Domenica, 26 Maggio 2013 00:00

Quello che in Rifondazione non ho mai trovato

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Quando nel luglio del 2010 feci la mia prima tessera al Partito della Rifondazione Comunista, entrando a far parte della Federazione fiorentina, una delle prime cose che mi furono raccontate fu l'esperienza di alcuni compagni toscani che avevano messo in piedi il progetto de L'Aurora. Ricordo ancora un viaggio in treno verso Empoli, per andare a fare servizio alla festa provinciale dell'A.N.P.I., in cui mi venne descritto il clima di brio intellettuale, di confronto e le punte di avanguardie raggiunte da questo progetto editoriale, nato nel 2005 e rimasto vivo fino alla metà del 2007. I compagni che decisero di prendere parte a quell'avventura sentivano la necessità di provare ad aprire un confronto franco ed approfondito, che avesse la capacità di andare aldilà delle separazioni organizzative e dei paletti che queste impongono. Aveva la genuina presunzione di costruire anche in Italia una sinistra unita, non subalterna e veramente rappresentativa delle istanze delle classi che ancora oggi, anche se con modalità diverse, sentono attorno al proprio collo il giogo del capitalismo.

Questo ragionamento veniva portata avanti nel lontano, non tanto cronologicamente quanto politicamente, 2005. Da allora abbiamo visto l'accentuarsi irrefrenabile del declino della sinistra italiana per come la conoscevamo: la Sinistra Arcobaleno e l'esclusione dei comunisti dal Parlamento (prima volta dalla nascita della Repubblica), il Congresso di Chianciano, il goffo tentativo di dare gambe all'unità attraverso la Federazione della Sinistra, l'adesione stentata a Cambiare si può e quindi la debacle elettorale di Rivoluzione Civile. Tutti avvenimenti che, a detta di molti, hanno sancito la fine di Rifondazione Comunista così come la conosciamo. La necessità di creare qualcosa di nuovo, che permetta alla sinistra italiana di tornare a fregiarsi orgogliosamente di questo nome ci spinge, oggi, ad affrontare il dibattito sulle nostre sorti.

Come molti più autorevoli di me hanno già scritto, anche io credo che l'unico modo per provare a costruire qualcosa che non sia “a scadenza limitata” sia quello di cominciare a discutere dei contenuti. Tutti, facendo politica attivamente, siamo profondamente consapevoli dell'importanza della rappresentanza nelle istituzioni: il modo più efficace per riuscire a rappresentare gli interessi della propria classe di riferimento e poter provare ad incidere nei processi decisionali. Ma credo che siamo altrettanto consapevoli del fatto che se non sappiamo cosa e chi rappresentare, diventi quasi inutile riuscire ad ottenere un posto nei Consigli Regionali o in Parlamento. Con Rifondazione Comunista siamo arrivati ad un punto nel quale il perseguimento dei tatticismi più biechi ci ha offuscato la mente, trascinandoci in una rincorsa perdifiato di movimenti o dei cartelli elettorali che, nel primo caso, hanno risucchiato le nostre forze indirizzando i propri voti verso altre sponde, nel secondo, non sono riusciti, nonostante la buona volontà, a nascondere il fine puramente opportunistico che ne era alla base.

Ripartire con qualcosa di nuovo significa troncare completamente con queste modalità. Ripartiamo dalle constatazioni più semplici: siamo un partito che ha la pretesa di definirsi comunista ma che è distante anni luce dalla classe che dovrebbe rappresentare. Il futuro che ci aspetta dovrebbe essere occupato da una riflessione profonda su quale sia la classe di riferimento di una forza comunista oggi in Italia: da chi è composta? Come analizziamo fenomeni che stravolgono il mondo del lavoro così come lo conosciamo, come quello del proliferare delle partite IVA? E come ci poniamo nei confronti dei nuovi lavoratori autonomi? Noi dobbiamo riuscire a capire la dimensione che il lavoro assume oggi, ai tempi delle liberalizzazioni sfrenate degli orari e delle delocalizzazioni. Dobbiamo capire come fare per inserire le tematiche e le istanze relative a questo in un'ottica che non può restare locale. I tempi della globalizzazione, che la cosa ci piaccia o no, ci impongono una riflessione che abbia come ambito come minimo quello europeo. Non possiamo continuare a limitare lo sguardo ad uno scenario solamente italiano quando le lavoratrici della Omsa in Italia hanno perso il loro lavoro perché l'azienda ha deciso di delocalizzare in Serbia. A questo punto mi pare evidente che una riflessione generale sul coordinamento delle forze sindacali e sociali in Europa (grande mancanza, non a caso, del processo di integrazione che ha portato alla massima omologazione finanziaria ma ha lasciato anni-luce indietro quella sociale) non possa essere rimandata: con la crisi che avanza, non ci possiamo più permettere di vivere di campanilismo, ignorando quello che succede in Polonia perché sarà proprio il destino dei lavoratori polacchi ad essere collegato, ad esempio, a quello dei metalmeccanici che dovrebbero costruire il nuovo modello Fiat a Pomigliano.

Il passaggio che mi viene da affrontare immediatamente dopo è quello del recupero della nostra tradizione internazionalista. Non sono, infatti, solo i danni collaterali della globalizzazione selvaggia ad imporci di tenere conto delle dinamiche internazionali ma è anche la nostra stessa storia. E' proprio questa che ci consegna i concetti da declinare e su cui riflettere. Ha ancora senso parlare di imperialismo oppure ha ragione chi sostiene che questa sia una categoria abbattuta assieme al Muro di Berlino? Come ci approcciamo alle esperienze catalogate come quelle di Socialismo del XXI secolo? Credo che chi si pone l'obiettivo della ricostruzione di una sinistra forte in Italia non possa fare a meno di tentare un approccio, anche critico, perché no, con le esperienze, che di certo non possono essere definite come comuniste ortodosse, quali quelle dell'America Latina o quella cinese. Come considerare ed analizzare il ruolo geopolitico di un paese che dal 1949 è stato un interlocutore indispensabile nell'elaborazione comunista e che oggi conta un miliardo e mezzo di persone e vede crescere il proprio Pil al ritmo dell'10% annuo dovendo però, allo stesso tempo, fare i conti con condizioni dei lavoratori e livelli di inquinamento che, per quanto siano in via di miglioramento, non sono accettabili ai nostri occhi? Capire come i principi cardine della dottrina comunista sono stati resi “ibridi” ed adattati alle varie realtà, portando effettivamente ad un miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici diventa un tassello necessario per un progetto di ricostruzione a tutto tondo.

E, accennando all'America Latina, ho il collegamento per arrivare all'ultimo punto. Il successo elettorale di Grillo, deve imporci delle profonde riflessioni sull'organizzazione dei partiti oggi, ed in generale, sulle forme di democrazia partecipativa. Se è vero che i partiti restano gli strumenti cardine della nostra democrazia, è altrettanto vero che continuare a riproporre gli stessi schemi organizzativi da cinquant'anni a questa parte non ci ci aiuterà a capire la società che ci circonda. Come utilizzare al meglio gli strumenti che l'esplosione del web ci mette a nostra disposizione, senza di fatto snaturare il tradizionale modo di fare politica, basato sul confronto e non sul “televoto”? E, prendendo atto della progressiva trasformazione della nostra Repubblica in termini presidenziali e quindi un progressivo declassamento del ruolo del Parlamento, come approcciarsi a strumenti quali i referendum abrogativi?

Io non ho, da sola, le risposte a tutte le domande che ho elencato. Credo però che la sinistra italiana si ritroverà ben presto a fronteggiare il difficile compito di riacquistare autonomia, rappresentatività e credibilità. Siamo tutti d'accordo sul fatto che definirsi di sinistra e non essere in grado di incidere sui processi decisionali portando ad un progresso effettivo, per quanto minimo, di volta in volta, di coloro che si dovrebbero rappresentare sia quasi un controsenso. Ma credo sia anche importante puntualizzare che un inseguimento senza pregiudiziali di altre forze, senza essere in grado di produrre un minimo spostamento di queste verso le proprie posizioni, sia uno snaturamento altrettanto grave del proprio “essere di sinistra”. E' bene tornare a fare pulizia e chiarezza tra i concetti di tattica e strategia: proviamo a rinunciare i tatticismi che, senza una visione strategica finiscono con l'essere, nei migliori dei casi, fini a se stessi e, nei peggiori, dannosi. Vorrei citare un commento tratto da un saggio di Emidio Diodato ed Umberto Gori che tratta, da un punto di vista teorica, del concetto di strategia in politica internazionale: “Il pensiero strategico, pur inibito dall'accelerazione del tempo, può trovare senso solo se riprende la sua funzione originaria, vale a dire orientare, definendola in modo spazialmente manifesto, la percezione di quali saranno i bisogni futuri di una collettività o moltitudine e, quindi, il modo più appropriato per comprenderli e soddisfarli”. Credo si addica perfettamente al nostro caso: se vogliamo tornare ad agire in modo strategico, e quindi provare ad elaborare un progetto di medio-lungo periodo che riporti i comunisti e la sinistra tutta ad avere un'organizzazione che li renda influenti e rappresentativi in Italia, dobbiamo declinare e puntualizzare nei dettagli chi siamo e perché lo siamo e, di conseguenza, prendere una posizione “spazialmente manifesta” che rispetti la nostra definizione, in politica interna quanto europea. Questo ovviamente non significa rifuggire come la peste qualsiasi dialogo che potrebbe portare ad alleanze o coalizioni ma semplicemente evitare, ogni volta, di dimenticarci chi siamo, da dove veniamo e cosa vogliamo. Semplicemente questo.

Ultima modifica il Sabato, 25 Maggio 2013 19:00
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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