Dire che viviamo nella società capitalista è una banalità, ma è meno banale dirci che viviamo immersi in una società basata sul rapporto tra capitale, che compra (la) forza lavoro (che si vende) e che, quando ciò avviene, è certificato da un salario (diretto o differito) “che fa” (letteralmente) la nostra vita. Chi è impedito di praticare questo rapporto vive ai margini e, in generale, se la passa male, disoccupati, precari, esodati o partite IVA che siano.
Questo rapporto sociale non è arbitrario, è il prodotto, imposto dalla borghesia prima e poi condizionato dal conflitto di classe, di molti secoli di storia che ha prodotto a sua volta un’immane ricchezza materiale e culturale che si è aggiunta, sommandosi e integrandosi, con la produzione precedente. Questo è il mondo, è la nostra vita e determina la nostra individualità, cioè il nostro proporci sul mercato per farci comprare come forza lavoro (la merce di cui siamo proprietari), se non possiamo rendere concreto questo rapporto, la nostra individualità entra in una fase di depressione impotente.
Si dirà che così è sempre stato, qual è la novità? Sta nel fatto che questa difficoltà alla vendita della forza lavoro è diventata strutturale, data l’immane ricchezza prodotta e l’arretramento della penuria, grazie agli inauditi aumenti della produttività dei fattori della produzione, il capitale non trova più nuovi settori e prodotti in misura tale da poter investire con la ragionevole certezza di un ritorno con tanto di profitto, questo gli impedisce di comprare nuova forza lavoro.
La produzione capitalistica, cioè di merci (e poi quella Keynesiana dei servizi), per quanto si sia estesa a quasi tutti gli aspetti della vita e per quanto si possa estendere sul pianeta terra, dati i livelli di produttività raggiunti e raggiungibili, non consentirà più di mettere a lavoro (salariato) l’umanità.
Quindi il sistema capitalistico non potrà più coniugare crescita e profitti (cioè la sua essenza). In molti sono indaffarati a cercare la soluzione dando per scontato questo modo di produzione che considerano feticisticamente naturale e, quindi, eterno: di qui tutte le elaborazioni che, rigorosamente, fanno i conti e “dimostrano” di come redistribuendo una parte della ricchezza e garantendo una cittadinanza anche a chi è fuori dalla produzione di merci vendibili, si potrebbe consentire a questo sistema di continuare a fare la nostra vita.
Discuteremo degli aspetti che conseguono a questi approcci, quello che m’interessava sottolineare in queste righe è l’aspetto ri-ordinatore del complesso delle questioni: il sistema capitalistico non funziona più, nasce (contro i rapporti feudali) e si sviluppa (contro l’economia corporativa) per altri scopi, mettere a profitto tutto, anche la vita; fintanto che, crescendo, ha corrisposto all’esigenza di migliorare la vita dell’umanità, ha funzionato, ora va semplicemente superato… per andare dove? Intanto ci vuole la consapevolezza che si tratta di uscire dalla preistoria.
Si possono discutere tutte le proposte, ma se a monte non c’è questa consapevolezza, lavoreremo per il Re di Prussia.