Dodici anni dopo siamo ancora qua, sempre a Firenze, a parlare di come si possa lavorare insieme per costruire un mondo migliore, ma con la consapevolezza che nel frattempo esso sia nettamente peggiorato. Il convegno organizzato all’Istituto Sant’Apollonia il 16 e 17 Novembre ha messo al centro proprio questa lettura dei fatti, una lettura che cerca di sistematizzare fenomeni visibili a tutti come i tagli al Welfare State, le privatizzazioni selvagge, la distruzione dei beni comuni, lo smantellamento dei diritti o la precarizzazione e svalutazione del lavoro. Nello specifico, si cerca di analizzare questo processo alla luce della crisi delle socialdemocrazie europee, che muovendosi progressivamente verso destra e assimilando sempre più i valori e le ricette liberiste, hanno incoraggiato se non favorito la rivincita del capitale nei confronti del popolo, che si è visto privato, in pochi decenni, di tutti quei diritti e garanzie che si era faticosamente costruito nel corso del Novecento. Quella che segue, è una rielaborazione tematica e critica, di alcuni degli interventi e dei contributi che si sono susseguiti nel corso del convegno in merito alla questione enunciata.
Dati alla mano il quadro disegnato da Walter Baier, rende bene l’idea di quello che è il collasso senza precedenti dei partiti della socialdemocrazia europea. Questi, dal dopoguerra a oggi, sono passati da una media del 33% al 26% dei giorni nostri. Ma il calo è ben più vistoso - dal 41 al 26 - se il periodo di riferimento si sposta alla seconda metà anni settanta, periodo d’oro della socialdemocrazia. In quel periodo si registra infatti una fenomenale ascesa dei partiti della sinistra laburista nel Regno Unito, in Francia e in Germania, mentre in Italia il PCI è al suo massimo splendore e nelle giovani democrazie di Spagna e Grecia i rispettivi partiti socialdemocratici iniziano un processo ascendente che le vedrà di lì a pochi anni, salire al potere. Questa età dell’oro si ripropone parzialmente negli anni ‘90 grazie l’apertura dell’UE a Nord e alla nascita di nuove democrazie nell’est europeo. Da allora però, si è verificato un declino senza precedenti che ha riguardato quasi tutti i Paesi europei.
Per comprendere i motivi della gravissima difficoltà elettorale e politica, in tutto il Vecchio Continente, delle socialdemocrazie, bisogna prima investigare – seppur in maniera estremamente sintetica - la natura della crisi economica che stiamo vivendo. Come Roberto Mancini fa giustamente notare, questa non può essere semplicemente analizzata come un passaggio momentaneo di difficoltà del capitalismo, ma va compresa come un più grande progetto di trasformazione e di raggiustamento strutturale del capitale che per continuare a riprodursi non può più permettersi di scendere a patti con il mondo del lavoro e con le istituzioni democratiche, che mettono un vincolo al suo progetto espansivo. La diminuzione del tasso di profitto e del tasso di crescita globale, assieme alla crescente esposizione ai rischi di un mercato finanziario sempre più instabile e imprevedibile, hanno reso più debole il capitalismo che ha dovuto reagire nei confronti di tutte quelle forze politiche e sociali che hanno sempre ostacolato la sua espansione. Ci ricorda in maniera molto lucida Fausto Bertinotti che a partire dal’inizio degli anni ottanta, c’è, con le parole di Gallino, un “rovesciamento del conflitto sociale”, vale a dire un processo nel corso del quale il liberismo, tramite l’azione della Thatcher e di Reagan, ottiene una schiacciante vittoria sul campo costringendo il movimento di classe dei lavoratori a ripiegare su posizioni difensive, dopo che quest’ultimo per oltre mezzo secolo aveva agito la guerra nei confronti del capitale, ottenendo significativi miglioramenti delle condizioni di vita. Ora è invece il capitale che agisce nei confronti del popolo, distruggendo ciò che era stato faticosamente conquistato nei decenni passati. Se prima si poteva permettere di scendere a patti con le forze progressiste e rivoluzionarie, ora il capitale per espandersi è costretto al contrattacco.
Ma come è stato possibile che l’azione controrivoluzionaria liberista abbia segnato anche la distruzione delle social democrazie europee? Intuitivamente si potrebbe pensare che le forze progressiste dovrebbero ottenere più voti in un contesto di forti tagli alla spesa pubblica, di precarizzazione, di cancellazioni di diritti sociali. Ma non è così se sono proprio queste forze, tradizionalmente preposte alla difesa delle fasce subalterne, ad attuare le politiche neoliberiste che stanno conducendo il mondo a una nuova fase di sfruttamento selvaggio e crescita vertiginosa delle disuguaglianze.
Questo passo è spiegato con grande lucidità da Bertinotti. Secondo l’ex Segretario di Rifondazione, la social democrazia non è una costruzione politica semplicemente in crisi, ma è morta, la sua storia si è conclusa. Ciò non è dovuto a un tradimento o a un semplice cambiamo di rotta o di strategie politiche, ma attiene a una “mutazione genetica”, un cambiamento profondo dei riferimenti culturali, delle relazioni sociali, persino dei modi di essere di “una storia politica manomessa da un gigantesco processo di rivoluzione capitalistica”. La socialdemocrazia cioè subisce un operazione di sradicamento rispetto alle sue radici sociali, quel che resta è un semplice riferimento al cittadino generico desocializzato e destoricizzato che, in ultima esitanza, è il votante.
Come è potuto accadere una trasformazione così radicale tale per cui sia il conflitto di classe che la distinzione fra destra e sinistra sia stata messa da parte? Questo passaggio è avvenuto a partire dagli anni ottanta quando la social democrazia sposa il paradigma della modernizzazione, concezione secondo la quale fenomeni di vasta portata come il già accennato rovesciamento del conflitto di classe, il crollo del muro di Berlino e la globalizzazione, vengono visti dai principali esponenti social democratici come un processo di modernizzazione, un passaggio inevitabile che non può essere fermato e dunque, in un certo senso, non può che essere incoraggiato. Il fallimento del socialismo reale, il declino dei movimenti operai e la globalizzazione, vista come una forma di internazionalizzazione, convincono insomma la classe dirigente progressista della bontà di questo processo, del nuovo corso del capitalismo globale. Negli anni novanta, quando le social democrazie governano in quasi tutta Europa, il nuovo animale politico che esce da questo slittamento strutturale è un soggetto che assume la cultura liberista e la guerra come modalità di espansione dell’economia, mentre quei fenomeni che sorgevano a sinistra come il pacifismo e il terzomondismo, venivano totalmente ignorate dalle nuove elite del centrosinistra.
Baier vede giustamente nel crollo elettorale questo mortale spostamento a destra, accondiscendendo i valori di concorrenza, competitività e abbandonando quelli di pace e giustizia. La grande storia e tradizione della social democrazia, rinunciando alle sue radici e alla sua identità si è così trasformata – usando le parole di Tsipras – in “una semplice forza accessoria della destra”, perdendo così il suo bacino elettorale classico e andando incontro a travolgenti sconfitte come nel caso del PASOK greco o dello PSOE spagnolo, ormai svuotati da ogni orientamento progressista.
In Europa, resiste Hollande che, col suo Primo Ministro Valls, ha inaugurato una nuova stagione di politiche neoliberistie perdendo così l’appoggio di una fetta consistente dell’opinione pubblica, quell’opinione pubblica stremata dalla crisi e dalle riforme economiche e che non può più guardare ai socialisti come i rappresentanti delle sue istanze e delle sue rivendicazioni politiche. Ci si ritira così nell’astensione o ci si fa sedurre dagli slogan populisti del Front National. Resta poi Renzi che attualmente, pur godendo ancora della fiducia di molti italiani, appare l’esempio più lampante di quel che resta della social democrazia e del suo contributo alla nascita di quel capitale globale che deve fare a meno di lei.
“Nato sull’ idea di grande rivincita di classe” – sentenzia Bertinotti – “questo nuovo capitalismo che assolutizza la competitività e la concorrenza è intimamente totalitario, non scende a patti con la democrazia perché per realizzarsi deve fare piazza pulita” da ogni intralcio. In questo contesto la politica è la sua serva, deve limitarsi a favorire questo piano dimostrando così tutta l’incompatibilità fra neoliberismo e democrazia. Il PD nella sua fase renziana appare proprio l’immagine di questo processo di svuotamento democratico e di svilimento della politica.
La perdita di ogni riferimento storico e identitario, il suo schiacciarsi sulle esigenze non più dell’essere vivente nelle sue determinazioni di età, classe sociale, sesso ma sul votante, rappresenta in pieno il disegno - che Roberto Musacchio indica come eversivo e autoritario - del “partito della nazione” -espressione del pensiero unico del capitale, in un pericoloso connubio ideologico che lega il neoliberismo con il nazionalismo. Ogni rivendicazione identitaria è persa, perché ogni identità, sancendo una separazione, è divisiva e quindi non propinabile all’elettore che deve sempre essere messo nelle condizioni di poter votare PD. Resta il principio della “nazione” come unico fattore identitario: chiunque è italiano è invitato a comprare il marchio PD. Questo partito, aggiunge Marco Revelli, essendo di tutti è anche partito di nessuno, ovvero partito suo personale di Renzi. Viene completamente ribaltata l’idea della rappresentanza che è ormai verticalizzata sul suo governo, nella sua persona, distruggendo così le forme di aggregazione e i corpi intermedi, nel desiderio del Primo Ministro di avere un rapporto diretto con ogni cittadino, come il sovrano con i suoi sudditi. Prosperi rimarca l’emergenza democratica che stiamo vivendo e che si esemplifica nello stato di eccezione permanente, una finzione che però è funzionale a giustificare lo smantellamento dei diritti, lo svilimento della costituzione, i tagli a istruzione, sanità, cultura proprio in nome dell’eccezionalità della situazione di crisi. Per Norma Rangieri, direttrice del Manifesto, il PD non produce azione sociale ma messaggi mediatici, utilizzando le doti comunicative del suo segretario. Doti comunicative che mascherano ciò che invece è sotto gli occhi di tutti, anche concretamente e visivamente (la convention alla Leopolda contro la piazza dei lavoratori e dei disoccupati) ma che abbiamo difficoltà a decostruire: ma se portiamo a compimento questo sforzo di svelamento, ci accorgeremo che postdemocratico significa autoritario e che postideologico significa che non c’è più bisogno di scegliere fra due visioni del mondo diverse: il PD ha già intrapreso, come tutte le altre socialdemocrazie europee, la strada desolata che conduce alle macerie neoliberiste.
Se è vero che la socialdemocrazia in tutta Europa è collassata perché ha inseguito la destra sui temi del libero mercato e della deregulation, allora il successo di Renzi può essere spiegato col fatto che il PD ha ormai scavalcato a destra le forze liberiste, costruendosi un egemonia politica a destra della schieramento politico italiano.