Venerdì, 10 Maggio 2013 00:00

Unità della sinistra: riflessioni di un comunista #1

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Il valore dell’unità della sinistra, ancor più attuale in queste difficili settimane, appartiene a pieno titolo al codice genetico dei comunisti. Storicamente sono stati sempre uno dei motori più importanti nei processi di aggregazione politica delle forze dei lavoratori.

Non solo per motivi di peso relativo, ma per l’impostazione generale che è divenuta patrimonio imprescindibile per larga parte della sinistra: punto di vista di classe sui rapporti sociali e non generico richiamo ideale a principi astratti; critica complessiva del modello di produzione e non semplice censura morale dei suoi effetti superficiali; prospettiva del superamento del sistema e non solo azione rivendicativa e riformatrice nel quadro dell’esistente.

Di fronte al montare di un bisogno reale di unità che si sta sviluppando a sinistra, per dare uno sbocco politico ai bisogni e alle esigenze della parte più debole del Paese, ormai senza più rappresentanza, anche i comunisti debbono dare il loro contributo alla discussione, come singoli e collettivamente. Il rilancio di un’azione politica di massa, urgente per contrastare il neonato governo Letta-Alfano, chiede di essere consapevoli della non autosufficienza dei singoli soggetti in campo, compresi i comunisti, che non possono che incontrarsi con chi è impegnato a costruire un’ampia sinistra dei lavoratori. Del resto, questa fase così fluida può essere anche un’occasione importante per connettersi di nuovo con i propri riferimenti sociali e avviare quella rigenerazione culturale, teorica, politica e organizzativa di una soggettività comunista che, con un lavoro di lunga lena e ampio respiro, rinnovi la prospettiva del Socialismo del XXI secolo.

Il campo della sinistra è variegato, ma oggi si misura la capacità collettiva di chiudere con le “soluzioni di emergenza” degli ultimi anni e di creare le condizioni di un processo serio, che non sia assillato dalle mosse degli altri e non rivolga lo sguardo solo alla prossima scadenza elettorale, ma piuttosto ai tempi più lunghi dettati da un vero programma politico. Su questo penso valga la pena condividere qualche piccola riflessione personale, con lo spirito di non limitare il dibattito agli steccati del contingente.

O si è autonomi (ed egemoni) o si muore

Occorre innanzitutto un bilancio politico serio degli ultimi trent’anni, connesso a una valutazione del mutamento dei rapporti di forza di classe all’interno della società. Il movimento operaio affronta le conseguenze di una pesante sconfitta storica e di una ritirata disordinata che ha aperto le cateratte della controffensiva della finanza e del mondo industriale. Un pezzo importante di quella che, negli anni ’80, avremmo chiamato senza esitazioni “sinistra” ha intrapreso un cammino di convinto revisionismo teorico a tappe forzate, che l’ha portata ad assumere una collocazione sostanzialmente liberale. Questo è evidente soprattutto in Italia, dove il grosso dell’ex Partito Comunista ha finito, dopo vari passaggi, per confluire in un contenitore (il Partito Democratico) insieme a componenti ex democristiane e liberaldemocratiche. Sarebbe un’offesa all’intelligenza, loro e nostra, continuare a pensare che forse, in parte, quell’approdo sia stato la conseguenza di casualità e contrattempi, che hanno spinto quelle esperienze oltre le intenzioni e che, sotto le braci, continui in qualche modo a covare il fuoco di un’intatta identità di sinistra, che andrebbe solo “liberata” dall’impaccio. Questo discorso vale soprattutto per i ceti dirigenti: essi hanno scientificamente (e legittimamente) percorso una strada che ha chiuso una volta per tutte la porta ad una visione della società divisa per classi (e a un rapporto privilegiato con una di esse, la più debole, finendo così per favorire quella più forte), che ha assunto il capitalismo e il libero mercato come unico paradigma possibile ed auspicabile per raggiungere progresso e sviluppo, che ha abbandonato ogni prospettiva di superamento dell’esistente, incorporandone anzi fino in fondo tutti i valori costitutivi. Nelle forme più estreme (ma non infrequenti) si è arrivati a promuovere apertamente i principi economici liberisti, duellando con le destre sul piano di chi fosse più bravo e capace a condurre le medesime politiche: un fatto di abilità, insomma. Se non partiamo da questo dato e dal fatto che tutte quelle illusioni si sono oggi rovesciate, e se ancora non partiamo dalla constatazione che la sinistra non è stata in grado di promuovere un disegno alternativo che non fosse subalterno a questi processi, non si va da nessuna parte.

Si tratta quindi, una volta per tutte, di rompere l’isolamento rispetto ai propri referenti sociali, di cominciare a svolgere un proprio ruolo e una propria capacità di proposta politica, costante e di massa, che valga per se stessa e che prescinda dal ruolo che altri soggetti e altre realtà intendano interpretare: una sinistra che non supplisca ad altri e che non attenda che altri suppliscano a lei, ma che cammini sulle proprie gambe. E’ il tema strategico dell’autonomia, della facoltà di regolarsi e determinarsi né in funzione, né in contrapposizione a qualcun altro. Negli ultimi anni chiunque di noi ha proclamato la propria autonomia, i propri confini, la propria identità, senza però praticarla: chi non riuscendo a pensarsi separato dal Pd e dal centrosinistra liberale, chi invece pensandosi come complemento conflittuale a quest’ultimo. In entrambi i casi, non svincolandosi da un rapporto di condizionamento rispetto al soggetto maggiore. Praticare l’autonomia politica significa oggi, quindi, studiare ed analizzare il mondo, recuperare un rapporto con i propri soggetti sociali ed elaborare un progetto di società, un programma politico complessivo, misurando l’efficacia della propria strategia e della propria tattica nel confronto costante con il raggiungimento o meno dei propri obiettivi, con la realtà e con nient’altro. Un percorso che richiede sacrifici e la pazienza di ricostruire dalle basi, dalle radici: non ci sono colpi di genio, bacchette magiche, escamotages che possano esimerci da questa fatica certosina di riedificazione.

Pare ormai evidente, nella devastazione della crisi mondiale, il carattere fallimentare di tutte le politiche di sistema, comprese quelle “di compatibilità”, di chi è convinto che con moderazione e regolazione si possa porre un argine agli effetti distruttivi del neoliberismo, che esistano margini di redistribuzione di lavoro e ricchezza, senza mettere in discussione l’impianto generale del modello e dei rapporti di produzione. Le ultime elezioni, con il risultato del Movimento 5 Stelle, dovrebbero spingere a riflettere sulle potenzialità di una fase in cui, complici esasperazione e frustrazione, si è creata un’estrema mobilità del consenso, anche verso soluzioni eterodosse: il che è ovviamente un’arma a doppio taglio molto pericolosa (si pensi appunto al Grillo populista e superficiale) che apre però brecce nel pensiero unico. Per fare un esempio, un programma credibile di politica economica, che metta in luce le contraddizioni del vangelo liberista, rilanci il ruolo pubblico in economia come fattore di programmazione democratica, attacchi in profondità i modelli contrattuali vigenti e le forme ideologiche di organizzazione del lavoro, sposti investimenti su settori innovativi della produzione, chieda la piena applicazione dei principi costituzionali nei rapporti di lavoro, la piena rappresentanza democratica sindacale, sposti risorse dalla speculazione alla qualità della vita: un programma simile, organico, costruito con coerenza e solidità su tutti gli aspetti salienti del nostro vivere sociale, potrebbe non solo prefigurare un blocco di consensi ancorato a una rappresentanza di classe, ma solleverebbe anche il velo sulle ipocrisie di chi proclama le parole d’ordine di “lavoro, equità, giustizia sociale” senza voler cambiare niente. Esistono temi su cui è possibile, con costanza e dedizione, costruire una nuova egemonia di massa contro le politiche del passato. 

Un lavoro di egemonia che va compiuto nella società, nei gangli vitali dei luoghi di lavoro, di studio, di socialità (consapevoli che si tratta di un avvicinamento lungo e ostico), e non rivolto a pezzi di ceto politico e dirigente, con l’illusione che anche l’intendenza poi li seguirà. E’ una constatazione difficilmente falsificabile: i tentativi regolari di alterare il gradiente di radicalità e progressismo dei vari centrosinistra attraverso alleanze che li ancorassero a sinistra, che li spostassero sulle nostre posizioni, che in qualche forma li condizionassero, sono falliti, uno dopo l’altro, passo dopo passo. L’unico effetto è stato il logoramento, l’erosione, lo smantellamento e la distruzione di una vera sinistra di classe (vecchia e nuova). Non solo per i rapporti di forza sfavorevoli, ma anche perché la sinistra di alternativa nel suo complesso non si è mai concessa la possibilità di far maturare un progetto politico, un insediamento sociale, un programma propri. E oggi che il centrosinistra sembra a rischio collasso e scollamento con la propria base, non dobbiamo compiere un errore elettoralistico che tante volte noi stessi abbiamo rinfacciato alle forze di centrosinistra nelle loro corse verso il centro e la destra: andare ad occupare lo spazio lasciato libero da altri, pensando così di passare all’incasso. Diversamente, oggi c’è l’agibilità per allargare e rendere maggioritario il consenso su posizioni molto definite, credibili e radicali (che colpiscano cioè la radice dei problemi) rispetto a lavoro, diritti, ambiente, priorità sociali, crescita. Recuperando allo stesso tempo la partecipazione e l’entusiasmo di tanta, troppa parte della sinistra (soprattutto comunista) che negli anni ha smesso di attivarsi e votare perché stanca del continuo processo di diluizione delle identità e delle proposte politiche.

Un campo unitario della sinistra, nei prossimi anni, avrà senso solo se si darà il compito di rappresentare il mondo multicolore e differenziatissimo dei lavoratori, andando oltre la semplice considerazione di questi ultimi come categoria sociologica, bensì riaggregandoli in un blocco sociale e storico orientato al superamento del capitalismo. Offrendo, sì, una necessaria sponda politica generale alle loro organizzazioni sindacali di classe, ma non costituendo una sezione politica di esse. Anzi, il massimo scopo politico dovrà essere quello di inventare forme e modalità inedite di raggiungere e coinvolgere anche quelle tipologie di salariati atipici e precari che sempre più costituiranno la maggioranza dei rapporti di lavoro ma che il sindacato, per ovvi motivi di dispersione e isolamento di quelle figure, fa fatica a organizzare.

La seconda parte del documento alla mezzanotte di domani

Immagine tratta da 1.bp.blogspot.com

Ultima modifica il Venerdì, 10 Maggio 2013 00:00
Diego La Sala

Nato a Pistoia nel 1985, vive a Sesto San Giovanni. E' borsista del dottorato in Metodologia delle scienze sociali presso l'Università di Firenze. Ha collaborato e collabora con istituti di ricerca sociale e di mercato. Iscritto ai Giovani Comunisti dal 2000, da quel momento ha svolto attività politica a vari livelli. E' stato condirettore della rivista comunista toscana "l'Aurora". Vegetariano da qualche anno, è appassionato di montagna, musica classica e buon vino. Legge sempre meno di ciò che vorrebbe; il suo autore preferito è Joseph Roth.

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