Lunedì, 14 Aprile 2014 00:00

Europa: in crisi perché ha cambiato funzione

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Di Luigi Vinci
Articolo pubblicato sul quarto numero cartaceo de Il Becco

Una constatazione di tutte o quasi tutte le popolazioni dell'Unione Europea, e di paesi dentro all'area economica europea, ma non nell'UE, come quelle di Svizzera, Islanda, Norvegia, è che l'UE si sia trasformata in una matrigna punitiva senza un motivo razionale. Di conseguenza aspirano all'entrata nell'UE solo quote urbane di popolazioni collocate verso est, come quelle di Turchia, Ucraina, paesi dei Balcani occidentali, perché vi sopravvive l'immagine di un'area di prosperità e di libertà, defunta altrove.

Certo l'immagine di matrigna punitiva e insensata esprime la difficoltà di un ragionamento strutturato: ma è anche azzeccata. Essa infatti esprime il dato di politiche di bilancio che alimentano da anni ogni sorta di danni sociali (anche da prima della crisi, benché allora a bassa intensità e velocità), quali il peggioramento delle condizioni lavorative, l'aumento di disoccupazione e lavoro instabile, malpagato e senza diritti, l'abbattimento dello “stato sociale”, la caduta dei livelli pensionistici, l'aumento delle situazioni di miseria; inoltre esprime il fatto che queste politiche portano all'esatto contrario delle intenzioni dichiarate, cioè portano al prolungamento della crisi e alla sua evoluzione in stagnazione e deflazione.

Ciò che invece largamente manca nell'immagine delle popolazioni è il carattere di classe di queste politiche: largamente abboccano, finendo col votare a casaccio, alla trasformazione per via massmediatica degli agenti politici di queste politiche (le forze politiche storicamente di governo) nei fondamentali decisori e beneficiari: mentre si tratta dei grandi gruppi capitalistici, quanto a decisori, e della grande borghesia, dei boiardi di stato e del livello superiore delle classi medie (tra queste ultime, anche il livello superiore dei quadri delle forze politiche di governo e quello degli agenti dell'informazione), quanto a beneficiari. I dati di tutta Europa lo dicono chiaro: accanto alla caduta di reddito di oltre la metà della popolazione sta l'arricchimento spesso rapidissimo del loro 10-15%. È in corso da anni una straordinaria redistribuzione del reddito verso l'alto della gerarchia sociale.

Tutto questo, sottolineano molti compagni, è conseguenza necessaria, obbligata, dei contenuti liberisti e dei conseguenti restringimenti della spesa pubblica imposti dai trattati fondativi dell'UE a partire da quello di Maastricht (febbraio 1992, più di vent'anni fa). È conseguenza della loro pratica, certo, per di più altamente intensificata nella crisi: ma è un errore vedere negli orientamenti di politica economica e di bilancio delineati nei trattati il solo fattore fondativo dell'UE, nonché di farne la causa inevitabile della situazione economica e sociale di oggi dell'UE.

Si tratta dunque, per comprendere meglio una materia d'una certa complessità, di ricostruire due cose. La prima è il quadro dei fattori politici e culturali che portarono alla fondazione dell'UE, quindi della moneta unica, dei trattati liberisti, ecc. La seconda è il quadro dei fattori, sempre politici e culturali, che effettivamente portarono alla definizione delle politiche restrittive della spesa pubblica e alla loro applicazione, per così dire, crescentemente ultraliberista.

I fattori che portarono alla fondazione dell'UE e all'euro

La costruzione europea (prima Comunità Economica Europea, poi Comunità Europea, solo alla fine UE) comincia nel marzo del 1957 con i Trattati di Roma. Il ricordo della seconda guerra mondiale era vivo, tutta la politica ne era condizionata, e così le popolazioni, e la costruzione europea apparve a larga maggioranza come un buon modo per non ricascarci. Contemporaneamente la costruzione europea appariva alle classi dominanti dell'Europa occidentale, e alla loro guida statunitense, come un buon modo per reggere alla contesa, che si snodava su più piani, con il blocco degli stati a “socialismo reale”; guardando specificamente sul piano economico, essa era anche la costruzione di un grande mercato unificato, e questo appariva essere un ottimo strumento per la continuazione della crescita economica, quindi per distribuire briciole di benessere alle popolazioni, quindi per ridurvi il fascino per l'Unione Sovietica, la cui immagine era forte sia per le realizzazioni sociali che per l'apporto alla sconfitta del nazifascismo. A supporto di questi obiettivi, giova sottolineare, erano politiche keynesiane di espansione della spesa pubblica, degli investimenti pubblici (in Italia più che altrove), dello “stato sociale”, della domanda interna.

Saltiamo un po' di anni, veniamo al 1989. Il passaggio dalla CE all'UE avviene in presenza di altri dati politici: il collasso in corso in Europa centrale del “socialismo reale” e del blocco politico e militare di stati attorno all'Unione Sovietica, e in ciò, in particolare, la crisi politica e sociale nella quale è precipitata la Repubblica Democratica Tedesca e la possibilità conseguente di una riunificazione della Germania nella forma del suo assorbimento da parte della Repubblica Federale. Paradossalmente, ad apparire noncurante di questa possibilità è proprio il governo sovietico di Gorbacëv, bisognoso di crediti tedeschi, mentre risultano preoccupati i principali governi occidentali (quelli di Francia, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti per intenderci). Di nuovo una grande Germania nel cuore dell'Europa e con uno spazio economico e politico gigantesco che si apre a est: la Germania manterrà il suo rapporto con la parte occidentale dell'Europa? Non è che ai tedeschi ripiglierà la voglia di militarismo, con quel che ne è conseguito dal 1914 al 1945? Eccetera. La soluzione al problema la trovano assieme il presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl (dicembre 1989): si farà la moneta unica, da CE diverrà UE e quest'ultima sarà, in buona sostanza, un semi-stato. La Germania, accettato tutto questo, può riunificarsi: non sarà infatti in grado di smarcarsi e di rifarsi pericolosa.

Il punto di trattativa di gran lunga più delicato, sempre tra Mitterrand e Kohl, è in realtà quello delle condizioni di accompagnamento della moneta unica. La popolazione tedesca è ossessionata, sulla scia delle situazioni d'inflazione galoppante, di distruzione di risparmi e pensioni e di tremenda miseria create dalle sue sconfitte militari del 1918 e del 1945, dalla paura di una moneta unica che subisca processi inflativi significativi, in ragione delle tendenze inflattive operanti altrove in Europa occidentale (in particolare in Italia): questa popolazione quindi non accetterà la moneta unica se non vengono fissati paletti rigidissimi di contenimento della spesa pubblica. Mitterrand propone il 4-5% massimo di deficit, Kohl il 2, l'accordo è al 3%. Chiunque parli di scientificità del procedimento (sarà nondimeno una pletora di economisti di formazione liberista, ma per altre ragioni, tutte di classe, cioè di ordine antisociale) dà ovviamente... i numeri. Al 3% del deficit seguiranno altri accordi: 60 del debito (e seguiranno l'1,5 dell'inflazione e il 6 dell'attivo commerciale).

In realtà, dunque, i parametri restrittivi di bilancio nascono attraverso una mediazione tutta politico-strategica di “contenimento” del potere tedesco, senza ragionare granché in merito alle loro effettive conseguenze economiche e sociali. Si tratta di obbligare l'Italia, come gli altri paesi, ad una politica di “rigore”, altrimenti la popolazione tedesca si agita, e tanto basta.

Giova rammentare, infatti, anche questo. Benché l'ondata liberista, partita dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, abbia sfondato nell'intero Occidente, e in questi paesi ciò sia avvenuto a seguito degli obiettivi di governo di redistribuire il reddito sociale dal basso verso l'alto (negli Stati Uniti di Reagan) o di distruggere la forza delle Trade Unions (nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher), le forze politiche di comando europee non gli si sono ancora sostanzialmente conformate. In particolare residui più o meno significativi di posizioni alternative del tipo precedente, keynesiano in primis, sono tuttora forti, a volte dominanti, in più paesi europei, e non solo nelle socialdemocrazie ma anche nelle democrazie cristiane. A fissare formalmente le conclusioni dell'intesa Mitterrand-Kohl fu il presidente della Commissione Europea Jacques Delors, socialista francese di formazione keynesiana; e sarà sempre Delors, nel 1992, a presentare un “libro bianco” che proponeva alle istituzioni europee l'adozione di un gigantesco piano di investimenti in infrastrutture a finanziamento misto pubblico-privato, a contrasto della situazione di recessione in cui in quel momento era l'Occidente, e nel 1994 a presentare un piano parimenti ambizioso in materia di occupazione. Successivamente, va certamente rammentato anche questo, sostanzialmente nulla di questi piani verrà realizzato: e vedremo rapidamente il perché. Ma ora sto solo ricostruendo il “clima” politico e culturale in sede di forze politiche di governo in Europa occidentale.

Infine giova rammentare questo. Era convinzione universale, nelle forze politiche di governo dei vari paesi dell'UE così come ai vertici di essa, che l'UE, unendone e razionalizzandone le risorse, si sarebbe rapidamente non solo configurata come l'entità più sviluppata del pianeta (il PIL dell'UE è da sempre superiore a quello degli Stati Uniti), ma sarebbe anche diventata altrettanto rapidamente la sua area più competitiva, beneficiando così per prima dell'allora incipiente liberalizzazione planetaria della circolazione di capitali e di merci. E da ciò, dunque, non poteva che derivarne benessere per le popolazioni; magari in quantitativi asimmetrici a seconda delle posizioni di classe, ma in ogni caso a vantaggio di tutti. Né alcuno in quelle forze politiche ipotizzava che la competitività si sarebbe scatenata anche all'interno dell'UE, a tutto vantaggio dei suoi sistemi nazionali più sviluppati, quindi in primo luogo della Germania. La sinistra marxista stessa, salvo ridotte eccezioni, si profuse anch'essa in problematiche analisi sulla riorganizzazione dell'imperialismo capitalistico in una sorta di “triade”, USA, UE e Giappone.

I fattori che portarono alla definizione delle politiche restrittive della spesa pubblica

Veniamo ora ai fattori che portarono all'affermazione di politiche di spesa pubblica sempre più ultraliberiste ergo restrittive, da un lato, e, dall'altro, irrazionali economicamente (cioè di contrasto alla crescita), in concreto, dall'altro. Si tratta di un processo più recente e tuttora in corso, e più noto, e si può procedere più rapidamente.

Intanto ciò che abbastanza presto venne constatato fu il fallimento della possibilità stessa di una superiore capacità competitiva europea, anzi fu constatato che essa risultava inferiore rispetto a quella dei principali altri sistemi. La ragione di fondo probabilmente è molto semplice: la competitività superiore di Stati Uniti, Cina, ecc. stava (e, aggiungo, rimane) nel fatto che si tratta di grandi entità statali, non di approssimativi semi-stati.

Più concretamente, l'Occidente aveva cominciato a entrare in quella fase propria del “ciclo lungo” delle grandi rivoluzioni industriali che constata l'entrata in obsolescenza delle proprie tecnologie produttive iniziali e la conseguente caduta del saggio generale del profitto: ciò che da un lato comporta la necessità di misure per così dire straordinarie di reperimento di mezzi di investimento in tecnologie più avanzate, dall'altro tende all'ipertrofia delle attività finanziarie, quindi ad attività speculative sempre più dilatate, in quanto modo di creazione di domanda aggiuntiva, ovvero modo di sostegno della tenuta di sistemi produttivi in difficoltà. Ed era questo appunto a privilegiare USA, Cina, ecc. in quanto stati: solo entità statali effettive appaiono infatti in grado di dare risposte coerenti e rapide a problemi di quest'ordine. La conclusione, quindi, data comunque la prosecuzione nelle forse politiche di governo UE e al vertice dell'UE dell'illusione del raggiungimento di una propria superiorità competitiva, data la crescita egemonica del liberismo nelle sue classi medie e nelle sue forze politiche di governo, data infine le summenzionate difficoltà insorte in Occidente sul terreno fondamentale del processo di accumulazione capitalistica e quindi dell'investimento produttivo su vasta scala, non poteva che essere il ricorso a politiche ultraliberiste di bilancio pubblico, tagliando in specie servizi e “stato sociale”, e a politiche di assalto ultraliberista alle condizioni del lavoro dipendente, riducendo diritti, salari, pensioni, precarizzando (“flessibilizzando”) e impoverendo quote crescenti di lavoratori, ecc. Insomma non poteva che essere l'avvio dell'utilizzo effettivo e sempre più a fondo dei trattati, anzi, via via, della loro integrazione ultraliberista.

Contemporaneamente, inoltre, ai fattori di pressione sulle condizioni generali delle classi lavoratrici si aggiungeva l'intenzione delle classi dominanti e di una parte di quelle medie di spostare reddito dal basso della società verso se stesse, sulla scia di USA e Gran Bretagna, fruendo della larga egemonia ormai acquisita dal liberismo, del passaggio abbastanza rapido delle socialdemocrazie (e dei post-comunisti italiani), delle formazioni interclassiste cristiane e di molte dirigenze sindacali al liberismo, dell'abbattimento liberista della separazione tra banche commerciali e banche di affari, con quanto ne conseguiva di possibilità di succosi investimenti finanziari, ecc. Contrariamente ai dichiarati ufficiali dei gestori politici, ciò sposterà quote crescenti di ricchezza europea verso la finanza speculativa della City e di Wall Street, a tutto detrimento della crescita in sede di economia reale.

Più i risultati di questa politica porteranno all'indebolimento delle capacità di risposta sindacale e dei livelli di coscienza di classe del lavoro salariato, più gli appetiti borghesi aumenteranno, più, ancora, il liberismo si consoliderà nelle forze politiche di governo, dunque più si radicalizzerà e generalizzerà l'uso da parte delle istituzioni di governo nazionali e UE di quanto scritto nei trattati in fatto di politiche restrittive di bilancio pubblico, ecc.

La crisi infine farà il resto: inferocirà e generalizzerà gli attacchi antisociali, in parte per via della riduzione delle entrate fiscali, in parte perché interverrà anch'essa a indebolire il lavoro salariato. Non dimentichiamo che fino a un certo momento l'unico “parametro” di cui si occupavano con imposizioni di vario tipo ai paesi membri Commissione Europea e, a seguito delle pressioni del governo tedesco, il Consiglio Europeo, era quello del 3% del deficit, mentre a un certo momento, cioè a crisi attuale avviata, quando occorreva muovere in senso totalmente contrario, è stato rivendicato anche il rispetto, per di più da realizzare a marce forzate, del parametro del 60% del passivo. C'è, è vero, una sorta di scala della quantità e della qualità di queste imposizioni: ma non è vero che i soli colpiti siano i paesi mediterranei (oltre all'Irlanda). La ragione per cui le socialdemocrazie del nord, con la sola eccezione danese, hanno perso in questi anni le elezioni a vantaggio delle destre e anche nei paesi del nord dilagano formazioni xenofobe sta nel fatto che i governi socialdemocratici hanno apportato grandi tagli ai bilanci sociali e “flessibilizzato” quote ampie di classi lavorative.

In Germania esistono 8 milioni di lavoratori a orario ridotto i cui salari non possono superare i 450 euro mensili, e i cui datori di lavoro non pagano le relative tasse. I salari di sei o sette di questi lavoratori corrispondono a un lavoratore tedesco a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato. È facile capire quanto questa sia una cuccagna per i datori di lavoro, ma significhi anche che la Germania è in realtà nell'UE il paese campione della deflazione salariale.

La conduzione politica dell’UE

Contemporaneamente cambiamenti di grande rilevanza sono avvenuti (per ovvia conseguenza o necessità) in sede di conduzione politica dell'UE. Intanto la Commissione Europea si è sempre più trasformata, sottoponendosi infine al comando, assieme al Consiglio Europeo, dell'intesa Sarkozy-Merkel, da apparato di controllo e di imposizione del rispetto dei trattati da parte dei paesi membri e di proposizione di direttive sulle materie sulle quali la legiferazione nazionale non riuscisse a essere, a suo insindacabile avviso, adeguata, in apparato di imposizione di decisioni politiche, anche in forma di trattati, effettuate tramite concertazioni tra i governi, con scavalco radicale del Parlamento Europeo e addirittura cooperando con Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. È vero che l'intesa Sarkozy-Merkel si è recentemente dissolta, ma il grosso degli obiettivi tedeschi è stato raggiunto. È stato dunque annullato al livello istituzionale europeo, sulle questioni oggi più sostanziali dal punto di vista dell'andamento dell'economia e delle condizioni di vita popolari, quel tanto di democrazia fino ad allora operante, ed è stata pesantissimamente lesa la democrazia nei paesi membri oggetto d'intervento (in Grecia e a Cipro: annullata).

In secondo luogo, si è prepotentemente accentuata la divisione di condizioni economiche tra i vari paesi membri, sino a giungere a una situazione in cui all'egemonia politica della Germania si è aggiunta la quasi totale centralizzazione sulla Germania (e su alcuni satelliti di ridotta consistenza) dell'alta tecnologia industriale, mentre altri paesi (come Italia e Francia in primo luogo) si sono venuti sempre più trasformando in sub-fornitori di produzioni industriali a tecnologia in genere media, subendo così una forte deflazione salariale, oppure (come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, ecc.) in territori di delocalizzazioni industriali, beneficiando dei bassi livelli salariali. Non solo: la Germania nella crisi ha moltiplicato il drenaggio di valore dagli altri sistemi europei, tramite questi processi, tramite il differenziale a suo largo vantaggio tra i propri titoli sovrani e quelli degli altri stati principali dell'UE, e profittando del fatto che per essa l'euro è un marco debole, favorevole alle esportazioni. Sicché l'ex imperialismo europeo si sta rapidamente trasformando in un imperialismo tedesco che in parte associa a sé, in posizione più o meno subalterna, gli altri paesi UE o contigui, in parte li sfrutta.

Non meravigli se la Germania “accetta” di condividere l'attuale stagnazione e semi-deflazione europea: il suo sistema economico e la sua borghesia ci guadagnano sopra ben di più.

Ancora, accanto al tendenziale azzeramento della già scarsa democraticità del livello istituzionale europeo va posta la crisi della partecipazione elettorale delle popolazioni e va posta, a contrasto dell'incertezza crescente dei risultati elettorali, l'attitudine ormai generalizzata nell'UE alla manomissione delle legislazioni elettorali, che le fa sempre più lontane dalla costruzione di parlamenti effettivamente rappresentativi. In alcuni paesi, tra i quali il nostro, la crisi, come sappiamo, si è anche estesa alla forma istituzionale; democrazia a livello locale e Costituzione sono cioè ormai apertamente sotto tiro, e da parte della totalità delle forze politiche che si alternano al governo.

Arrivando a conclusione, se è vero che i trattati sono rimasti sempre quelli, è anche vero che l'UE ha registrato, a seguito del fallimento delle proprie ambizioni, dell'egemonia liberista sulle proprie forze di governo, infine della crisi e delle imposizioni tedesche, una sorta di ampio slittamento, e sotto gli aspetti più importanti di rovesciamento, della propria intenzione originaria.

Essa, detto altrimenti, ha cambiato radicalmente funzione rispetto a ciò che la costruzione europea era stata ai suoi inizi, e aveva tentato di essere anche in veste UE. Niente di strano: ogni realtà quando entrano in crisi gli obiettivi iniziali e, soprattutto, subisce una crisi globale tende, anche se le forme rimangono quelle di prima, una torsione che ne cambia radicalmente finalità, pratiche, rapporti interni d'ogni tipo.

L'UE per questo rischia anche di implodere. Mentre subisce questi processi e si trasforma essa conserva, al tempo stesso, la sua incompletezza come stato, la sua estrema rigidità istituzionale, le sue farraginosità e le sue lumacosità. Dopo aver disposto per alcuni anni, abbastanza efficacemente, di un attivo governo di emergenza franco-tedesco ora è bloccata, e l'egemonia iniziale tedesca appare molto logorata; l'UE è a un pelo, dunque, dalla possibilità di una crisi verticale. Che potrebbe essere attivata, per esempio, dal risultato delle prossime elezioni europee, se, secondo sondaggi, esse premiassero in una significativa quantità di paesi formazioni populiste, di varia tinta ma accomunate dall'obiettivo di smarcare i propri paesi dall'UE, o dall'euro, e che si attiveranno nel senso della paralisi del Parlamento Europeo (non dimentichiamo che ogni atto legislativo europeo deve essere votato, nel medesimo testo, sia dal Parlamento Europeo che da Consiglio) e nello scatenamento del Parlamento contro Commissione e Consiglio. Giova esplicitare che per questa via le popolazioni europee cadrebbero dalla padella nella brace.

Il buono delle intenzioni originarie della costruzione europea potrà essere recuperato e salvato? Non è facile rispondere di sì. Le forze politiche orientate a rifare (credo ormai che si debba aggiungere: da capo) su basi democratiche e socialmente valide la costruzione europea risultano in questo momento molto deboli. Salvare il “buono”, dato il livello di disastro già realizzato, non può che significare due passi indietro della costruzione europea per farne uno avanti. Si tratta infatti, prima di tutto, di recuperare, anche con rotture unilaterali da parte di paesi membri, della loro indipendenza sul terreno delle politiche di bilancio. Una possibile articolazione di quest'obiettivo può essere l'esclusione contrattata a livello europeo degli investimenti strategici (non solo di quelli direttamente produttivi ma anche di ricerca e formazione delle forze di lavoro) dal computo del deficit. Un altro obiettivo contrattato, la finalizzazione della BCE anche a occupazione e crescita. Ma non è proprio detto che sviluppi di questo tipo possano essere effettivamente contrattati.

Ultima modifica il Lunedì, 14 Aprile 2014 08:29
Beccai

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