Giovedì, 23 Novembre 2017 00:00

Consenso, relazionalità e libertà: una questione sociale

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Consenso, relazionalità e libertà: una questione sociale

La prima difesa di uno dei carabinieri accusati di aver violentato due studentesse a Firenze, all’inizio dello scorso settembre, consisté nel rivendicare la natura consenziente del rapporto intercorso.

Seguirono, sulla stampa, definizioni del consenso sessuale precise e dettagliate al limite del maniacale, tanto da apparire beffarde, se non addirittura crudeli, in un regno che è quello della violenza. Al mondo della violenza, a ciò che si situa anteriormente alla formazione delle società e dei codici, appartiene non soltanto lo stupro bensì, tout court, l’attività sessuale.

Sono personalmente convinto che la dicotomia consenso/dissenso sia sorta precisamente soltanto con le società, con la formazione dei nuclei familiari, con la necessità dei capifamiglia di mantenere uno stretto controllo sulle nascite e sugli eredi. Il valore del consenso o dissenso a un rapporto sessuale tra gli ominidi preistorici aveva probabilmente il medesimo senso che mantiene tuttora tra i gatti o tra gli insetti: nessuno, poiché non vi è una libera volontà bensì un dominio degli ormoni. Ormoni estremamente aggressivi, legati intimamente a una dimensione di feroce lotta per la sopravvivenza; i medesimi che scatenavano e scatenano ancora la caccia (procurarsi risorse uccidendo la preda) e la guerra (uccidere i contendenti di tale risorse).

La forza antisociale di questa spinta, che al contrario della caccia e della guerra appare presente in quasi tutti gli esseri umani, è evidente in due dati di fatto: il primo, che il sesso non ha potuto essere sostituito da surrogati (ad esempio lo sport per la caccia e la politica per la guerra); il secondo, che le società sono state sempre costrette, per tenerlo sotto controllo, a trasformarlo in nevrosi, dagli antichi culti della fecondità fino ai moderni umani che rinunciano alla compagnia dei simili per quella delle bambole gonfiabili.

Che in un simile campo si possa tentare un approccio leguleio e cavilloso (del resto obbligato dalla necessità di reprimere gli atti violenti) fa pensare a un’immagine evocata da De André: “un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura”.

Quando, infatti, si può affermare con certezza che il consenso è libero? Difendendo alcune posizioni controverse in materia di pedofilia, Pannella ricordò una volta che anche un trentenne, e non solo un minorenne, può essere “plagiato” (rivendicando infatti di aver guidato dopo il caso Braibanti la campagna per l’abolizione del reato di plagio).

Michela Marzano cercò di affrontare la questione in un articolo pubblicato su la Repubblica, ma fu costretta a inserire nel proprio ragionamento una premessa: «sarebbe sciocco e vano immaginare che il consenso, soprattutto nei giochi di seduzione, arrivi scevro di emotività e razionalmente calcolato». Tuttavia, concluse, «La violenza contro le donne non potrà mai essere sconfitta fino a quando ci sarà chi pensa che, in fondo, il "sì" possa anche essere implicito».

Nel caso in specie da cui partiva – quello di Firenze, appunto – il dato era più che evidente: una persona in stato di intossicazione alcolica non può e non potrà mai dare un consenso davvero libero, sia perché priva di una capacità razionale sia perché le sue emozioni sono, per così dire, artificiali.

Ma, al di là dei casi limite, se si è in assenza di un metro razionale che risponda ad alcuni basilari requisiti metrici (chiarezza, facilità di comprensione, facilità di misurabilità, campionatura), dove e come si può tracciare la linea che distingue la «fragilità» dall’«abuso» di essa (riporto termini usati dalla stessa Marzano)?

Una definizione simile può essere soltanto soggettiva, ma il problema si ripropone: cosa garantisce la comunicabilità tra le soggettività dei contraenti il rapporto sessuale? Non certo il diritto. Una mia conoscenza, molto attiva nel campo dei diritti LGBT+, scrisse in quei giorni su mezzi privati (Facebook) che il rapporto sessuale deve basarsi sul consenso entusiasta dei contraenti per tutta la sua durata. Chi conosce la civiltà greca antica sa che l’entusiasmo è una condizione mistica (“avere il dio dentro”), un furore prossimo alla trance. Il meticoloso Kant, probabilmente asessuale, lo definì con una certa dose di understatement «stato in cui l’animo è infiammato oltre la misura appropriata». Come si garantisce un quadro regolamentare razionale di simili fenomeni, che sono irrazionali per definizione?

La domanda a questo punto cessa di essere se un consenso consapevole possa venir dato in condizioni di alterazione, bensì, all’opposto, se esso possa venir dato in condizioni “normali”. Non è la persona sessualmente eccitata già alterata e al di fuori di uno stato psicofisico normale?

Provocatoriamente ho visto apparire, sempre sui social network, un modulo burocratico di liberatoria per atti sessuali da far firmare alla controparte in caso di incontri galanti. Certamente lo scarto con la realtà prodotto da questo modulo pone di fronte alle questioni che nella realtà stessa sembrano non trovare risoluzione: la libertà del consenso e la decidibilità di essa.

L’esperienza potrebbe suggerire che la decidibilità del libero consenso sussista solo laddove garantita dal consenso a una relazione stabile. Questa relazione stabile fungerebbe infatti da “plebiscito quotidiano” fondativo dell’epistemologia del consenso. Essa infatti produce un orizzonte di significati condivisi, un linguaggio che si accumula e si stratifica nel tempo, che pone le note equazioni sì = sì, no = no. (La pubblicità progresso antiviolenza si occupa spesso, e giustamente, di propagandare queste equazioni, ma quasi sempre omette di definirne i confini, per esempio “non prenderai come legittimo un sì dato in stato di ebbrezza”).

Ma anche in questo modo, e anche assumendo l’assenza di falle logiche nel linguaggio prodotto empiricamente da una relazione (e sappiamo che è un’assunzione del tutto fittizia), non si fa che spostare il problema: bene, il consenso all’atto sessuale è garantito dal consenso della relazione: ma da cosa è garantito quest’ultimo?

Evidentemente non ci si può appellare a contratti riconosciuti dalla legge, come il matrimonio, visto che anche in esso si verificano violenze. Nel 2015 tornarono alla ribalta alcune dichiarazioni rese da Ivana Trump in sede di divorzio circa un episodio violento subìto dall’attuale inquilino della Casa Bianca; intervenendo nel dibattito che si scatenò, l’ex moglie di Trump chiarì che si era trattato non di stupro «in senso letterale o penale», bensì di una “violazione emotiva”. In ogni caso, certo non vi era consenso.

Si potrebbe affermare, salomonicamente, che il consenso crea se stesso: è proprio perché continuo a condividere il mio tempo con quella persona che tale condivisione è consenziente. Ma una simile lettura, oltre a cozzare contro i casi di costrizione oggettiva (ad esempio ricatti taciti in materia di denaro, di lavoro o di affetti familiari), rivela uno sguardo molto inquietante sul tema della libertà umana, che sarebbe soltanto il rispecchiamento postumo di eventi nel campo della fisica.

Žižek ha ricordato, in pagine davvero interessanti, ciò che ogni persona che sia stata innamorata conosce: è impossibile comunicare l’amore. Come esempio storico fornisce Diderot (un nemico dell’entusiasmo!) che in una lettera all’amante così spiegava gli spazi bianchi volutamente lasciati sulla carta: «dove non c’è scritto niente, leggi che ti amo».

Questo accade perché l’amore, come si è sempre intuito fin dall’antica filosofia, ricerca qualcosa di cui siamo privi. In particolare esso ricerca ciò che più intimamente e strutturalmente ci manca, il contatto immediato tra uomo e uomo, che è un contatto che risiede nella coscienza. Il contatto fisico immediato, infatti, può essere raggiunto anche tramite la prostituzione o appunto lo stupro. La possibile obiezione secondo cui la proprietà dell’amore è aggiungere l’immediatezza spirituale all’immediatezza fisica è contraddittoria in quanto la corporeità è essa stessa già una mediazione per la coscienza.

Nel “Fedro” Platone sostenne che l’eros sia l’esperienza che più avvicina l’uomo alla sua natura spirituale; definì tuttavia l’eros come l’attrazione verso il bello causata dalla vista e, pur definendo come superiore il sesso compiuto con il «consenso di tutta l’anima» (ovvero anche della parte razionale, oltre a quella concupiscibile), affermò che tutte le coppie di amanti potranno “mettere le ali” grazie ad Eros. Non stupisce che nello stesso dialogo fosse sostanzialmente legittimata la sottomissione del ragazzo all’adulto nei rapporti sessuali.

Come si nota, lungi dallo spingerci verso il lato spirituale, la pulsione fisica ci respinge verso i nostri progenitori animali e lo scenario, appunto, di lotta per la sopravvivenza. Può sembrare, questo, un tema poco importante, relegato alla sfera della libertà personale (sulla quale comunque gravano i punti irrisolti sopra ricordati). Si tratta, invece, di un tema di alto rilievo sociale. Limitarsi alla mentalità animale, ancora presente e connaturata nel cervello umano, significa avere, come gli animali, una memoria solo a breve termine, scarse capacità di pensiero astratto, scarse capacità di immaginare il futuro; considerare la vita come una lotta per la sopravvivenza e di questa accettare le regole invece di contestarne il dominio.

Se condividiamo le osservazioni di Žižek, il logico corollario è: solo il reciproco comunicarsi l’incomunicabilità dell’amore costituisce la prova che vi è amore vero e legittimo; solo questa presa d’atto, in altri termini, può fondare legittimamente il linguaggio che garantisce l’inoppugnabilità delle tautologie sì = sì, no = no.

Si tratta, come si vede, di una fattispecie estremamente rara nel mare magnum delle relazioni, che in genere hanno un basso grado di libertà e invece un alto grado di determinazione: determinazione sociale, familiare, economica, psicologica…

E inoltre sembrerebbe esclusa senza appello qualsiasi decidibilità del consenso in rapporti puramente occasionali. Da un punto di vista empirico, sono proprio questi i più a rischio di produrre ritrattazioni sul consenso anche a distanza di molti anni. Da un punto di vista della legittimazione teorica, in essi si manifestano con più intensità i paradossi logici del principio fondamentale che informa le teorie giuridiche del consenso: il principio individualista. Questo afferma che la realtà basilare del consesso umano è l’individuo, ovvero sia l’indivisibile, l’Unico secondo Max Stirner. Ma si tratta, con ogni evidenza, di una costruzione fittizia. Ognuno è il risultato dei propri rapporti personali e sociali; ognuno è costruito e formato dalle persone con cui entra in contatto, dalle istituzioni in cui vive, dalle informazioni che riceve da altri, eccetera. Persino nella nota ipotesi di Rousseau, di far nascere un bambino all’interno di un tubo e di porlo immediatamente in uno stato di segregazione, nutrendolo in modo che egli non noti chi gli lascia il cibo; persino in questo caso estremo quel bambino è innegabilmente il frutto delle sue interazioni con gli altri.

Il consenso, in effetti, è un’arma a doppio taglio: nel caso Weinstein l’impressione è che la sua revoca a distanza di anni provochi lo scaricamento sul singolo predatore di responsabilità che sono strutturali (il casting couch come strumento di costruzione o distruzione delle carriere); nei casi opposti, ovvero laddove il consenso sembra più che acclarato, come ad esempio accade nella pornografia legale e nella prostituzione regolamentata, ancora una volta si eludono le vere determinanti sociali (una brevissima ricerca biografica sulle attrici pornografiche nelle produzioni Usa rivelerà un’elevata quota di persone con gravi problemi familiari alle spalle). Il consenso è oggi talmente indecidibile che il più delle volte viene relegato ai casi di dissenso, mentre in altre situazioni viene dato per scontato (ad esempio, nel momento in cui Weinstein molestava le sue vittime).

Se dunque la sessualità è strutturalmente primordiale violenza, per quanto socialmente contenuta (e quindi nevrotizzata), sembreremmo stretti, un po’ come l’auriga del Fedro, tra due cavalli fanatici: l’uno, quello della lotta per la sopravvivenza, tipico, secondo alcuni studi, della psicologia che informa i sostenitori della destra e dell’estrema destra; l’altro, quello del mito dell’angelo rivoluzionario proposto da Lardreau come critica ultra-maoista al Maggio francese.

La soluzione, in realtà, è l’uovo di Colombo: “tornare sugli alberi”, per usare i termini di Voltaire, non solo è impossibile: è indesiderabile, perché ci priverebbe del progresso accumulato. E se non si può tornare indietro si può soltanto progredire: lavorare, cioè, per il superamento delle barriere che oggi impediscono e la formulazione di un vero consenso e il contatto immediato tra uomo e uomo. La legislazione e l’educazione forniscono un aiuto di contorno ma, da sole, non saranno in grado di sradicare la violenza che oggi sfugge al controllo della società.

Immagine di copertina liberamente tratta da img.ibs.it

Ultima modifica il Mercoledì, 22 Novembre 2017 15:07
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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