Lunedì, 24 Novembre 2014 00:00

Sulla fine della socialdemocrazia

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Nel periodo 2002-2005 seguii con attenzione l’affacciarsi del movimento new global sulla scena politica italiana e la sua richiesta di una globalizzazione di tipo diverso, fondata cioè su beni e diritti comuni e non sul paradigma neo-liberista. Non piccolo fu il mio stupore nel vedere come questi movimenti storcessero visibilmente il naso di fronte alla coalizione dell’Unione (centrosinistra) in vista delle elezioni politiche del 2006; dopo quelle elezioni, molti organi di informazione ricostruirono un voto che, più che per Prodi o l’Unione, era stato contro Berlusconi. Non mi rispecchiavo in tale ricostruzione, ma con il passare degli anni ho dovuto riconoscerle ragione.

Mi sembra che queste contraddizioni mettano in luce due faglie di tensione:

1) l’assenza di un canale politico in cui i movimenti potessero sentirsi rappresentati (tale non era, a quanto pare, il centrosinistra);

2) l’incapacità di acquisire una proposta politica attrattiva dell’elettorato, al di là della negazione dell’avversario (problema riguardante non solo i movimenti new global ma il movimento progressista nella sua generalità).

L’uno e l’altro dato mostrano il venir meno di un punto di aggregazione politica che potesse dare uniformità di rappresentanza a istanze di contestazione e di alternativa alla cappa neo-liberista. Questa insufficienza è poi sfociata nella repentina crescita di movimenti populisti o fascisti in molti importanti Paesi europei. Credo sia utile avere in mente questo quadro affinché la discussione sulla socialdemocrazia non resti un esercizio di antiquaria ma sia invece funzionale a capire come muoverci nel presente.

Nell’epoca del rigore, che trova nelle socialdemocrazie nordiche (Danimarca, Germania, Paesi Bassi…) alcuni dei suoi più leali sostenitori, sembra farsi strada a sinistra un commosso rimpianto per il sistema socialdemocratico d’antan e la sua età dell’oro negli anni ’70. Questo apprezzamento ex post si spinge fino a ricostruire un’idea dei socialdemocratici come i genuini rappresentanti dei lavoratori, sia pure in un confronto sociale sistemizzato entro le strutture politiche del consensus postbellico. Mi pare che questa visione sia, di per sé, già inserita in una ottica che prende come criterio di giudizio e punto di riferimento l’ideologia capitalistica. Infatti, se riteniamo che il movimento dei lavoratori abbia come fine il semplice innalzamento della qualità di vita (cioè di salari e assicurazioni sociali), la rappresentanza di cui esso ha bisogno si ferma al livello tecnico della negoziazione industriale: tanto è vero che negli Stati Uniti potenti sindacati assolutamente non socialisti e potenti imprese si sono per decenni potuti accordare su una ripartizione degli utili tra profitti e salari/assicurazioni.

Ma rappresentare i lavoratori interroga, semmai, la dimensione dello sviluppo storico e la visione del progresso dell’essere umano, una rappresentanza che non si arresta più alla tecnica numerica. La questione può essere posta con una semplice alternativa: i lavoratori sono stati meglio rappresentati dai sindacati di tipo americano o dai governi socialisti dell’Europa orientale? Sul piano dei consumi, sicuramente dal sindacalismo americano – già sul piano delle tutele sociali come la sanità il discorso cambia radicalmente. Quello che è più importante, però, è il significato ideale, culturale e politico che i governi socialisti est-europei hanno avuto; la capacità egemonica, cioè, di sostenere sia pure indirettamente il progresso del movimento dei lavoratori anche ad ovest.

Spero che oggi nessuno pensi di poter ripetere l’esperienza storica, ormai conclusa, di quel tipo di socialismo; ma ciò che va riconosciuto è che nel “secolo breve” sono stati i comunisti, non i socialdemocratici, a reggere la bandiera dei lavoratori. Dimenticare questo dato e concentrarsi invece sulla “fine ingloriosa” della socialdemocrazia tradisce una forte vicinanza culturale al capitalismo: un capitalismo che si vorrebbe non superare, ma semplicemente “democratizzare”, estendendone a tutti i benefici. È una corrente di pensiero, in effetti, intimamente socialdemocratica, nata con Bernstein a fine Ottocento e che ha ispirato ed ispira l’ostilità “di (centro)sinistra” al Muro di Berlino.

Le proposte di Tsipras, anche per questi motivi, non risultano in realtà veramente alternative alle storture del sistema capitalista e denunciano ancora una volta una rappresentanza “cattiva”: sono, cioè, in grado di coalizzare una protesta contro l’austerity e il rigore ma non di compiere il salto che rompa i confini ideologici del rigore stesso.
Ma – si dirà – se il polo sovietico non esiste più e se la socialdemocrazia non può costituire una risposta, quale può essere la via d’uscita? Siamo condannati all’alternativa tra Merkel e Le Pen?
Alcuni interventi del convegno di Firenze sono stati dedicati alla disamina del Partito Democratico, che costituirebbe il caso non solo nazionale ma addirittura più conseguente della manomissione capitalistica dei socialdemocratici.

Il PD, in realtà, non è mai stato socialdemocratico. Se c’è un punto peculiare della storia italiana del dopoguerra è la consistente assenza di un dominio socialdemocratico sul movimento dei lavoratori. Certamente il PCI ha sempre seguito una linea programmatica assai più moderata dei socialdemocratici nordici: ma, appunto, si è detto che la rappresentanza dei lavoratori è un fatto storico-culturale più che tecnico-economico. A una lettura molto superficiale potrebbe sembrare che la condizione italiana sia stata in questo senso normalizzata dalla trasformazione del PCI in PDS e DS, e certo nelle menti di alcuni dirigenti il destino del comunismo italiano doveva essere la conversione definitiva in elemento socialdemocratico. Ma i fatti dicono un’altra cosa: il periodo compreso tra la fine del socialismo sovietico e l’esplodere della crisi strutturale capitalistica è stato, per il comunismo italiano, una parentesi, una sorta di “campagna d’inverno”, nella quale si sono dovuti superari i rigori del crollo dell’Urss, dell’apparente trionfo del mercato, della svolta pro-mercato e pro-privati delle socialdemocrazie europee. In tutto questo il PCI e i suoi eredi hanno conseguito due importanti successi: sono riusciti a impedire un’egemonia socialdemocratica sulla sinistra italiana e sono riusciti a creare un partito nuovo, l’unico in grado di fornire una risposta effettiva a ciò che a parole tutti riconoscono, ossia la morte politica delle tradizioni bolscevica e socialdemocratica.

Ma quale rapporto c’è tra il Partito Democratico e Matteo Renzi? Da un lato, la proposta politica renziana è la sola, tra quelle oggi presenti nel PD, che possa consentire di non ricadere negli errori di ricercare una purezza socialdemocratica (area riformista) o di dar vita a un movimentismo privo di sbocchi politici e anzi foriero di degenerazioni estremistiche (area Civati). Dall’altro lato il forte peso della personalità di Renzi non può non interrogare. In particolare, se crediamo che il ruolo del Movimento 5 Stelle nella politica italiana sia quello che un tempo fu degli squadristi, ovvero aprire col manganello la strada a un governo reazionario, come si può escludere che proprio Renzi sia l’alfiere di un governo simile? Come essere certi che il compromesso politico di Renzi non sia portare voti di destra a proposte progressiste, bensì il contrario?

È sempre difficile giudicare con obiettività i processi tuttora in corso, ma l’attuale confronto tra governo e sindacati mi sembra un buon caso di analisi. Cosa ha spinto Renzi a convertirsi in breve tempo allo smantellamento di alcuni pilastri dello Statuto dei Lavoratori? La risposta andrebbe cercata nell’aumento del rapporto deficit/PIL rispetto a quanto preventivato dal Governo Monti; nella necessità di fornire per questo un contraccambio alle istituzioni europee, Renzi ha giocato la carta della (non) protezione dell’impiego. Ovviamente, da consumato giocatore d’azzardo quale l’uomo è, ha posto una grande differenza tra l’irruenza dell’invettiva verbale e la desolante indeterminatezza dello strumento legislativo prescelto, lasciandosi così aperta la porta a qualsiasi soluzione. Certamente Renzi si muove fra continui equilibrismi, stretto tra tanti fuochi: i vincoli europei, un elettorato con largo analfabetismo funzionale, minacce populiste e anche l’assenza di un corrispettivo politico europeo del PD italiano (tali non sono, per quanto finora esposto, i partiti socialdemocratici). In un quadro complicato da questi fattori negativi, la riforma del lavoro proposta è però positiva per le tutele che aggiungerebbe al lavoro oggi precario. Inoltre, anche la mobilitazione sindacale a difesa dello Statuto dei Lavoratori non può mettere in ombra un ulteriore punctum dolens: il fatto che molti giovani lavoratori, quali che siano i motivi, si sentono oggi non rappresentati dai sindacati, fatto molto pericoloso poiché suscettibile di spingerli verso i movimenti fascisti.

Perciò credo si possa dire che il Partito Democratico della segreteria Renzi sia ad oggi l’erede più compiuto della via italiana al socialismo: non nel senso di una progressiva degenerazione destrorsa e revisionista, di cui il PCI fin da Togliatti è stato accusato, bensì nel senso di un costante aggiornamento della linea politico-culturale alle condizioni date, con l’obiettivo di difendere e promuovere le posizioni dei lavoratori e impedire la reazione fascista. In questo il modello del partito democratico si differenzia da tutti gli altri attori fin qui interrogati: dal comunismo tradizionale cessato nel 1989; dai catalizzatori fascisti che hanno raccolto il mare magnum di giovani sradicati nelle loro identità sociali e politiche; dai movimenti ribellistici di sinistra di fatto interni al paradigma di accumulazione neo-liberista; dalla socialdemocrazia, che, nelle sue varie fasi, ha avuto come interlocutore privilegiato sempre il capitale, al quale si proponeva prima come rappresentante e moderatrice del movimento operaio e cerca di proporsi oggi come savia e competente amministratrice della macchina economica.

Ultima modifica il Lunedì, 24 Novembre 2014 10:17
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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