Giovedì, 24 Ottobre 2013 00:00

Tra i guerriglieri curdi - Diario di un viaggio a Qandil #1

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Riceviamo il diario di un viaggio avvenuto tra il 2 e il 3 ottobre nel nord dell'Iraq, inoltratoci da Luigi Vinci.

Siamo sulle montagne di Kandil, al limite di tre confini, Turchia, Iran e Iraq.

La zona, denominata Medya, è sotto il controllo della guerriglia kurda.

C’è un posto di blocco dei guerriglieri.

Scendiamo nel buio della notte e percorriamo un tratto di strada a piedi, giù per una scarpata ripida, alla luce delle torce elettriche, fino ai bordi di un torrente che attraversiamo passando su un ponte di tronchi.

In una radura, vicino al torrente, c’è l’accampamento; dappertutto, ci sono piccoli gruppi di guerriglieri del Pkk, sono uomini e donne, molti giovani.

C’è un grande fuoco acceso, consumiamo la cena che ci hanno preparato: spaghetti alla matricina (!), carne d’agnello, formaggio di capra e olive nere. Tutto molto buono.

Parliamo con i più anziani, c’è un uomo, sulla quarantina, che parla perfettamente il francese, sono molto tranquilli, ridono e scherzano con noi fin verso le 10,00, poi ci invitano ad andare a letto perché la sveglia è all’alba, ma per noi fanno un’eccezione: sveglia alle 6.00!

Passiamo la notte in un rifugio di pietra, ben mimetizzato, divisi, uomini e donne, avvolti in calde coperte, perché di notte fa freddo lassù.

Fuori, il cielo è stellato e pulito, molto bello.

Puntualmente, alle 6,00 del mattino, c’è la sveglia.

Usciamo e ci dirigiamo verso la radura, circondata da alberi di noci selvatici: c’è un bel fuoco acceso, la temperatura si sta alzando, ci portano la colazione: olive, thè e formaggio di capra; il pane non è fresco, ma è buono.

Mentre mangiamo, osserviamo la scena: i guerriglieri stanno in cerchio attorno al fuoco, parlano e scherzano tra loro, sono tutti vestiti con una divisa verde oliva: larghi pantaloni con il cavallo basso, camicia militare, giubbotto, una fascia colorata intorno alla vita e la kefia al collo.

Arriva una giornalista turca che, a tutti i costi, vuole fare un’intervista alla comandante; lei però non è disponibile, dice che c’è una delegazione italiana, non c’è tempo.

Poi i guerriglieri si dispongono in fila e salutano così, con un abbraccio e una stretta di mano, un ospite in borghese del campo. 

Anche in seguito, con il nostro gruppo, i saluti dei guerriglieri avverranno sempre osservando questa prassi.

Dopo la colazione, con il giornalista del nostro gruppo, facciamo due interviste a due comandanti, un uomo ed una donna. 

Il nome di battaglia della donna è Arjin che significa “Il fuoco e la vita”.

Esordisce con un rimbrotto, chiedendoci come mai non c’è nessuna donna nel gruppo che è arrivato fin lassù, se non l’interprete. È vero. Incassiamo e promettiamo che la volta prossima, ci sarà una delegazione composta di sole donne.

Poi presentandosi: “Sono nata in Germania nel 1977 – dice - la mia famiglia era emigrata lì nel 1970. 

Vivevo un conflitto tra la mia vita in Europa e la cultura kurda. In Europa eravamo trattati come cittadini di serie B.

Pensavo che mi mancava la mia lingua, la mia cultura, il mio Paese, non potevo dire di essere kurda.

Ogni anno, con i miei genitori, venivo in Turchia per passare le vacanze.

Forse avrei potuto essere una donna ricca in Europa, ma se non hai un tuo Paese, una tua cultura, una tua lingua, non sei libera.

Con questi pensieri, sono entrata in contatto con il Partito nel 1995, ho cominciato a lavorare con loro, poi ho deciso di venire quassù”.

Essere kurdi in Turchia cosa vuol dire?

“Molti anni fa – dice – i kurdi non potevano dire di essere kurdi. Le famiglie non potevano dare un nome kurdo ai loro figli. C’era molta repressione, autoritarismo, esecuzioni extragiudiziarie, massacri... Ad esempio, quando un ragazzino kurdo andava a scuola e non parlava bene il turco, l’insegnante lo picchiava, lo umiliava.

Nel lavoro, tutti i lavori più umili erano per i kurdi.

Ma con lo sviluppo della lotta, le cose sono cambiate. Abbiamo pagato molto, ma le cose sono cambiate: vedo in televisione che adesso i kurdi parlano la loro lingua madre, riscoprono le proprie tradizioni culturali, affermano la loro dignità.

Ora ci sono molte persone in carcere in Turchia: politici, amministratori, gente comune, giornalisti, il cui crimine è raccontare la realtà del nostro popolo.

Tutto questo deve finire. 

Noi vogliamo essere uguali agli altri popoli e vivere in pace con loro.

Noi abbiamo pagato molto, abbiamo avuto molti martiri.

Ora c’è un negoziato aperto, annunciato dal palco del Newroz di Amed.

Il messaggio del nostro leader, Ocalan, è stato quello di lasciare le armi e lavorare politicamente.

Ma le cose stanno ferme, sono ad un punto morto.

Il primo Ministro, Erdogan, ha annunciato un pacchetto di cosiddette “riforme”, ma in questo pacchetto non c’è nulla per noi. Niente.

Per cui, la lotta continua”.

Avresti voglia di scendere giù dalle montagne?

“Non ho voglia di scendere giù – ci dice – Giù non c’è sicurezza, ci sono massacri di donne, ci sono violenze e stupri. Qui c’è la libertà.

Questa vita quassù in montagna è molto, molto bella.

Qualche volta abbiamo solo un pezzo di pane da mangiare, ma lo dividiamo e lo condividiamo tutti assieme.

È una rivoluzione culturale, da qui parte la costruzione di una società nuova”.

Foto di Dmitrij Palagi

Ultima modifica il Giovedì, 24 Ottobre 2013 00:45
Beccai

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