Fuori dal Parlamento la stessa combinazione di speranza quasi disperata segue pedantemente i movimenti di Landini e Zagrebesky, nonostante questi due ripetano (comprensibilmente) di non voler diventare in alcun modo una sorta di scialuppa di salvataggio su rotaia.
Una grande confusione segnerà il riscaldamento del prossimo mese (“sarà un ottobre caldo”, promettono da più parti). Ai lavoratori della sinistra radicale si chiede quasi di lavorare per potersi permettere le imminenti manifestazioni a Roma. 12 ottobre (la via maestra), 18 ottobre (sciopero del sindacalismo di base), 19 ottobre (manifestazione nazionale di una serie di movimenti di lotta).
Nel frattempo ci si stupisce di come un pezzo della politica si stia affrettando a trovare posto sul treno di Renzi. Uno dei primi a spiazzare e stupire è stato Pisapia. In seguito sono arrivati Migliore e direttamente Vendola, per Sinistra Ecologia e Libertà. Le feroci battute sull’apparato del Partito Democratico che si affrettava a una svolta opportunistica renziana si sono congelate sul volto dei militanti di SEL.
Il sindaco di Firenze infastidisce ancora larga parte di quel che rimane dei simpatizzanti della sinistra italiana (compresi numerosi ex Democratici di Sinistra). Però sarebbe forse l’ora di togliere lo strato di ovattata ipocrisia che circonda le dinamiche della politica italiana di questi ultimi venti anni (almeno). Un ottimo articolo di Roberto D’Alimonte, sulle pagine del Sole 24 Ore dell’8 settembre, sintetizza un ragionamento che con difficoltà sta penetrando tra le autistiche ed autoreferenziali certezze postcomuniste italiane.
“Elezione dopo elezione, sconfitta dopo sconfitta la gente arriva a capire che per vincere occorre rispettare certe regole. […] Sembrano regole banali ma non lo sono affatto. Questo è quello che hanno capito milioni di elettori di sinistra la sera delle ultime elezioni, il 25 Febbraio 2013. Quella sera è morto il vecchio Pd. E si è spianata la strada della segreteria per Matteo Renzi. […] Mutatis mutandis, in Gran Bretagna è successa la stessa cosa tra il 1979 e il 1997”. Dopo la quarta sconfitta consecutiva “i suoi militanti e elettori hanno fatto i conti con la realtà. Hanno capito che erano una minoranza che per tornare a vincere doveva allargare i suoi confini rinnovandosi. Questo è stato il ruolo di Blair. Detta così sembra facile ma non lo è stato per niente. Ci sono voluti quasi venti anni per apprendere la lezione. […] Alle ultime elezioni la coalizione di Bersani si è fermata al 29 %, meno di Veltroni e addirittura di Occhetto. Questa è la realtà nuda e cruda. Eppure ci sono voluti 20 anni per capire che la sinistra, così come si è organizzata dal 1989 a oggi, non ha i voti per vincere, se la destra non le dà una mano”.
Nessuno pensa che Cuperlo possa vincere le elezioni, si parla infatti di un segretario di partito che faccia solo quello, senza leadership elettorale. Civati sembra un personaggio secondario, magari brillante ma sostanzialmente ininfluente.
Se l’unico obiettivo della sinistra è vincere per vincere, per non far governare gli “altri”, a qualsiasi costo, a qualsiasi programma… Renzi è l’unica scelta (ad ora). In nome dell’antiberlusconismo quanto è stato digerito, quanti sacrifici accettati? La grande spinta “vetero-socialdemocratica” di Bersani ha dimostrato di essere un sogno minoritario, incapace di incassare uno dei momenti di maggiore debolezza del giaguaro da smacchiare. Non si capisce perché il sindaco di Firenze dovrebbe essere improponibile rispetto a una corrente democratica (socialista?) che ha accettato di governare, per la seconda volta consecutiva, con il Male incarnato nelle sembianze di un “nano malefico”. La sfortuna di essere cresciuti negli anni ’90 e 2000 è che ci si ricorda vividamente l’epoca dei girotondi e dell’”antiberlusconismo professionale” oggi deriso da dirigenti e giornalisti compiacenti al Partito Democratico, nonostante anche durante l’ultima campagna elettorale l’accusa a Ingroia e Grillo fosse l’eresia di “voler far vincere Berlusconi”.
Insomma il punto è uno solo. Se l’unico obiettivo è stare in Parlamento, non far vincere le destre e poi una volta che si ha il “potere” (…) vedere che ci si può fare… La subalternità alle destre consiste in questo, nel rassegnarsi a dover assomigliare all’avversario per poterlo battere. Le macerie del Muro di Berlino hanno convinto che era necessario accettare i paradigmi delle destre, anche se "moralmente la sinistra restava superiore" (da qui un misto di rifiuto delle proprie posizioni e di estrema arroganza autoreferenziale). Poi c’è la subalternità di chi aveva deciso di tenere in piedi l’eredità del comunismo italiano, rifondandolo. Da una parte c’è la subalternità di Sinistra Ecologia e Libertà: serve qualcosa che bilanci Renzi, pagando dal punto di vista elettorale e permettendo di creare un rapporto con il popolo della sinistra che vuol vincere senza rinunciare almeno ai simboli (i contenuti vabbé, l’importante è portare la bandierina sul palazzo). Dall’altra la subalternità di Rifondazione Comunista, laddove pare che avere il 2% non sia un problema, se si rientrasse in Parlamento (oppure si tende a cedere al complottismo, al “non ci votano perché non ci capiscono, ci censurano, ci sono i sabotatori interni", …). Poi c’è la galassia di sigle, movimenti, circoli intellettuali e sette.
Insomma nessuno pensa che ci possano essere i margini per costruire un progetto di largo respiro e sul lungo periodo, se non montando su qualche treno fortunato, rigorosamente da additare come ultimo trasporto possibile.
Ma forse i numerosi nostalgici della sinistra italiana sono in attesa su un binario morto. Qualsiasi treno passi, presto o tardi, a seconda della velocità o del percorso scelto, arriverà comunque al tronchino. L’unica speranza è cambiare binario, o scegliere un altro mezzo di trasporto, magari provando a smettere di insistere su strade già battute, riconoscendo i propri limiti ed errori. Berlusconi e Renzi provocano reazioni frustrate molto simili in certi ambienti. Invidiare chi riesce ad andare avanti non serve a nulla. Renzi riesce, per ora, a vincere e non interrompere la sua parabola ascendente. Mettersi in un angolo a parlar male di lui non serve a niente. Se non ci sono alternative per vincere, chi vuol vincere a tutti i costi non ha altra scelta.
Se poi invece si decide che la priorità è ricostruire un rapporto con il proprio tessuto sociale, provando a capire perché si dovrebbe stare nelle istituzioni e con quali scopi, allora il problema del consenso e dell’organizzazione acquisterebbero un senso particolare, capace di riaccendere entusiasmo e partecipazione.
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