Qualcosa di simile è accaduto in Italia, dove il gobbo non ha drizzato la schiena per raccogliere gli ambiti frutti del taglio dei parlamentari, dell’abolizione dei senatori a vita e dell’abolizione del Cnel. Il compromesso stabilito nel 1947 tra Psi-Pci e Dc-Pli resta in vigore, senza la sterzata a sinistra prevista dalla riforma Renzi.
La divisione del voto replica, all’ingrosso, la consistenza partitica delle forze in campo, con il “partito della nazione” che si mantiene al 40% e le altre forze antinazionali e disgregatrici (principalmente secessionisti e qualunquisti) che si spartiscono il rimanente 60. Non vi è stato quindi alcun passaggio di voti da M5s, Lega o Forza Italia al campo del Sì.
Il rifiuto di semplificare il sistema e di aderire invece a un fronte politico guidato da elementi tra i più odiati della “casta” (Cirino Pomicino, Dini, Monti…) è paradossale solo in apparenza. La mappa del voto indica le zone di maggior forza del No nel Meridione e nel Veneto, le aree dove maggiore fu l’ostilità verso l’unificazione italiana e, nel caso del Mezzogiorno, dove è mancata la Resistenza e fu mantenuto dopo la guerra un orientamento monarchico.
Dividendo il totale dei Sì (12.710.000 circa) per il totale delle firme raccolte dal relativo comitato (560.000) si ottiene un quoziente pari a 23; compiendo la medesima operazione per il No (19.025.000 / 300.000) il quoziente quasi si triplica (63).
Questo è un primo indizio che l’interesse alla vita politica e la partecipazione civica – che nella storia repubblicana hanno connotato le forze di sinistra rispetto a quelle moderate – risiedeva nel Sì, coerentemente del resto con un impianto complessivo volto a eliminare retaggi conservatori, aumentare le garanzie istituzionali, introdurre e rafforzare gli elementi di democrazia diretta.
Ma perché proprio le regioni che fecero la fortuna dell’Uomo Qualunque e di altre forze anti-istituzionali (i monarchici, il Msi, Forza Italia; e la Lega in Veneto) hanno respinto una riforma la cui campagna si è centrata sul taglio di costi e poltrone?
Per avere questa risposta bisogna tornare alla scorsa primavera, quando Renzi legò il proprio destino politico alle sorti della riforma. Questo fu un atto di strettissimo rispetto della volontà delle Camere, che gli avevano accordata la fiducia proprio su un programma comprendente tra i primissimi punti la revisione della Costituzione; un atto, anche, di ossequio verso la Presidenza della Repubblica che lo aveva incaricato sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari per portare avanti tali riforme. In questo senso la decisione s’iscrive nel lungo tentativo di Renzi di introdurre in Italia elementi di civiltà e di sensibilità istituzionale e umana (ricordo che ai suoi comizi, dopo aver saziato l’uditorio con i tagli di costi e poltrone, parlava dei desaparecidos cileni, dei migranti periti nel Mediterraneo e delle ragazze schiave di Boko Haram e Daesh).
Ma c’era anche un calcolo di opportunità politica: il tempo delle costituzioni si misura in generazioni, quello degli esecutivi in mesi. Il gradimento della riforma costituzionale avrebbe quindi dovuto fare aggio su quello verso il governo. I sondaggi all’epoca mostravano un 60-70% di Sì. È accaduto invece il contrario: la posizione verso l’esecutivo ha determinato il Sì o il No alla riforma.
Tanto è vero che gli stessi sondaggi hanno continuato a mostrare, fino all’ultimo, un generale gradimento dell’elettorato verso i contenuti del testo di legge (forse anche da questo è derivata la cronica assenza argomentativa del No). Il tentativo di Renzi, insomma, è stato vanificato proprio dalla carenza di discernimento e dal divario tra cittadini e Stato che egli intendeva correggere. L’errore fondamentale da lui compiuto non è stato quello della “personalizzazione” del voto, che come detto non era tale ma semplicemente riconoscimento della natura parlamentare della Repubblica Italiana. La personalizzazione è stata semmai fatta dal fronte avversario.
L’errore fondamentale è stato quello di attribuire al 41% del 2014 una capacità attrattiva che avrebbe dovuto per lungo tempo far gravitare il mondo politico attorno al Pd. I numeri del referendum mostrano che questo è ancora vero: il Pd resta il maggior partito del Paese e l’unico con una visione nazionale; ma per quanto disorganizzata e inconcludente la somma dei No è pur sempre una somma maggioritaria.
Il rapporto con i partiti di destra, essenziale sia per arrivare dal 41 al 51% sia per porre argine al pericolo neofascista di Grillo, è stato o ritenuto ormai superfluo (caso di Forza Italia) oppure neanche tentato (Fratelli d’Italia e l’ala maroniana della Lega), pur essendovi punti di rilievo sui quali trovare un contatto (soprattutto: investimenti industriali, rapporti con la Ue e con la Russia). L
a stragrande maggioranza dei No è stata umore antipolitico che ha votato per il mantenimento della mala politica. Questo non è un paradosso, neppure apparente. Chi è lontano dallo Stato, chi odia lo Stato, desidera la mala politica in quanto è l’unica forma di rappresentanza che consenta di intrudere i propri interessi particolari nella macchina arcigna dello Stato (dall’assunzione al Comune fino alle grandi gare di appalto).