Il messaggio è un po’ confuso, ma si ripete ormai da settimane, dopo il famoso documento con cui Fabrizio Barca ha esposto la sua idea di politica, fatta da un triangolo a cui oggi manca uno dei tre angoli irrinunciabili: i partiti che incalzano lo Stato, per rappresentare i cittadini in una dialettica sociale che ha perso le sue forme organizzative.
Il pragmatismo risulta poco chiaro nell’esposizione della teoria, per cui male si capisce l’apprezzamento verso il mescolarsi nel PD della cultura liberaldemocratica con quella socialdemocratica, quando però si afferma che occorre finirla “con l’ipocrisia del centrosinistra, per tornare a parlare di sinistra”. Se però si resta sul pratico, ecco che si capisce meglio. “Perché non ti sei iscritto a SEL o non hai fondato un tuo partito”, chiede Staino. La risposta è elegante, ma brutale: perché il patrimonio di circoli, militanti e radicamento (istituzionale e non) che ha il Partito Democratico non ha rivali (e perché le nuove generazioni non sentono la divisione tra le due principali culture politiche italiane del ‘900).
L’esigenza di umiltà da parte dei dirigenti nazionali, che devono essere in grado di ascoltare i territori, si accompagna a quella di tornare ad una visione quasi bucolica della politica, legata a una nostalgia poco realista. “Già 15 anni fa” una compagna raccontava a Barca che “dei 100 ragazzi che arrivavano al partito, i 50 che volevano cambiare le cose e apprendere qualcosa finivano per andarsene, mentre rimanevano quelli che erano arrivati per far carriera”. Il problema è che i partiti sono diventati degli “ascensori sociali per trovare lavoro” e invece devono tornare a vivere nel tessuto territoriale che solo il PD è in grado di offrire alla sinistra.
Poi vengono il criterio di progressività da applicare e la Costituzione, che non deve essere cambiata di una virgola, che è quasi perfetta, anche se le manca, per una questione storica, l’elemento della multidimensionalità Amartya Sen (il cui nome ricorrerà più volte durante la serata).
Recuperare le forme del PCI e della DC, per andare oltre le categorie politiche che hanno fallito (quella socialdemocratica e quella liberaldemocratica), attraverso lo “sperimentalismo”.
C’è poi la centralità del sindacato, che non è corporazione tra corporazioni (come invece sono le associazioni degli imprenditori), ma l’organizzazione che tutela la parte debole nel confronto tra capitale e lavoro, che deve essere regolato dall’intervento pubblico dello Stato. Recuperando Marx (?), Barca spiega che lo Stato, il sindacato, il partito, devono contrastare le dinamiche variabili del ciclo di produzione capitalista, comunque da non superare ma da dirigere in coralità con gli altri soggetti interessati.
Esiste poi la questione europea: la cessione di sovranità da parte degli stati nazionali deve corrispondere a un maggiore protagonismo, anche elettorale, dei cittadini europei nei processi decisionali. Restando sul livello continentale, la realtà di sinistra più interessante in Europa? Il dibattito all'interno dei laburisti inglesi.
Nonostante la critica al leaderismo, ritenuto categoria di destra o comunque liberista, si conferma una sensazione già respirata all’iniziativa della Fiom di Landini a Bologna (di cui abbiamo scritto qui): esiste un elettorato, e un tessuto territoriale di dirigenti (politici, sindacali, associativi), pronto ad aggrapparsi a speranze oggettivamente sempre meno probabili, o comunque sempre meno forti. I tempi di Cofferati, dei Democratici di Sinistra al Social Forum, sono lontani. Ci si accontenta di molto meno, sotto l’ombra di Renzi e di un centrodestra che non esce mai sconfitto sotto il “demone” Berlusconi. Un’esigenza disperata di sinistra, pronta a imboccare qualsiasi strada assomigli a una scorciatoia.
In questo senso la debolezza dei leader è forse una fortuna, perché la sinistra non muoia tra scroscianti applausi, pensando di poter essere salvata da qualche messia, anziché attraverso una ricostruzione di partecipazione e organizzazione.
Immagine tratta da tg24.sky.it