei rider che avevano preso parte alle proteste seguite alla decisione di passare da una retribuzione oraria di poco più di 5 euro lordi ad un sistema che prevede una retribuzione di circa 3 euro a consegna. Lavoro a cottimo, semplicemente.
I legali dei sei lavoratori hanno intentato la causa per contestare quello che, nei fatti, è stato un licenziamento ma il giudice, di cui si aspettano ancora le motivazioni, ha deciso di dare ragione all’azienda: trattandosi di una prestazione fornita da liberi professionisti, non è stato interrotto alcun rapporto di lavoro ma semplicemente si è scelto di non usufruire più dei servizi forniti da quei sei fattorini.
Quindi, tutto legittimo: l’impiego di lavoratori di fatto dipendenti senza che a questi siano riconosciuti i diritti previsti dalla legge, paghe da fame (ripeto, tre euro a consegna, a prescindere dalla distanza percorsa e dal tempo impiegato), condizioni di sicurezza che potremmo definire eufemisticamente ridicole.
La sentenza emessa rischia di portare a conseguenze che potrebbero rivelarsi catastrofiche: la gig economy, l’economia basata su lavori “tappabuchi” mediati da app sullo smartphone, è la nuova frontiera dello sfruttamento nella civilissima Europa, ma ciò non sembra interessare minimamente i protagonisti del dibattito pubblico nel nostro paese (a meno che, ovviamente, a fare macello contro Uber non sia la corporazione dei tassisti in difesa delle proprie licenze da centinaia di migliaia di euro).
Sembra del tutto normale oramai vedere ragazzi vestiti con pettorine fluo e con scatoloni sulle spalle sfrecciare per le strade per consegnare a domicilio la cena proveniente dal ristorante asian fusion di ultima apertura: sono studenti che cercano di arrotondare no? E forse potremmo anche aggiungere che la consegna a mezzo bicicletta ci pulisce la coscienza, che il surriscaldamento globale è un problema che oggi non possiamo più ignorare.
L’ipocrisia che porta a far finta di non capire cosa vi si nasconde dietro è sintomatica di una politica che ha smesso di interessarsi di lavoro da decenni, che ha sorvolato sullo smantellamento dei diritti di chi lavora e che oggi si divide tra chi pensa che il Jobs Act, con la sua ulteriore spinta alla flessibilità, abbia migliorato il mondo del lavoro e chi crede che un reddito di cittadinanza (di cui abbiamo capito tutto molto poco ancora) basterà a risollevare le sorti di questo paese.
La mancata regolamentazione del settore non solo porterà ad un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro (3 euro a consegna? Perché non 2?) ma renderà del tutto arbitraria la gestione del settore in ascesa. Da una parte perché, nonostante ci siano state una serie di indicazioni da parte della Corte di Giustizia Europea (che ha anche emesso una sentenza con la quale Uber viene equiparato, a tutti gli effetti, ad un servizio di trasporti da regolamentare) e alcune istituzioni comunitarie (leggi qui e qui) abbiano riconosciuto come dipendente questa “nuova” tipologia di lavoratori, ogni stato sta sviluppando una legislazione differente. E vediamo così che l’Ispettorato del Lavoro di Valencia, ad esempio, ha riconosciuto come dipendenti i lavoratori di Deliveroo (altra grande multinazionale della consegna a domicilio) oppure il Tribunale del Lavoro del Regno Unito che riconosce agli autisti di Uber diritti quali salario minimo e ferie. In Italia la sentenza di Torino ha invece negato una possibile regolamentazione del settore e confermato quindi la legittimità di un nuovo tipo di sfruttamento che fa perno sulle difficoltà che caratterizzano il mercato del lavoro oggi (perché non è vero nemmeno per sbaglio che i fattorini in bicicletta scelgano questo lavoro “a tempo perso”) e sulla scia che oramai da anni ci porta ad essere lavoratori sempre più flessibili e “dinamici”. È interessante notare però che la deregolamentazione non è la stessa per tutto lo svariato mondo della gig economy: il fenomeno Air BnB, multinazionale che media l’affitto per tempi brevi di camere o appartamenti, ha fatto sorgere problemi di natura economica legati soprattutto a ragioni fiscali. Ed è così, che ad esempio, il Comune di Firenze (che vede il centro completamente stravolto dalle nuove modalità di permanenza) ha raggiunto un accordo con la multinazionale per quanto riguarda il pagamento della tassa di soggiorno.
Ora, non mettiamo certamente in dubbio che il pagamento delle tasse da parte di queste multinazionali vada a beneficio della collettività, detto questo viene naturale notare come lo stesso tentativo di garantire il rispetto della legge non sia stato fatto quando ad essere in ballo non c’era il rimpinguamento delle casse comunali (o la minaccia di paralisi del traffico da parte dei tassisti) ma la difesa dei diritti di lavoratori precari e sfruttati. È quindi evidente che il problema non risiede esclusivamente nella nuova natura di queste aziende, ma anche nel modo in cui la politica intende oggi il lavoro. La sentenza ha segnato un brutto colpo al tentativo di estendere tutele minime ad una categoria di lavoratori che non si vede riconosciuto assolutamente niente (nemmeno casco e bicicletta vengono messi a disposizione dall’azienda) ma nonostante ciò, da una parte, i legali, una volta lette le motivazioni, tenteranno di fare ricorso e, dall’altra, i riders andranno avanti con le proprie rivendicazioni (potete seguirli sulla pagina Facebook).
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