E' proprio questo uno dei temi che è stato affrontato dal gruppo di lavoro che nel pomeriggio di sabato 6 luglio si è riunito all'ombra del parco di Villa Gordiani di Roma, in occasione di LAB, la festa nazionale dei giovani della CGIL.
Partendo dalla considerazione che con l'avvento della crisi i giovani sono stati i primi ad essere oggetto dei “tagli del superfluo” e che ragazzi italiani, secondo ricerche condotte dall'OCSE, sono tra i più poveri d'Europa e tra quelli che poveri ci restano più a lungo, avendo bisogno di un periodo più lungo degli altri per stabilizzarsi grazie al loro lavoro, si arriva a discutere delle condizioni di quei giovani che iniziano a lavorare. Gli studi dimostrano che chi comincia a lavorare a “regime ridotto”, percependo un salario ridotto per la mansione che svolge, vedrà quasi sicuramente la propria carriera lavorativa improntata al ribasso: sarà cioè più difficile che arrivi a guadagnare quanto gli altri.
Tra le forme di avviamento al lavoro previste dall'ordinamento italiano, quella più frequente è senza dubbio l'apprendistato. Il contratto solitamente prevede una retribuzione inferiore di quella prevista per lo stesso lavoro svolto da una persona assunta con contratto a tempo indeterminato (nel caso dei bancari, il salario degli assunti con contratto di apprendistato è inferiore del 18%). In alcuni casi, come ci è stato spiegato dai compagni della FILCTEM e della FISAC, si cercano delle modalità per evitare che quello dell'apprendistato, assieme ad altre forme contrattuali che prevedono un salario in entrata inferiore, vada a costituire un vero e proprio “secondo regime”. Tra queste, le più comuni sono senza dubbio le varie forme di staffetta intergenarazionale (nel caso del settore chimico-tessile, previste nel “Progetto ponte”): si prevede che la stipulazione di contratti part time per favorire l'entrata nell'azienda di nuovi giovani sia accompagnato dalla firma dello stesso da parte di lavoratori prossimi alla pensione. Non sfuggono, ovviamente, le difficoltà che si accompagnano a questo. In primo luogo, è fondamentale che, soprattutto l'approvazione della legge Fornero sulle pensioni, pubblico e privato si accordino su come coprire le differenze di salario di coloro che prima della pensione accettano un part time: con un sistema pensionistico contributivo come il nostro, sarebbe altrimenti impossibile convincere i lavoratori vicini alla fine della propria carriera ad accettare un contratto che preveda meno ore di lavoro e quindi un salario più basso. Inoltre, è fondamentale che il sindacato svolga un ruolo forte ed impedisca che ci siano contrattazioni individuali tra singolo lavoratore e datore: facile intuire con quale velocità si potrebbe arrivare a degenerazioni per le quali, ad esempio, un padre potrebbe accettare un part time pur di dare un lavoro al figlio.
Ci sono altri meccanismi finalizzati ad evitare la formazione di doppi regimi salariali. Il contratto nazionale dei bancari, ad esempio, prevede un contributo di 2500 euro per le aziende che regolarizzano i lavoratori: esiste un a clausola di solidarietà che prevede che parte del fondo utilizzato per elargire questo contributo sia preso dagli stipendi dei top managers. Altro esempio è la clausola prevista dal contratto nazionale firmato anche dalla FILCTEM lo scorso anno e che prevede che un'azienda del settore chimico-tessile possa stipulare nuovi contratti di apprendistato solo nel caso abbia regolarizzato il 60% di quelli stipulati nell'anno precedente.
Tutti questi meccanismi di aggiustamento, per quanto siano importanti al fine di evitare una degenerazione del sistema, non riescono comunque a risolvere il problema. Resta il fatto che il 90% dei ragazzi che vengono assunti da un'azienda hanno un contratto a tempo determinato. Il dato porta un sindacato come la CGIL a porsi una serie di domande fondamentali. Sono circa quindici anni che, di pari passo con il processo di “flessibilizzazione” del mondo del lavoro, viene di fatto tollerata la formazione di regimi salariali differenti, che spesso sono anche più di due (non è difficile crederci ricordandosi che la legislazione italiana prevedere 46 diverse forme contrattuali). Il primo problema con cui si scontra la CGIL parlando di superamento dei doppi regimi è come fare per condividere la redistribuzione dei diritti. La battaglia da fare per i diritti dei neo assunti, per fare in modo che uno stesso lavoro sia retribuito sempre allo stesso modo, a prescindere da chi lo svolge, in un periodo di crisi nel quale il primo dei problemi è la mancanza di crescita, comporta automaticamente che dei piccoli sacrifici vengano sopportati anche da coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato da tempo. Prendiamo ad esempio la staffetta intergenerazionale: perché un lavoratore prossimo alla pensione dovrebbe accettare di lavorare meno per fare spazio ai nuovi? La CGIL si ritrova così a fare i conti con una realtà in cui ci sono, di fatto, due “classi” di lavoratori: quelli che si affacciano nel mondo del lavoro e che hanno davanti a loro la lotta per la regolarizzazione del contratto e dall'altra quelli che oramai lavorano da tempo e che dovrebbero accettare un piccolo sacrificio per provare a dare alle nuove generazioni un futuro. Il punto è che, al momento, la CGIL rappresenta i vecchi lavoratori: sono coloro quelli che stanno nelle RSU e che rinnovano ogni anno la tessera. Questa constatazione ci porta direttamente al secondo problema: quello della democrazia sui luoghi di lavoro. Crediamo davvero che il sottoporre un contratto al referendum dei lavoratori sia sempre la soluzione migliore? Un contratto che prevede una staffetta intergenerazionale senza alcun incentivo per i lavoratori anziani ad accettare un part time, verrebbe votato? Se siamo tutti d'accordo sul fatto che la redistribuzione dei diritti vada condivisa, credo sia il caso di affermare che il sindacato debba assumersi la propria responsabilità e prendere decisioni che potrebbero non essere il riflesso diretto degli interessi degli iscritti storici ma che tentano di avvicinare le nuove generazioni, in nome dell'equità e della distribuzione dei diritti. Credo che continuare ad agire senza tenere conto delle trasformazioni che la società ha subito negli ultimi trent'anni sia un errore imperdonabile: la crisi e la particolare situazione del Paese hanno fatto sì che la società di oggi sia in gran parte segnata dall'individualismo. Credere che i lavoratori, per qualche motivo, siano diversi e che quindi si possa fare ciecamente affidamento sul fatto che prenderanno decisioni basandosi su considerazioni diverse dall'utilità personale è sciocco. Il sindacato deve assumersi la responsabilità delle scelte e delle battaglie che ritiene importanti.
Questo comporterebbe tutta una serie di benefici. Oltre all'assunzione del ruolo più profondamente politico del sindacato, che ne farebbe un'organizzazione che effettivamente partecipa alla creazione di benessere sociale, che lavora per un'uguaglianza effettiva tra i lavoratori, la CGIL avrebbe modo di cimentarsi in quella che per essa è la sfida maggiore: la rappresentanza del nuovo mondo del lavoro. L'assunzione della difesa degli interessi dei nuovi lavoratori, che oggi sono effettivamente i più svantaggiati, sarebbe un gesto di lungimiranza dal momento che si andrebbe momentaneamente a scontrare con quelli degli “storici” ma allo stesso tempo riporterebbe alla luce non solo l'effettiva utilità ma anche necessità dell'organizzazione sindacale agli occhi dei giovani, così distanti dalla sua storia e con tanta difficoltà nel coglierne l'importanza. Un sindacato che riesce a rappresentare tutti i lavoratori, questo dovrebbe essere l'obiettivo della CGIL. Fermarsi davanti alle divisioni del mondo del lavoro, inoltre, restringe l'ottica con cui si affrontano le cose, anche da parte dei lavoratori: se si avvalla l'idea che il problema sia il dover accettare un piccolo peggioramento della proprio situazione in cambio di un avanzamento generale dei lavoratori, si perde di vista quella che è la questione vera, ovvero la crescita. Se a causa delle politiche di austerity con cui, effettivamente, si è scelto di affrontare la crisi economica non si può aumentare il debito pubblico per fare investimenti, se lo Stato non paga le aziende a cui commissiona lavori, se non ci sono commesse che permettono di far ripartire la produzione, la discussione su chi debba accettare il contratto part time all'interno dell'azienda diventa decisamente futile. E solo un sindacato estremamente rappresentativo riesce ad imporre questo livello di riflessione.
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