Jacopo Vannucchi

Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

Venerdì, 26 Gennaio 2018 00:00

Podemismo come quarta rivoluzione?

Podemismo come quarta rivoluzione?

Negli ultimi anni si sono avute, potremmo dire con un certo understatement, varie novità nei movimenti che concorrono a definire il quadro politico del mondo occidentale. Virtualmente chiunque avrà sentito parlare di ondata populista, pericolo populista, populismo, eccetera. Molti, probabilmente, si saranno sentiti un po’ male in arnese nel decodificare correttamente un termine talmente ambiguo – alcuni si saranno anche posti la legittima domanda se sia così terribile essere populisti ovverosia richiamarsi al popolo. La confusione sorge non soltanto da tale domanda, ma anche dal fatto che nel discorso dominante il termine populismo sembra riferirsi in aggregato a formazioni diverse, appartenenti ai due capi opposti dello spettro politico (destra/sinistra) o che addirittura da esso si autoescludono e se ne proclamano estranee.

Dicembre 2017: quanti anni compie Zio Paperone? «70!», risponderà il disneyano di media cultura. Ineccepibile: la prima apparizione di Scrooge McDuck si ha nel dicembre 1947 in Il Natale di Paperino sul Monte Orso.
Ma il disneyano aficionado, il paperonista accanito, replicherebbe sornione che gli anni del vecchio papero sono molti di più: 150, essendo nato a Glasgow nel 1867. Quest’affermazione è già sufficiente a illuminare l’impatto di Paperon de’ Paperoni nella cultura di massa. In italiano il suo nome è addirittura passato ad indicare, per antonomasia, la figura archetipica del nababbo. Ma è negli Stati Uniti che la vita e il carattere di Paperone sono stati creati e definiti, con una cura filologica davvero rara in un fumetto destinato principalmente all’infanzia.

È stato Don Rosa (n. 1951, anni di attività: 1987-2006) a intraprendere e realizzare una colossale opera di sistematizzazione in un canone storicamente coerente degli indizi e riferimenti qua e là disseminati dal creatore di Uncle Scrooge, Carl Barks, prima del suo pensionamento nel 1966. Ma già Barks aveva abbozzato un albero genealogico delle famiglie “papere”, poi consegnato da Don Rosa a una condizione definitiva e organica. Questo impegno pluridecennale testimonia non soltanto l’opera individuale di due sceneggiatori, ma anche il valore simbolico del personaggio, i cui richiami alla cultura di massa, esplicitati ed immortalati da Don Rosa, erano già contenuti nella produzione di Barks.

Come noto, Scrooge McDuck era stato concepito come personaggio estemporaneo per comparire una tantum in una storia natalizia. La sua popolarità fu tale da porlo in breve tempo tra i massimi protagonisti del suo universo. Questa contraddizione è evidente nelle due figure che ne ispirarono a Barks la definizione: da un lato Ebenezer Scrooge, il gretto avaro del “Canto di Natale” di Dickens, a cui Paperone deve il suo nome originale; dall’altro, Andrew Carnegie, un povero scozzese che da operaio bambino nelle fabbriche di cotone divenne uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Se l’avarizia del primo personaggio è sopravvissuta soltanto in forme caricaturali e innocue (la palandrana acquistata di seconda mano nel 1902, le bustine di tè riutilizzate fino alla sparizione, eccetera) è stato invece l’intervento filantropico di Carnegie a definire i contorni dell’utilità sociale dell’enorme capitale a disposizione di Paperone. La stessa natura di questo capitale è paradigmatica: accanto alle immense partecipazioni azionarie, il vecchio papero ha accantonato “tre ettari cubici” di denaro liquido: ammesso che siano tutte monete da un dollaro d’argento, sarebbero circa 200 miliardi di dollari. «Questo non è tutto il mio denaro!», spiegò ai nipoti mostrandoglielo per la prima volta. «Ma questo che vedete è il denaro che ho guadagnato da me, da solo! Ogni moneta contenuta qui dentro significa qualcosa, per me! […] Questo è il denaro che non spendo e non spenderò mai!» (Don Rosa, Il papero più ricco del mondo, 1994).

Il potente appeal che Paperone continua a riscuotere (si veda la pagina Facebook “Ventenni che piangono leggendo la saga di Paperon de' Paperoni”) appare invero dovuto alla combinazione di tre fattori:

1. la vecchiaia, che lo rende un monumento vivente ai successi ottenuti con la saggezza e con la tenacia («Sarò più duro dei duri e più furbo dei furbi…e farò quadrare i miei conti! Mi sa che questo è l’inizio di qualcosa di grandioso!» dice a se stesso il Paperone lustrascarpe a dieci anni nella Glasgow del 1877);

2. la collocazione storica, che proietta il personaggio in profondità, facendolo aderire allo sviluppo della società invece di lasciarlo confinato, come solitamente accade al fumetto, in un universo che per quanto dettagliato resta fantastico;

3. l’umanità: il papero è solo la foggia esteriore; le azioni e i sentimenti di Paperone sono umanissimi, anche se dell’uomo mostrano quasi sempre la parte migliore. Tutti i paperi Disney ovviamente hanno comportamenti umani, pur non essendo antropomorfi, ma grazie a Don Rosa Scrooge McDuck ha violato due confini tabù per quei fumetti (e anche per gli uomini in carne e ossa!): la morte e il sesso. La morte, in una vignetta ad hoc in cui i nipoti anziani e i pronipoti adulti piangono davanti a una tomba “Scrooge McDuck 1867-1967”; il sesso, in una sequenza muta e fuori campo nell’ultima storia di Don Rosa, La prigioniera del fosso dell’Agonia Bianca (2006): è il giudice Roy Bean, una leggenda vivente del West, a dichiarare: «Alla luce di un’attenta valutazione (e di molti anni di esperienza) il verdetto di questa corte è che quanto sta accadendo in quella capanna non è un reato punibile con l’impiccagione a Langtry, Texas… o in qualsiasi altro posto! Grazie al cielo!».

La cifra fondamentale di Paperone come capitalista emerge in rilievo nelle differenze con i suoi principali avversari, entrambi creati da Barks: Cuordipietra Famedoro (Flintheart Glomgold in originale) e John D. Rockerduck. Il primo è un boero sudafricano che come Paperone è partito dal nulla, ma che diversamente dallo scozzese ha scelto la via della disonestà, dell’inganno, della mancanza di qualsiasi scrupolo: nelle storie americane egli è l’eterno secondo papero più ricco del mondo; significativamente, nella sua storia di esordio (Carl Barks, Paperino e il torneo monetario, 1956), Paperone risulta più ricco di lui solo per qualche centimetro di spago: quello a cui ha legato la Numero Uno, la prima moneta guadagnata col proprio lavoro di lustrascarpe, a testimonianza di un’accumulazione non immune dalla responsabilità sociale. Rockerduck, molto più noto in Italia che altrove, non ha neanche guadagnato la propria fortuna, costruita invece dal padre durante la corsa all’oro in California del 1849 (un piccolo antesignano di Paperone, arricchitosi definitivamente con la corsa all’oro del Klondike nel 1897). Nonostante il nome suoni come un esplicito richiamo a Rockefeller, questi è in realtà come Carnegie un alter ego di Paperone essendo giunto alla ricchezza da origini umili. Rockefeller e McDuck sono stati entrambi, nei loro mondi, gli uomini/paperi più ricchi (la fortuna del primo arrivò a toccare l’1% del Pil degli Stati Uniti) ed entrambi sono stati dei monopolisti il cui potere sociale è stato temuto e combattuto: «I tre pericoli sui quali ho maggiormente insistito nella mia campagna elettorale», dichiara Theodore Roosevelt apprendendo dell’arrivo di Scrooge a Duckburg nel 1902, «i grandi affari, le interferenze straniere e le minacce militari alle nostre coste, sono diventati uno solo!» (Don Rosa, L’invasore di Forte Paperopoli, 1994).
Paperone, però, non è solo un anziano capitalista con alle spalle una vita avventurosa. Al contrario, tutte le avventure in cui lo vediamo con occhiali, bastone e basette lo coinvolgono ad un’età tra gli 80 e i 100 anni – prestando fede, s’intende, al rigore cronologico di Don Rosa che ha sempre ambientato le proprie storie negli anni Cinquanta. «Mi sento come se avessi ancora 20 anni buoni di lavoro davanti! E le più grandi avventure ancora da vivere!», spiega ai suoi nipoti la sera del 25 dicembre 1947 (Il papero più ricco del mondo). A differenza di Charles Foster Kane di Quarto potere, al cui cinegiornale di apertura si richiama il cinegiornale a fumetti di quella storia, Paperone non muore in solitudine, ritirato dal mondo e condannato a non raccogliere davvero i dividendi umani del proprio denaro guadagnato a prezzo di una vita di sacrifici e rinunce. Egli resta fino alla fine un avventuriero nel senso più nobile del termine e, nonostante gli eterni tentativi di salvare la propria apparenza di taccagno, non esita ad esporsi personalmente per difendere la collettività di Paperopoli che lui stesso con i suoi investimenti ha trasformato dal villaggio di contadini del 1902 in una grande metropoli industriale: si vedano Zio Paperone in qualcosa di veramente speciale (1997) o Sua Maestà de’ Paperoni (1989).
L’amore per Doretta Doremì, a cui Don Rosa ha dedicato ben cinque storie, oltre ai riferimenti onnipresenti nelle altre, è il risvolto privato di una personalità ricchissima di esperienze e capace di farle tutte fruttare.
Nel settembre 1917 Lenin scrisse: «il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico» (La catastrofe imminente e come lottare contro di essa), mentre il giovane Marx aveva già definito il denaro, in quanto mediatore universale, «il potere alienato dell’umanità» (Manoscritti economico-filosofici del 1844). La figura sociale di Zio Paperone cresce esattamente, nell’irrealtà, come risolutrice di queste antinomie incomponibili: egli è quanto di più vicino a un monopolio capitalistico privato messo al servizio di tutto il popolo, quanto di più vicino a una riappropriazione di noi stessi per tramite del denaro stesso. Si tratta di un’antica promessa del capitalismo classico, oggi resa inattuale dall’abnorme sviluppo finanziario dell’ultimo trentennio, ma evidentemente ancora in grado di risvegliare emozioni e attenzioni.

P.S.
Nel 2001 Topolino organizzò elezioni per posta cartacea, in concomitanza con le elezioni politiche del 13 maggio. Gareggiavano 12 liste, ognuna guidata da un personaggio Disney. La preferenza di chi scrive andò a Zio Paperone a capo del “Partito dei Ricchi”; la lista arrivò quarta con il 6%. Ad affermarsi nettamente furono con il 35% “Amaca Selvaggia” di Paperino, che chiedeva l’abolizione dei debiti per i cittadini onesti e scansafatiche, e con il 31% “Campeggi 4 Stelle” di Qui, Quo e Qua, che prevedeva il regalo ad ogni ragazzo di consolle per videogiochi, connessione Internet e piscina coperta. Ricorda qualcosa?

Consenso, relazionalità e libertà: una questione sociale

La prima difesa di uno dei carabinieri accusati di aver violentato due studentesse a Firenze, all’inizio dello scorso settembre, consisté nel rivendicare la natura consenziente del rapporto intercorso.

Seguirono, sulla stampa, definizioni del consenso sessuale precise e dettagliate al limite del maniacale, tanto da apparire beffarde, se non addirittura crudeli, in un regno che è quello della violenza. Al mondo della violenza, a ciò che si situa anteriormente alla formazione delle società e dei codici, appartiene non soltanto lo stupro bensì, tout court, l’attività sessuale.

Democrazia diretta, democrazia liberale, dittatura e dialettica politica

«Ma perché non si potrebbe conseguire quest’obiettivo [l’estinzione dello Stato in generale] senza la dittatura di una classe? Perché non si potrebbe passare direttamente alla democrazia “pura”? – domandano gli ipocriti amici della borghesia o gli ingenui piccoli borghesi filistei ingannati da essa. Perché in ogni società capitalistica, rispondiamo noi, [...] i piccoli proprietari restano inevitabilmente dei sognatori esitanti, impotenti e sciocchi, che fantasticano di una democrazia “pura”, cioè di una democrazia che sta al di fuori o al di sopra delle classi. Perché soltanto la dittatura della classe oppressa permette di uscire da una società nella quale una classe ne opprime un’altra.» - Lenin, "Democrazia" e dittatura, Pravda, 3 gennaio 1919

«Numero candidature ufficiali a tredici giorni dalla scelta del candidato premier del mov. 5 stelle: zero. È la democrazia diretta, bellezza.‬» - Claudio Cerasa, Facebook, 11 settembre 2017

La prima citazione costituì il brevissimo intervento con il quale commentai la querelle che durante la campagna referendaria di un anno fa oppose Zagrebelsky e Scalfari. Al primo, che aveva difeso il conflitto democratico contro il rischio oligarchico che la riforma Renzi-Boschi avrebbe apportato, il secondo rispose che la democrazia rappresentativa è di fatto un’oligarchia democratica e che le sole alternative sono la dittatura oppure la democrazia diretta.

Giovedì, 10 Agosto 2017 00:00

Dieci anni di crisi

Nel luglio 1979 l’allora Presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, tenne un discorso alla nazione in cui parlò della “crisi di fiducia” che stava colpendo il Paese.

Alla chiusura degli anni Settanta, con la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate, due shock petroliferi (di cui il secondo in pieno svolgimento), gli Stati Uniti vedevano appannarsi non soltanto la propria proiezione imperiale ma anche il nerbo industriale che da decenni nutriva il sogno americano. Quel sogno si era già deformato in un grottesco incubo: «L’identità umana», ammonì Carter, «non è più definita da ciò che uno fa, ma da ciò che uno ha. Ma abbiamo scoperto che avere cose e consumare cose non soddisfa il nostro desiderio di significato».

Tre anni fa l’elettorato irlandese bocciò, con il 52%, la riforma costituzionale che avrebbe abolito il Senato. Il risultato fu determinato dalla larga contrarietà degli elettori della capitale Dublino, ove più si concentravano gli interessi e le influenze generati dal Senato.

Trump: il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera

Nel 1928 il Partito democratico statunitense candidò alla Casa Bianca Al Smith, governatore del New York. Smith era il primo cattolico a correre per la Presidenza e la sua nomination fu accolta con profondo sospetto dagli elettori rurali, che lo consideravano un pericoloso papista. L’animosità fu ancora più forte nel Sud, dominato dai democratici locali che avevano raccolto l’eredità della Confederazione e dal Ku-Klux-Klan, che oltre ai neri perseguitava anche cattolici, comunisti ed ebrei. Per evitare una fuga di voti, il governatore democratico del Mississippi, membro del Klan, mise allora in giro la voce che il candidato repubblicano, Herbert Hoover, aveva ballato con una donna nera. Smith, rispetto ai precedenti candidati del suo partito, perse gli stati dell’Alto Sud, con minore popolazione nera (che comunque non poteva votare); mantenne invece quelli del Profondo Sud, in cui i bianchi erano spaventati dall’integrazione razziale ancor più che dal cattolicesimo.

Mercoledì, 16 Novembre 2016 00:00

Elezioni statunitensi: declino e stallo? (2)

Una domanda che per gran parte dell’estate e dell’autunno ha interrogato i commentatori della politica Usa è stata: Trump trascinerà a fondo con sé anche i candidati repubblicani al Congresso? È accaduto, come ora sappiamo, il contrario: Trump ha trainato dietro di sé anche candidati repubblicani dati per spacciati o comunque molto in pericolo (Johnson in Wisconsin, Toomey in Pennsylvania, Young in Indiana, Blunt in Missouri).

Giovedì, 10 Novembre 2016 00:00

Trump: su chi ha costruito la vittoria?

Le elezioni presidenziali 2008-2012-2016 presentavano alcune affinità con quelle 1932-1936-1940. Nella prima consultazione un Presidente democratico veniva eletto per reazione a una grave crisi economica prodotta sotto un’amministrazione repubblicana; il nuovo Presidente nel primo mandato provvedeva a invasive riforme finanziarie e sociali e veniva rieletto contro ogni aspettativa dei repubblicani, che lo consideravano un sovvertitore della libertà individuale. Infine, per il terzo mandato, il Presidente si ricandidava (Obama per interposta persona, non potendo farlo personalmente: ma il legame ereditario era chiaro) mentre il Partito repubblicano, piombato nel caos, nominava un imprenditore invece di un politico. Nel 1940 Roosevelt stravinse ancora; nel 2016, invece, ha vinto il fascismo.

Martedì, 18 Ottobre 2016 00:00

Riforma costituzionale: perché votare sì

I tentativi di riforma costituzionale in Italia, almeno negli ultimi vent’anni, si sono sempre purtroppo distinti per tre sgradevoli caratteristiche: un allontanamento dai principii antifascisti, un grave errore di prospettiva, il contenere pressoché sempre proposte di destra.

A partire dalla Rivoluzione francese la sinistra politica ha sempre difeso la forma parlamentare unicamerale, fedele al principio che la sovranità popolare è indivisibile. Per questa ragione nel 1946 socialisti e comunisti si presentarono alla Costituente chiedendo il monocameralismo. La Dc e il Pli chiedevano invece, accanto alla Camera bassa, un Senato delle professioni, delle corporazioni e del notabilato. Il compromesso fu il bicameralismo paritario, con l’aggiunta di cinque senatori a vita di nomina presidenziale e, per la I Legislatura, di alcuni senatori di diritto.
Sotto questo aspetto la riforma Boschi rappresenta non lo stravolgimento, bensì al contrario l’effettivo e pieno sviluppo della Costituzione antifascista. Vedremo, più avanti, il perché.

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