I cinque brevi capitoli sono preceduti da una breve introduzione dei due intervistatori e seguiti da una postfazione di Martin Schulz, candidato alla presidenza del Parlamento europeo per la famiglia socialista nella primavera 2014.
I contenuti non sono scontati, soprattutto perché rompono una serie di tabù del campo progressista italiano, a partire dalla legittimità del conflitto, ritenuto come un elemento essenziale della democrazia, laddove la concertazione diventa uno strumento non sempre utile (in tempi di “larghe intese” si tratta di affermazioni al limite del rivoluzionario). Il quadro della tradizione socialdemocratica non viene mai messo in discussione, anzi se ne auspica un allargamento al campo della tradizione cattolica, per dare vita a un «neoumanesimo di sinistra». La sinistra, per Fassina, deve dare una risposta nuova che sappia attingere alla tradizione di Trentin (da cui è preso in prestito il titolo del libro) e alle encicliche di Benedetto XVI e Francesco I: l’individuo nella sua dimensione sociale, dove il lavoro è un bisogno che qualifica il soggetto nella comunità, di cui l’economia è una struttura politicamente costruita e orientata.
Le citazioni sono numerose e abbracciano principalmente il campo della produzione contemporanea, dall’ormai noto Piketty ad autori meno conosciuti a livello divulgativo ma apprezzati anche nei settori progressisti di Confindustria, oltre che della Cgil.
Si respira la tradizione che accomuna alcuni passaggi di questo libro con l’ultima opera di Massimo D’Alema, “Non solo euro”, pubblicata prima delle elezioni europee. Fassina si svincola però esplicitamente da ogni filone di appartenenza, anzi afferma, a proposito delle correnti interne al Partito Democratico, che sono mosse da “un vuoto di elaborazione e progettualità in cerca di un assetto organizzativo per supplire alla debolezza del messaggio politico”.
Con inatteso coraggio affronta il tema dell’euro, evidenziando come non ci siano dogmi rispetto al permanere all’interno del sistema monetario unico, laddove non si verifichi un radicale cambio di tendenza rispetto alle scelte economiche del vecchio continente. In questa direzione “eterodossa” va anche la considerazione dimostrata verso economisti come Vladimiro Giacché ed Emiliano Brancaccio, legati alla tradizione comunista più che a quella keynesiana. Non c’è una reale proposta di fuoriuscita dall’Unione Europea, il legame con la cultura socialista espressa lo esclude a priori, ma emerge come sincera l’esigenza di un cambiamento netto orientato verso la redistribuzione della ricchezza primaria (dei redditi) e dei tempi di lavoro, verso investimenti pubblici e una maggiore giustizia sociale.
Alcuni aspetti di fondo restano poco convincenti, ancora legati a tutta quella storia della sinistra europea che pure lo stesso Fassina critica perché priva di progettualità ed aspirazioni di lungo periodo.
L’onorevole del PD condivide la visione di chi definisce i trenta anni gloriosi seguiti alla seconda guerra mondiale una parentesi non più ripetibile ma si richiama esclusivamente al welfare costruito in quello stesso periodo come analogia rispetto a quello che occorre fare in Europa. Nonostante l’apertura dimostrata nelle letture studiate, quando si tratta delle proposte avanzate Fassina rimane legato a visioni di breve respiro anche condivisibili ma assolutamente distanti dal superamento dello stato di cose presenti (di fatto auspicato in diversi passaggi dell’intervista). L’alternativa in sostanza è “progressismo o barbarie”, ma pensare che il riformismo possa sostituire il comunismo è un errore già compiuto nel recente passato da molti dirigenti europei.
Se l’euro non è un dogma lo è l’internità al Partito Democratico guidato da Renzi, a cui va dato corpo (secondo il libro) per evitare che la sinistra svanisca nella maglie del populismo e della regressione sociale.
Fassina si dimostra anche meno attento di D’Alema rispetto alla politica internazionale, solo lievemente accennata e comunque non argomentata sufficientemente in quella dimensione multipolare auspicata dalla tradizione dei post-comunisti italiani, che parteciparono anche al social forum di Firenze nel lontano 2004.
Un libro assolutamente interessante, capace di argomentare la contrarietà alle trattative sul Ttip (un «ulteriore canale di svalutazione del lavoro e delle micro e piccole imprese») ma innestato nel tronco di una cultura politica che percepisce l’urgenza di rinnovarsi forse fuori tempo massimo, dopo la sconfitta di Bersani e con Renzi come unico dirigente europeo che ha registrato consenso popolare alle ultime elezioni.
L’auspicio di Fassina, letto tra le righe, è che sull’esigenza di salvare il progresso rappresentato dal progetto europeo si ritrovi la famiglia socialista con il manifesto di Tsipras, apprezzato e citato in “Lavoro e libertà”.
Per la sinistra radicale suonano delle campane molto diverse da quelle di Matteo Orfini, giovane turco oggi alla presidenza del PD e illuminato sulla via di Firenze, che invita i parlamentari di SEL ad abbandonare l’estremismo di Vendola che ha preferito Tsipras a Schulz.
In sintesi si tratta di un centinaio di pagine che sono in grado di offrire spunti anche a chi si avvicina alla lettura pieno di pregiudizi, anche se non riesce a convincere sul fatto che ci sia una reale agibilità per Fassina o Barca, che nella società appaiono isolati quanto la sinistra radicale o quella più mediatica di Civati.
Una base di confronto e discussione utile se riesce a vivere in quel conflitto auspicato nel libro ma ancora troppo assente nell’Italia di Renzi.
Foto liberamente tratta da flickr.com