Giovedì, 23 Maggio 2013 00:00

Comunisti e sinistra: ma dove siamo?

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Mi sembra che il luogo nel quale ci confrontiamo, “il Becco”, sia animato da una notevole vivacità e gli articoli si susseguono a un ritmo che la dice lunga sulla voglia di discutere: bene, molto bene! Tuttavia sono pervaso da un discreto disagio e comincio a pensare che la depressione che prende, specialmente dopo i sessantacinque anni, di fronte al disastro della sinistra in genere e dei comunisti in specifico, non sia in realtà riducibile. Forse è per questo che mi sembra che la discussione, per le caratteristiche che ha, sia soprattutto un pestare l’acqua nel mortaio, indipendentemente dalla specifica qualità dei singoli interventi.

Lo dico con tutta la modestia di cui sono capace e con l’intimo terrore di non averci capito niente, e non da adesso: ma a me, francamente, il dibattito necessario sembra tutto un altro.

Voglio cominciare bestemmiando: lotta di classe, coscienza di classe, rappresentanza di classe…ma classe di che? Ma ce lo vogliamo domandare se per caso l’antagonismo tra capitale e lavoro salariato, insito nei rapporti di produzione capitalistici, non stia più in piedi per il semplice motivo che i rapporti capitalistici di produzione e di conseguenza la lotta di classe (in senso tradizionale) hanno esaurito la loro funzione storica? L’impoverimento che stiamo subendo è il risultato paradossale dell’arretramento strutturale della penuria che, grazie allo Stato Sociale (conseguente all’azione dei comunisti), si è determinato nel mondo sviluppato; a differenza che in passato, le nostre difficoltà non derivano da rapporti di forza sfavorevoli tra le classi, che ci impediscono di redistribuire la scarsa ricchezza, ma dal fatto che entro quei rapporti di classe la società non progredisce più ed anzi regredisce.

Un altro effetto apparentemente paradossale che si produce è quello per cui il capitale (abbondante) riduce gli impieghi nelle attività produttive perché gli manca la ragionevole certezza di una sua indispensabile valorizzazione: limita la compera della forza lavoro e, quindi, riduce e non amplia la massa dei salariati, suoi antagonisti. Dopo i “trenta gloriosi”, che hanno visto aumentare esponenzialmente i salariati del settore pubblico e dei servizi, assistiamo al loro drastico ridimensionamento perché oggi è passata, nel senso comune, l’idea che si sia consumato più di quanto prodotto, perpetrando un furto nei confronti delle future generazioni.

Questo mi consente un'altra bestemmia: è inutile rivendicare e difendere la Costituzione e i diritti (al lavoro, allo studio, alla salute ecc.), se poi tutti o quasi, anche a sinistra, anche in quella radicale, pensano che effettivamente così le cose non possano andare avanti. Lasciando perdere chi pensa che dobbiamo fare altri sacrifici, ci dovremmo rendere conto che non è sufficiente neanche sostenere che per sistemare le cose basti far pagare i ricchi, recuperare l’evasione fiscale, far emergere il lavoro nero e quello criminale, e di conseguenza invocare il conflitto di classe per imporre finalmente le “giuste politiche redistributive”. Ci limitiamo a sposare la tesi dei nostri avversari, cioè quella della scarsità, e per questo ci orientiamo allo scontro sulla ripartizione come facevamo, giustamente, in passato. Ma in realtà non riusciamo a far passare la corretta lettura della realtà e cioè che le risorse ci sono e che sono le forme sociali e i rapporti di produzione che non consentono di attivarle.

Queste considerazioni, esagerate e scomposte nella rappresentazione, concrete nella sostanza, sono giuste o no? È o no un nuovo problema che si pone per chi non si trova a suo agio dentro a questa forma sociale e vorrebbe superarla? Ecco, io penso che a sinistra sarebbe necessario un dibattito di questo tenore.

Dobbiamo usare Marx ed Engels, perché noi oggi siamo nella fase che loro avevano previsto: non perché fossero indovini, ma semplicemente perché, con lo strumento del materialismo storico, avevano analizzato e ipotizzato lo sviluppo dei rapporti borghesi, compresi i rapporti di classe, nella loro fase di espansione e di maturazione, con buona pace degli anarchici (che pena quando sento che alcuni nel disperato tentativo di mettere in piedi qualcosa sentano la necessità di aggiungere nelle sigle l’aggettivo libertario).

E dobbiamo usare anche Keynes, che per noi, suoi nipoti, aveva previsto quel “collasso nervoso generale” che si sarebbe verificato appena risolto il problema economico, in quanto incapaci, almeno in una prima fase, di saper godere dell’abbondanza che avrebbe reso possibili giornate di lavoro di tre ore e settimane di quindici ore: certo sarebbe necessaria l’eutanasia dei percettori delle rendite, di coloro che staccano le cedole (cioè superare i rapporti capitalistici). E cos’è quello che oggi viviamo, se non un “collasso nervoso generale”, un impazzimento collettivo, un non sapere dove sbattere la testa?

Siamo in un contesto diverso da quello che normalmente ci immaginiamo, per cui il lavoro che tanti compagni sviluppano è in realtà una fatica di Sisifo. Senza rendercene conto siamo immersi in un altro “luogo”, in una situazione enormemente più avanzata, frutto dell’azione rivoluzionaria della borghesia e poi, soprattutto, del suo antagonista: il lavoro salariato che, grazie ai comunisti, ha costretto la borghesia a compromessi tali da consentire all’umanità di raggiungere livelli altrimenti impossibili.

…Non siamo più, dove eravamo ieri e l’altro ieri…siamo molto più avanti, ma nessuno può garantirci che la strada da scegliere, del bivio che abbiamo davanti, sia quella giusta.

Immagine tratta da rappingmanual.com

Ultima modifica il Mercoledì, 22 Maggio 2013 23:54
Mauro Lenzi

Pensionato, una vita nella CGIL, di cui è stato anche nella segreteria regionale, consigliere provinciale per due mandati legislativi fino al 2004, successivamente nel Consiglio Comunale di Colle di Val d'Elsa, dove già era stato eletto nel 1980 è stato nominato Assessore nel corso di questo mandato.

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