L’ex assessora parte dalla propria esperienza personale. Si tratta, dice, di una dimensione che era completamente sconosciuta per lei, una dimensione in cui bisogna prendere immediatamente delle decisioni, fornire subito delle risposte. È appunto, come già anticipava Battistini, una dimensione disumana, non conforme ai vincoli costitutivi, primari, ai limiti antropologici e biologici, che caratterizzano una persona umana. È al contempo vero però, che è una dimensione in cui diventano determinanti l’adrenalina e l’eccitazione, a cui non è facile sottrarsi una volta entrati dentro questa sfera, dentro questo gioco. Non è un luogo collettivo in cui pensare a come difendersi da certi ingranaggi, a come incepparli o, in altri casi, a come usarli. La dimensione politica, e anche quella di potere, deve allora riuscire ad essere collettiva, perché se resta individualista, è perdente, fallimentare, limitante per definizione: per poter incidere occorre che politica e potere siano in grado di un’elaborazione collettiva e che quindi abbiano una portata collettiva, non personalistica o leaderistica.
Per entrare negli ingranaggi, nei meccanismi di potere ci vogliono competenze mirate, adeguate rispetto a ciò che si va a fare. Essere dentro una dimensione politica (e di potere) bisogna avere una mente collettiva, sentirsi parte di un progetto comune, in cui ognuno è indispensabile secondo le proprie specifiche competenze e capacità ma ognuno è funzionale e deve mirare a un obiettivo comune, a un disegno o progetto collettivo.
I movimenti che si pongono fuori dalla dimensione politico-istituzionale e che rifiutano tutto ciò che è istituzionalmente organizzato sono (o erano) una realtà importante e la sinistra (non governativa) forse è stata poco capace di star dentro quei movimenti, di accogliere e raccogliere le loro istanze, la loro energia, il loro attivismo.
Sul tema del rapporto tra comunicazione e politica, Nocentini ritiene che si faccia fatica, nell’elaborazione politica, a far emergere la progettualità di fondo. Il problema forse però è proprio che in molti casi, questa progettualità è tiepida e superficiale, e quindi difficilmente comunicabile, o volutamente non comunicabile fino in fondo, pena il disvelamento della sua fragilità e inconsistenza. Se non si ha un progetto ben definito, chiaro, ben elaborato (grazie alla sinergia e all’intreccio virtuoso di competenze diverse ma miranti a un fine comune) ciò che si finisce per comunicare e trasmettere è una finzione, una messa in scena che però deve saper durare, affinché non venga smascherata, affinché non traspari il vuoto o la nullità che si celano dietro quella rappresentazione fittizia. Come diceva anche Battistini il livello di leggerezza, superficialità, la mancanza di volontà di approfondire e di scavare, fanno comodo sia alla politica che ai mezzi dell’informazione, sia ai rappresentanti del potere che ai giornalisti. C’è una sorta di connivenza tra le due parti, perché ognuna ha bisogno che quel livello di informazione rimanga superficiale, vacuo, leggero. Il fatto che la comunicazione sia effimera, evanescente, provvisoria, non può e non deve però diventare un alibi, una comoda scusa per disimpegnarsi dall’elaborare un progetto serio puntando a farlo arrivare, a veicolarlo, a farlo passare.
Per Nocentini, o si costruiscono dei percorsi per aggregare attivamente, capillarmente, praticamente gli individui (a cominciare dal livello delle realtà locali, territoriali), coinvolgendoli anche attraverso tematiche o problematiche quotidiane, strettamente contingenti, o altrimenti si precipita in una rappresentazione che è una mera e spesso inconsistente scorciatoia per aggregare le persone, che infatti finiscono per unirsi intorno a questioni abbastanza frivole e inutili (il calcio, “i gufi”, “i rottama tori”…). Bisogna perciò saper creare un collante, una collettività per poter innescare un percorso validamente alternativo, che sia efficace e incisivo.
Dopo Nocentini prende la parola Leonardo Croatto (FLC-CGIL Firenze). C’è un meccanismo di costruzione del consenso, inizia Croatto, che conduce al potere, il quale però a sua volta modifica quegli stessi meccanismi di costruzione del consenso per rafforzare o (ri)ottenere il potere, creando una tautologia in cui il potere si nutre di se stesso: esso si nutre degli organismi che lo creano, lo rendono effettivo (il potere senza consenso non è tale) e poi stesso crea quei meccanismi per crescere o ottenere altro o nuovo potere o semplicemente per rimanere tale. Detto altrimenti, tu, che stai al potere, utilizzi il tuo stare al potere per ottenere potere. Certo, si tratta di un circolo o un ciclo influenzato da mille variabili, endogene (tipo le proprie capacità personali) ed esogene (geo-politica, modificazione degli strumenti comunicativi e delle nuove potenzialità che essi forniscono – si veda ad esempio il caso di Obama e dell’uso vantaggioso che ha fato di internet durante la campagna elettorale – , e altri fattori di questi tipo).
Gli strumenti comunicativi però non hanno un valore negativo in sé. La sinistra criticando così perentoriamente e lungamente Berlusconi per l’utilizzo degli strumenti di comunicazione, si è un po’persa, come lo scemo che invece di guardare la luna guarda il dito: gran parte della sinistra ha attribuito un valore etico negativo allo strumento in sé e non all’uso che se ne fa, che è quello ad essere negativo o positivo. Non è lo strumento in sé ad essere il male, cosa che invece gran parte della sinistra ha ritenuto, ma è l’utilizzo a essere più o meno buono. Rigettare questi strumenti significa tagliarsi fuori dal reale stesso, significa uscire anacronisticamente dalla dimensione spazio-temporale del nostro vivere contemporaneo. Quegli strumenti andrebbero piuttosto utilizzati in maniera corretta per veicolare delle idee che si ritengono positive. Le idee, per quanto ottime si ritengano essere, una visione del mondo che pensiamo e siamo convinti sia migliore rispetto all’unica visione che oggi ci viene proiettata, rispetto all’unica narrazione che ci viene raccontata, hanno bisogno di esser comunicate, per uscire dalle menti di coloro che le pensano, di coloro che coltivano quelle idee e nutrono la prospettiva potenzialmente e urgentemente necessaria di un mondo più giusto e più equo, più umano. Se siamo capaci di pensare una società migliore, più egualitaria e giusta rispetto a quella in cui ci troviamo, dobbiamo riuscire a portarla fuori; se riusciamo a elaborare un orizzonte, una dimensione politica, economica e sociale alternativi al neoliberismo più selvaggio, al profitto come fine da perseguire a tutti i costi, all’austerità, alla privatizzazione di beni e servizi, al consumismo sfrenato, alla competizione , all’usurpazione, allo stupro dell’ambiente etc.. dobbbiamo anche essere in grado di trovare e saper utilizzare gli strumenti adeguati per trasmettere e far passare questa elaborazione di un orizzonte diverso, per comunicare che un mondo e una società migliori sono possibili e non sono mera teoria che rimane lettera morta, se appunto non viene fatta veicolare.
Di nuovo, ciò da cui bisogna partire è la lettura del presente che sia il più possibile aderente al reale, al contingente, perché se non si esamina, in maniera obiettiva quel che accade e ci si limita a elaborarlo in maniera soggettiva, quasi solipsistica o auto-referenziale non si può certo sperare di apportare un cambiamento, di far valere una possibilità di società alternativa a quella esistente.
L’uso del mito, e dei falsi miti sono stati funzionali a fondare il potere o a consolidarlo (il fascismo si è costruito a partire dalle mitologie), e a creare aggregazione tra le persone: per il fascismo questi miti erano – e in parte continuano ad essere per un’ideologia di destra - il sangue, la razza, la patria , la tradizione, la famiglia. In due termini erano “boden und bolt”: “suolo e sangue”. Come dice Norman Manea, “La mitopoiesi serve a fornire “delle risposte facilitate per società in crisi. Fascismo, socialismo reale, fondamentalismo religioso, democrazie post-moderne, pur con gradi diversi di intensità e con contenuti di segno molto diverso, dal punto di vista della teoria della cultura operano allo stesso modo per plasmare modelli cristallizzati di identità”1. Anche la sinistra ha avuto i suoi miti: anche l’Unione Sovietica è un mito, un esercizio narrativo, così come la storia delle mondine, o la Resistenza, realtà che assumono però un valore mitico, quasi sacrale, diventano vere e proprie narrazioni mitiche con finalità politiche, che però fanno passare qualcosa, creano aggregazione. A detta di uno dei più lucidi pensatori della sinistra italiana del Novecento, Furio Jesi, capace di “mettere davvero a disagio il neofascismo («classico» e postmoderno) e le destre più o meno «nuove» e «riciclanti»”2, in realtà però quando il linguaggio della sinistra diventa sacralizzato, mitico, perde la sua funzione emancipativa e diventa uguale al linguaggio di destra, di per sé mitico, in quanto assertivo, autoritario, “spiritualizzato” e (auto)celebrativo: “l’uso metafisico del mito”, “che serva a fondare uno stato di cose considerandolo «natura», è ciò che fattivamente distingue il pensiero reazionario da quello emancipativo: se le parole «di sinistra» diventano «mitiche» smettono di essere emancipative. Questo riguarda a sinistra, per farla molto veloce, tanto lo stalinismo, come mito totalitario del potere, quanto le magliette di Che Guevara, per dire una mitologia che ricicla simboli e luoghi comuni dell’immaginario di sinistra in modo kitsch e anche commerciale, quali che siano le buone intenzioni”3.
A mio avviso la costruzione di miti non è sempre negativa, tutto dipende da che tipo di mito e da che tipo di valore che assurge a valore mitologico si vanno a creare e da come li si crea. Se la sinistra risulta di nuovo capace di creare “dei miti”, o per lo meno delle narrazioni capaci di animare l’individuo ormai totalmente disinnamorato della politica e completamente ovattato nel proprio cieco e apatico individualismo, non penso che essa perderebbe la sua funzione emancipativa, né andrebbe a perdere i suoi contenuti se essi rimangono ben fondati e fondanti anche dietro un’eventuale operazione di mitizzazione, di mitopoiesi. Certo, queste forse potrebbe esser possibile se le eventuali narrazioni alternative ai “miti” della destra e all’ideologia unica del neoliberismo, non rimangono solo vuote rappresentazioni mitologiche: solo se fossero fondate su una visione concreta e fattibile, su idee che non siano pallide chimere, potrebbero avere un potere incisivo e aggregante. Il mito non deve rimanere fine a se stesso o alimentarsi del suo afflato “sacralizzato”, del solo potere evocativo e molto spesso vuotamente ma aggressivamente autoreferenziale o autocelebrativo, ma deve appunto basarsi su qualcosa di concreto, di ben elaborato e soprattutto attinente al reale, al contesto storico in cui viviamo; certo, si creano narrazioni alternative pescando nel proprio patrimonio culturale, sociale e intellettuale e sui valori e gli ideali che contraddistinguono la sinistra, ma occorre che essa li ricontestualizzi, li attualizzi, adeguandoli alla realtà vigente. Anche in questo senso la comunicazione deve servire a veicolare quei valori e quegli ideali, più che il mito in sé, e non mirare a plasmare o rimbambire le coscienze in maniera incantatoria, irretendole e rendendole meri ricettori passivi, senza che poi dentro di esse ci sia una sentita e reale adesione a quei valori e a quegli ideali. Oggi la comunicazione non comunica, bombarda, si riversa sulle menti degli individui che se ne abbeverano scambiando un veleno per l’elisir dell’eterna giovinezza.
Infine a concludere il giro di interventi è Valentina Bazzarin, ricercatrice presso l’Università di Bologna che ci racconta degli aneddoti personali ma funzionali a passare il senso del discorso. Uno di questi è emblematico del fatto che a volte, basta un piccolo “incidente di percorso”, un piccolo e apparentemente insignificante evento buffo o ridicolo a smontare la costruzione della narrazione e di tutto quell’apparato scenico e ridondante con cui il potere (il rappresentante del potere) si presenta, con cui si mostra in pompa magna alle folle esultanti e acclamanti. Ma ecco che, in mezzo al tripudio, nel clou di questa esaltante messa in scena, basta un’ingenua e clandestina suoneria del telefonino che candidamente suona Jingle Bells, a far decadere sfacciatamente tutto quell’ambaradan di retorica “magnificenza” e spudorata auto-celebrazione del proprio sé e del proprio ruolo di persona di potere. Il personaggio, il mito, il potere si sgonfiano e vengono ridicolizzati miseramente da un banale imprevisto, proprio quando si pensa che siano all’apice del loro fulgore e della loro potenza.
Un altro aneddoto porta a questa conclusione: se la lega dice di odiare gli immigrati, i cinque stelle gridano di odiare la casta, Renzi odia tutti coloro che non sono renziani, la sinistra chi dice di odiare? Forse uno dei problemi è anche questo, ovvero che la sinistra ha smesso di dirci chi odiare. Prima diceva di odiare i ricchi, i potenti, i militari, le guerre, i padroni..adesso sembra imprigionata in un’autocritica che ha finito per portarla ad odiare se stessa, si potrebbe dire. Senza neanche bisogno che ce lo chieda Renzi! Bisognerebbe forse, continua Valentina, provare ogni tanto a ragionare non solo con la testa, ma anche con gli istinti basici, con la pancia, proprio come si fa nel marketing, in cui infatti si cerca proprio di analizzare ciò che istintivamente può piacere, può attrarre; si lavora sulle emozioni, sulla ricettività emotiva, di pancia, dell’utente o del consumatore. Il marketing e il digital marketing lavorano attraverso i media, attraverso i social, per riuscire ad individuare gli indici di gradimento, per capire cosa piace e cosa non piace. È un lavoro che punta non sulla testa, sul ragionamento, ma sul cuore, sulle reazioni istintive ed emozionali delle persone, sulle loro reazioni di stomaco, non di cervello. E dopo un’adeguata “lettura delle emozioni”la capacità di chi lavora nel marketing e nel marketing digitale è quella di rielaborare e sintetizzare i dati, i messaggi che emergono.
I Partiti, prosegue poi la ricercatrice, sembrano deprivati della loro capacità di leggere le emozioni e anche di avere e provare delle emozioni, così come anche di avere anche un pensiero, un pensiero autentico, profondo. Sembra che agiscano solo secondo ciò che devono fare. L’elettore inveceè tirato dentro questo “sistema” solo per come reagisce o risponde a un determinato stimolo. Si innesca un meccanismo di azione/reazione.
Una possibile via di uscita da certe narrazioni tossiche, secondo Bazzarin, potrebbe stare nella capacità di creare una narrazione riproduttiva, di “maternage”: una specie di parto, una nascita di pensieri, idee, riflessioni, elaborazioni e narrazioni che però implichi anche l’allevamento, la coltivazione e la maturazione di quegli stessi pensieri, idee, narrazioni. Proprio come il ventre materno che porta avanti una vita, proprio come l’allevamento materno. Forse un approccio femminile, fecondo, che produce vita, la custodisce, la alleva e la fa crescere, può contrapporsi alla morte e all’inerzia mortifera e arida che producono le narrazioni tossiche preponderanti.