L’aquila e la croce: il Sacro Romano Impero e i suoi limiti
L’Europa medievale è un affresco meraviglioso ricco di personaggi fondamentali per la storia europea e mondiale. Un periodo segnato dalla costruzione: si gettano le basi del pensiero politico europeo, delle strutture sociali, delle strutture politiche per i secoli successivi. Per troppo tempo additato come un periodo buio dalla tradizione storiografica illuminista e soprattutto ottocentesca, abbagliati dai miti della modernità e del progresso. Secoli di miti e di orizzonti immaginari che sono giunti sino a noi, grazie ai grandi uomini di cultura di quel tempo che si sono lasciati sedurre da quest’ultimi.
Di voucher e mercato del lavoro (a dieci mani)
La memoria rischia di essere sempre un ottimo motivo per sfuggire al presente, sviare responsabilità e giustificare azioni altrimenti opinabili. Lo studio del passato rientra in una cultura umanistica fraintesa, dove gli eventi vengono poco valorizzati e spesso celebrati, a partire da un centenario della Rivoluzione d'Ottobre in cui molti bramano di poter essere in Piazza Rossa, mentre pochi rifletteranno in modo efficace sulla sua attualità. La differenza tra celebrazioni ed anniversari è sottile, secondo un professore fiorentino di storia contemporanea: si gioca sulla distanza tra il ricordo di qualcosa di morto e la valorizzazione di processi ancora in corso.
Articolo di Calogero Laneri tratto dal numero cartaceo Sinistra ed Europa: un arapporto complesso, consultabile qui
Il Partito Comunista Italiano e il processo di integrazione europea: Una ricostruzione storica
La fine del secondo conflitto mondiale determinò una rapida crisi della già instabile solidarietà antinazista sulla quale si era fondata l’alleanza tra il blocco americano e quello sovietico. L’irrigidirsi dei rapporti tra le superpotenze mondiali causò l’affermarsi di un bipolarismo a cui i singoli Stati europei furono costretti ad adattarsi, armonizzando la propria politica estera con quella della potenza di riferimento. La divisione in blocchi si replicò anche all’interno dei singoli Paesi, dando vita ad una polarizzazione nella quale attori erano, da un lato le forze social-comuniste e dall’altro quelle liberal-democratiche, laiche e cattoliche.
di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo
Identità irlandese: dalle origini ad oggi
«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi
«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger
Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.
Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.
L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.
Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.
Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.
Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.
Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.
Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.
Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.
L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).
Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.
Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.
LE FACOLTÀ DEL POTERE
Call For Papers
1 dicembre 2016
Proponente: Associazione Il Becco con il sostegno dei fondi del DSU Toscana destinati alle attività studentesche
Scadenza candidature: Domenica 20 Novembre 2016
Informazioni/contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Keywords: potere, soft power, hard power, società, politica
La colonizzazione della Siberia venne utilizzata come “contenitore etnico” per molti dei gruppi nazionali deportati, un’operazione che ufficialmente era un proseguimento dell’opera di industrializzazione del paese ma nei fatti si trattò di una condanna all’isolamento e una lotta durissima contro gli stenti e la fame. L’utilizzo delle deportazioni organizzate dallo stato centrale seguendo le direttive di Stalin fu uno strumento per rimediare al caso generato dal repentino cambio della politica nei confronti delle nazionalità e delle esigenze economiche legate alla realizzazione dei piani quinquennali. Stalin vedeva nell’affermarsi in Europa del regime nazista in Germania, dello stato fascista in Italia e nella vittoria di Franco nella guerra civile spagnola i segnali di un imminente conflitto e cambiò radicalmente la politica interna, inasprendo la repressione del dissenso interno al partito e nella popolazione. Era necessario accelerare l’industrializzazione attraverso le requisizioni e combattere con ogni mezzo l’arretratezza delle regioni orientali dello stato sovietico. Inoltre, con il riaffermarsi del carattere nazionale russo, pose le basi per il sentimento patriottico russo sovietico che avrebbe accompagnato l’Unione Sovietica nel conflitto mondiale, alimentando così il fattore decisivo della Guerra Patriottica estremamente fondamentale per la vittoria sovietica.
Dopo essere stato presentato a Roma, presso la Farnesina, lo scorso 6 aprile, anche a Parma, il 27 dello stesso mese, si è tenuta l'illustrazione dell'Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (www.straginazifasciste.it).
L'iniziativa è stata organizzata dall'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea della città ducale, ed ha visto la partecipazione del prof. Paolo Pezzino, docente all'Università di Pisa e direttore scientifico del progetto; di Massimo Storchi, Responsabile del polo archivistico dell'Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia, e del ricercatore Tommaso Ferrari, curatore delle schede riguardanti la provincia di Parma.
L'Atlante, nato grazie al contributo di storici, ricercatori ed enti, intende porsi come voce, nel web, del grande lavoro di documentazione portato avanti dagli Istituti Storici dell'Italia centro-settentrionale sulle stragi compiute dalle forze di occupazione tedesche, e dai collaborazionisti italiani, durante la Guerra di Liberazione Nazionale.
Nel proprio intervento il professor Pezzino ha sottolineato come l'Atlante - frutto di due anni di lavoro di 115 ricercatori - sia un work in progress, destinato ad arricchirsi sulla base di segnalazioni di nuovi eventi, di errori, o mediante nuovi dati, forniti da utenti, studiosi, enti e comunità locali.
La ricerca è stata finanziata dalla Repubblica Federale Tedesca, come risposta al rifiuto di corrispondere indennizzi ai familiari delle singole vittime dei fenomeni stragisti compiuti dalle truppe tedesche nel nostro Paese tra il 1943 ed il 1945.
Da un punto di vista metodologico, l'innovazione portata da questo progetto, consiste nell'aver incluso tra le stragi anche le singole uccisioni e non solamente quelle definite, propriamente, come tali. Una innovazione che consente di avere un panorama più ampio e dettagliato della violenza nazifascista perpetrata contro civili e partigiani - e qui sta l'altra novità - disarmati. Oltre ai civili propriamente detti, infatti, sono stati inclusi tutti gli episodi che hanno visto vittime partigiani che si erano arresi e che, contrariamente a quanto prevederebbero le leggi di guerra, non avevano alcun riconoscimento ufficiale di combattenti, e le conseguenti garanzie che da tale status derivano. Esclusi dalla ricerca sono state, invece, le vittime di episodi non afferenti a rappresaglie e rastrellamenti, come i caduti a causa di bombardamenti o mine.
Importante sottolineatura è presente già nel nome del progetto. Il “naziste e fasciste” non è infatti casuale, ma intende evidenziare una autonomia stragista presente nelle truppe e nei singoli combattenti della RSI. Una vocazione stragista spesso prescindente dalle azioni dell'alleato.
Gli episodi censiti sono stati 5.428 per un numero totale di vittime di 23.461. Tra le regioni con più caduti vi sono l'Emilia Romagna (4.213) e la Toscana (4.465), le due regioni più prossime alla Linea Gotica e che per tale ragione più soffrirono della violenza dell'occupazione. Terza regione per numero di vittime il Piemonte, con 2.792 caduti, per oltre il 50% partigiani; seguito da Veneto, 2.383 caduti, e Campania, con 1.409 uccisioni. Dato, quello campano, che dà una misura della violenza a cui si lasciarono andare le truppe germaniche, anche quando non si trovarono ad affrontare un movimento partigiano organizzato (i caduti campani saranno, infatti, quasi tutti civili). Altro dato importante, per numero di caduti, riguarda il Friuli, dato che va completato, per avere una visione d'insieme, con le vittime nelle zone annesse dall'Italia e che oggi sono sotto sovranità slovena e croata.
Proseguendo nell'illustrazione dei dati principali, si hanno 2.725 episodi con singole uccisioni; 2.215 stragi con un numero di morti compreso tra i due ed i nove; 434 stragi con da 10 a 49 vittime; 40 con un numero di vittime tra le 50 e le 99 ed, infine, 14 stragi con oltre cento caduti.
Cronologicamente i picchi stragisti si sono verificati nell'autunno del 1943 (quindi sin dai primi passi compiuti dal movimento partigiano nella Guerra di Liberazione Nazionale) e nell'estate del 1944. Dopo un primo calo nel numero del vittime, di nuovo si ha un aumento del numero dei crimini a danno di persone disarmate nell'ultima parte della guerra, causato dalle truppe in ritirata (sia per motivi di natura strategica sia per il verificarsi di vendette e fenomeni dovuti a frustrazioni per la sconfitta ormai imminente).
Percentualmente la maggior parte degli episodi censiti hanno riguardato rastrellamenti (il 30%), seguiti da rappresaglie (17%), fatti afferenti la ritirata delle truppe (13%) e motivi punitivi (10%). Tra i reparti tedeschi che più hanno contribuito a questo macabro elenco la 16ª Divisione Panzergrenadier delle SS.
Per quanto concerne le modalità, la maggioranza delle uccisioni (il 38%) sono avvenute mediante fucilazione. Continuando tra i dati forniti da Pezzino nel proprio intervento, circa gli autori delle stragi si ha un 61% degli episodi (con il 64% delle vittime) di cui si resero protagoniste le truppe naziste; il 19% compiuti da militi della RSI (che hanno provocato il 12% delle vittime) ed il 14% (ed il 20% delle vittime) delle stragi operate congiuntamente dalle due forze.
Per quanto afferisce alla tipologia delle vittime ai primi posti si hanno 12.581 civili; 6.776 i partigiani arresi o comunque disarmati; 371 persone legate ai partigiani; 212 disertori; 888 appartenenti ad altre categorie (religiosi, carabinieri etc.); 357 antifascisti.
Il 68% delle vittime era nella fascia d'età compresa tra i 17 ed i 55 anni e l'81% erano uomini.
Altri dati, estremamente dettagliati, ed illustrati strage per strage, sono presenti sul portale, e ad essi è garantito il carattere scientifico dall'importante lavoro di controllo effettuato sugli stessi.
Secondo ad intervenire il ricercatore Tommaso Ferrari, curatore delle schede parmensi del portale, che ha illustrato i fatti (117 per un totale di 414 vittime) avvenuti nel territorio parmense dal febbraio del 1944 all'aprile del 1945.
Primo episodio di rappresaglia che colpì la provincia fu quello del primo febbraio 1944, avvenuto per ritorsione rispetto alla morte di un fascista ucciso da un bomba in un bar il giorno prima, e costò la vita a tre persone: tra esse l'antifascista Tommaso Barbieri.
Gli ultimi episodi che insanguinarono la provincia sono avvenuti nella coda degli eventi bellici, nella cosiddetta “sacca di Fornovo”, il 27 aprile 1945, e videro come matrice delle stragi le truppe tedesche in ritirata. Saranno nel complesso 82 le vittime parmensi di rappresaglie tra il 24 ed il 27 aprile 1945. Quasi tutte queste uccisioni si situano tra Fornovo, Salsomaggiore ed il Po, lungo la direttrice seguita dalle truppe tedesche in ritirata.
Altro fenomeno di cui fu vittima la provincia di Parma, insieme a quella di Reggio, fu la cosiddetta Operazione Wallenstein, mirante a rastrellare lavoratori da destinare al lavoro coatto (saranno 1.800 le persone catturate tra Reggio e Parma tra la fine di giugno e quella di luglio del 1944).
Ultimo intervento quello dello storico Storchi, il quale ha sottolineato l'importanza dell'analisi di questi dati. In particolare di grande importanza sono episodi “piccoli” - che nel reggiano hanno lasciato sul terreno più vittime delle stragi maggiormente note: Cervarolo e Bettola - per comprendere la diffusione della violenza stragista perpetrata dagli occupanti, sottolineando l'autonomia stragista delle truppe della RSI, spesso non benvista, per motivi non umanitari ma di natura tattica, dagli stessi comandi tedeschi.
Autonomia fascista che si manifestò anche nella tipologia dei saccheggi, non legati soltanto a necessità alimentari, ma che si caratterizzarono spesso come vere e proprie razzie, con successivo incendio delle case.
In conclusione l'Atlante rappresenta una fonte preziosa ed un'utile sistematizzazione di una grande quantità di informazioni sulla violenza stragista che colpì l'Italia tra il '43 ed il '45, ed è destinato non solamente a ricercatori e storici, ma anche a scuole, enti locali, per iniziative legate alla memoria storica ed in generale all'opinione pubblica del nostro Paese.
Il professore Rossi continua il viaggio tra gli scandali, i vizietti e le vicende erotiche delle corti francesi e passa a introdurre la figura del sovrano più sottaniere e dedito all’ars amatoria, vale a dire, Enrico IV (1518-1610). Il re è passato alla storia per essere uno dei più magnanimi nei confronti dei sudditi (tanto da accaparrarsi il nomignolo di “bon roi”) e anche come uno dei più anti-conformisti rispetto alla rigida disciplina, privata e pubblica, dell’epoca: si faceva ritrarre in posizioni buffonesche con i figli, sia maschi che, cosa straordinaria, con le femmine (vi sono quadri che lo rappresentano a gattoni con in groppa i bambini), si fa chiamare “papà” da loro..insomma aveva delle maniera che potevano risultare abbastanza anti-convenzionali per le regole reali del tempo. Enrico però non era altrettanto un emblema di purezza, candore e integrità dal punto di vista morale e di comportamento sessuale. Era, perdonatemi il termine, un vero e proprio “puttaniere”, anche se si innamorava sinceramente di tutte le amanti che ha avuto (tante!).
L’associazione Fil Rouge nasce nel 2014 con l’obiettivo principale di diffondere la lingua e la cultura francese. Essa è nata grazie all’idea e all’impegno di alcune docenti – di lingua francese – delle scuole medie e superiori dell’empolese Valdelsa. Una delle iniziative più riuscite e interessanti è una rassegna di incontri culturali, dall’eloquente titolo “vive la France”, avviata il 3 dicembre e che si tiene ogni giovedì del mese nel Nuovo Museo della Ceramica di Montelupo. Il ciclo di conferenze, nato grazie alla sinergia della suddetta associazione, del Comune di Montelupo, dell’associazione “L’ottavo nano” e del Caffè Mmab dentro il museo, ci porta a scoprire il fascino della letteratura, della storia, dell’arte, della moda e della terra francesi. Un giovedì al mese professori e professoresse ci accompagnano dentro i segreti e le storie della patria dell’illuminismo. Giovedì 3 marzo, Luca Rossi, professore di francese del liceo linguistico Virgilio di Empoli ha tolto un po’di veli (è il caso di dirlo) sulle vicende erotiche dei sovrani francesi all’epoca dell’Ancien Régime. Ovviamente il professore ha dovuto fare una selezione dei vizietti extraconiugali dei regnanti, perché in 15 secoli di monarchia le sottane delle amanti dei sovrani sarebbero state troppe, per poter esser “sollevate” tutte!
È possibile raccontare la Prima Guerra Mondiale togliendosi gli occhiali della retorica? Di ogni retorica?
È ciò che hanno provato a fare i due giornalisti Valerio Gigante e Luca Kocci e lo storico Sergio Tanzarella nel loro “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi, 2015, 162 p., € 13,90).
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