Questo schema si impose in particolar modo in Italia, a causa della sua posizione geopolitica e per la presenza del più grande partito comunista dell’Europa Occidentale. Il Partito Comunista Italiano operò, dunque, in un contesto internazionale bipolare, conformando le proprie posizioni, pur con le peculiarità caratteristiche della «via italiana al socialismo», alla linea moscovita. In questa prima fase - che Carlo Giuseppe Cirulli definisce di antieuropeismo acritico/ideologico1 - per i comunisti italiani l’integrazione comunitaria appare come un mero aspetto della politica americana in Europa. In tale elaborazione viene aprioristicamente meno ogni distinzione tra i concetti di europeismo e atlantismo. Seguendo questa impostazione, i comunisti italiani si opposero fermamente al Piano Marshall, identificando nell’iniziativa statunitense il primo passo verso la «divisione dell’Europa in due blocchi»2. Come affermerà Nilde Jotti, ripercorrendo, nel 1995, il lungo percorso compiuto dai comunisti italiani nelle istituzioni europee: «La prima cosa di cui si parlò in tema di europeismo fu la famosa CED. La Comunità Europea di Difesa era un poco la riproduzione, sul piano europeo, del Patto Atlantico. […] In quel periodo noi pensavamo (e del resto le cose andavano così) che vi fosse un’azione da parte dell’America e dei suoi alleati europei per ricacciare indietro le nostre posizioni, che ci eravamo conquistati durante la guerra di Liberazione. Pensavamo che dietro questa azione ci fosse il tentativo di ricacciare indietro noi e l’Unione Sovietica»3.
L’impossibilità a sostenere una qualsivoglia forma di integrazione tra Paesi sino a che non si fosse giunti ad un nuovo e superiore ordine sociale, rappresentò dunque un punto cardine della linea del Pci, come ribadito dallo stesso Togliatti in occasione della discussione parlamentare sulla ratifica ed esecuzione dello Statuto del Consiglio d'Europa: «Solo attraverso la trasformazione socialista della società poteva essere raggiunta l’unificazione del mondo economico e quindi del mondo politico e sociale europeo»4.
Coerentemente con questa lettura delle relazioni internazionali, il Pci osteggiò tutte le successive iniziative volte all’integrazione comunitaria, a partire dalla costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Lo storico leader della CGIL Giuseppe Di Vittorio, intervenendo alla Camera dei Deputati, evidenziò i rischi per l’industria siderurgica italiana sino ad alimentare il sospetto che alla base del lavoro condotto per la costituzione della Comunità vi fosse «l’intendimento di accelerare gli armamenti ed i preparativi di guerra»5. L’iniziale categorico rifiuto dei comunisti italiani al processo di integrazione economica europea, può apparire viziato unicamente da una concezione ideologica, tuttavia, esso teneva anche conto dei gravi rischi, potenziali ed effettivi, a cui il sistema industriale italiano appariva esposto a causa del processo di integrazione. Il deputato comunista Giolitti ebbe modo di affermare che «l’iniziativa della CECA era vista come una operazione non solo di stampo capitalistico, ma peggio ancora: l’Italia appariva come la Cenerentola che pagava nell’accordo tra i due grandi (Francia e Germania). […] A livello economico sembrava evidente che l’Italia ci rimettesse, essendo l’anello debole della catena»6.
Alla posizione di «condanna netta e rifiuto»7 nei confronti del processo di integrazione economica europea, tuttavia, si venne gradualmente sostituendo una forma di prudente indifferenza, in parte riconducibile alle difficoltà vissute dal processo di integrazione europea in quegli stessi anni.
Seguendo la distinzione proposta da Cirulli, nella seconda fase del rapporto del Pci con l’Europa si registra, accanto ad elementi di continuità con la prima fase, l’emergere di nuovi orientamenti. Pur rimanendo nel solco dell’antieuropeismo, si iniziò a riconoscere la necessità di confrontarsi con la realtà comunitaria8. Tra gli esponenti di maggior rilievo, capaci di anticipare con la propria riflessione, una evoluzione della linea politica del Pci, Bruno Trentin9, fu tra quelli che maggiormente criticò l’aprioristico rifiuto del Partito Comunista Italiano al confronto con la realtà di fatto rappresentata delle istituzioni europee. All’interno del saggio La situazione economica italiana e la lotta del movimento operaio contro il capitalismo monopolistico di Stato, il dirigente sindacale affermò che di fronte al processo di integrazione la classe operaia non poteva rimanere indifferente e nemmeno limitarsi ad assumere certe posizioni di principio, «pur giuste e necessarie»10.
A livello internazionale, contemporanei stravolgimenti nei rapporti interpartitici del blocco sovietico segnano il nascere di una nuova stagione anche ad Est della linea Stettino-Trieste. La decisione sovietica di sciogliere il Cominform e la simultanea esperienza eterodossa jugoslava, agevolarono vie nazionali di superamento del capitalismo e tra esse quella italiana.
Tale elaborazione sublimava l’elaborazione di un modello politico distinto da quello del socialismo sovietico e pertanto adattabile alla più articolata realtà dell’Occidente. Parallelamente a tali mutamenti internazionali, in Italia, si aprì una nuova stagione di studi economici promossi dall’Istituto Gramsci. Tale processo, positivamente influenzato dal clima di distensione stimolato dal XX Congresso del PCUS, subì un improvviso rallentamento a causa dei fatti d’Ungheria e del ristabilirsi di una certa «ortodossia» sulle regioni orientali europee. Nonostante questa battuta d'arresto, a partire dal gennaio del 1957 si registrarono svariate prese di posizione, indice di un più consapevole dibattito in seno al Partito. Su l’Unità, Alfredo Reichlin11, pur collocandosi su posizioni critiche nei confronti del percorso comunitario, si interrogò sui temi dell’europeismo e dell’atlantismo, dichiarando che la soluzione di tale dualismo stava nella «capacità della classe operaia e dei suoi partiti di far proprio il problema dell’Europa, di incorporare l’esigenza di uno sviluppo delle forze produttive europee nel proprio programma di transizione, di non chiudersi in uno sterile atteggiamento di opposizione preconcetta»12.
L’affermarsi di una più complessa visione del processo di integrazione europea si palesò anche all’interno degli organi di partito: la Direzione impiegò ben tre sedute - caratterizzatesi per il complesso tentativo di esprimere una linea in grado di vivificare concretamente le possibilità offerte dalla «via italiana al socialismo», pur non allontanandosi dal restante movimento comunista internazionale - per definire la posizione da assumere in merito all’istituzione della CEE e dell’Euratom. Nella relazione, la cui stesura fu affidata a Velio Spano13, si invitava a seguire l’evoluzione del processo comunitario, riconoscendo la reale esigenza dei trattati, rifiutando un’opposizione preconcetta e proponendo alcuni principi correttivi14. Occorreva dunque evitare che il Pci cadesse in un’opposizione pregiudiziale, quale quella adottata dal PCF che, informalmente, aveva proposto al Pci di caratterizzarsi per la medesima linea. Il documento, pertanto, segna, seppur timidamente, un primo passo in una maturazione della linea politica comunista rispetto al tema europeo. Nei mesi successivi il Pci impegnò le proprie energie in un più approfondito studio delle trasformazioni economiche legate al processo di integrazione europea, elaborando nuove e originali interpretazioni dei fenomeni continentali. Maggiore ispiratore di questo corso fu Giorgio Amendola, promotore - grazie all’importante contributo rappresentato dai lavori del CeSPE15 - di un riesame degli effetti dell’integrazione economica. Difatti, sebbene le resistenze riguardo al tema europeo erano ancora largamente radicate nel Pci, era ormai palese come l’integrazione comunitaria non avesse prodotto la catastrofe economica inizialmente pronosticata.
Tale acceso dibattito, a partire dalla fine degli anni cinquanta, rese evidenti le affinità tra il Partito Comunista Italiano ed i componenti della famiglia della cosiddetta «sinistra europea». I comunisti italiani, consapevoli delle comuni sensibilità, su alcuni temi chiave, con alcune forze del mondo socialdemocratico e socialista, erano, altresì, coscienti delle difficoltà legate al rafforzamento dei rapporti con organizzazioni esterne al movimento comunista internazionale: il processo comunitario rappresentò, per il Pci, un'opportunità per rafforzare tali legami. Nel dicembre del 1959 il settimanale socialista «Mondo Nuovo» interrogò alcuni politici italiani sul tema della «sinistra europea». Giorgio Amendola, chiamato a rappresentare il Pci, si mostrò fiducioso nel comprendere, all’interno di tale raggruppamento politico, l’intero movimento operaio16. La morte di Togliatti e l’elezione di Luigi Longo alla segreteria, favorirono l’attenuazione di alcune rigidità ideologiche che fino a quel momento avevano determinato, in larga parte del gruppo dirigente, la dogmatica osservanza della linea sovietica. Nella trasposizione, anche a livello europeo, di una linea rigidamente parlamentarista, si colloca la rivendicazione maturata in questa fase per la democratizzazione del Parlamento europeo, istituzione dal quale continuavano a essere discriminati i partiti e i sindacati della famiglia socialcomunista. Nel corso degli anni sessanta, importanti avvenimenti nazionali e internazionali, favorirono una ulteriore maturazione dell’elaborazione politica del Pci rispetto al tema comunitario.
È in questo periodo che si afferma la terza fase del rapporto tra il Pci e l’Europa che segna il passaggio dall’antieuropeismo all’europeismo. Benché continuarono a registrarsi episodi controversi, il fine ultimo della distruzione della «piccola Europa» venne abbandonato a favore di una nuova strategia, volta a riformarla dall’interno17. L’affermarsi - dapprima come vicesegretario e dal 1972 come Segretario - della figura di Berlinguer, la conferenza di Karlovy Vary e la Primavera di Praga, spinsero il Partito a rivedere il proprio rapporto con l’intero movimento comunista internazionale, avviando un graduale processo di ricollocamento mirante ad affiancare l’appartenenza al movimento comunista internazionale con un più stretto rapporto di collaborazione con la famiglia socialista europea. A partire dagli anni Settanta, il Pci sviluppa un discorso pubblico sul tema europeo, distanziandosi da Mosca, senza, tuttavia, teorizzare un passaggio nel campo delle socialdemocrazie18. Questo complesso quadro teorico, velleitario nella pratica, che assunse il nome, con Berlinguer, di «terza via» si poneva come un ambizioso progetto di ridefinizione del carattere stesso di socialismo, affrontando con forza il tema della democrazia, una democrazia intesa però in senso più ampio rispetto alla classica visione dei sistemi liberal-democratici.
Tappa fondamentale dell’evoluzione ideologica del Pci fu la conferenza dei partiti comunisti europei di Karlovy Vary, nella quale Longo ribadì la necessità dell’autonomia dei partiti comunisti. Un anno più tardi, nell’agosto del 1968, il controverso comunicato stampa con cui il Pci criticava l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, segnò il più evidente momento di dissenso nei rapporti tra Mosca e Botteghe Oscure e, contemporaneamente, «un primo passo verso la ricerca di nuovi orizzonti politici»19.
L’ingresso di sette deputati comunisti nel Parlamento europeo l’11 marzo 1969, simboleggiò inoltre uno dei momenti cruciali della storia dei comunisti italiani nelle istituzioni europee, consentendo l’effettiva partecipazione dei comunisti italiani all’interno della principale istituzione dell’Europa occidentale. In questi anni si registra un forte protagonismo del CeSPE, il cui lavoro consegnerà al Pci quel contributo teorico-ideologico che segnerà il passaggio dall’antieuropeismo critico all’europeismo critico.
Dal 1969 in poi, difatti, l’atteggiamento del Partito nei confronti delle istituzioni europee mutò sensibilmente: da ostacolo sul cammino per la distensione, la CEE si trasformò in strumento essenziale per il raggiungimento di una politica internazionale di pace. Nel cambio di prospettiva sul ruolo strategico della CEE risultano centrali due elementi. In primo luogo si accettò pienamente - ed è questo l’elemento peculiare che segna il passaggio dall’antieuropeismo critico all’europeismo critico - l’idea della riformabilità delle istituzioni comunitarie. In secondo luogo, la strategia impiegata dal Pci al fine di favorire i processi di distensione internazionale, superò l’acritica adesione alla politica estera sovietica per affiancarla con le elaborazioni e le proposte provenienti dal campo socialista.
Questo nuovo corso, però, non poteva rimanere circoscritto nell’ambito del gruppo dirigente centrale ma doveva estendersi alla periferia del Partito. Il lavoro di stesura di un complessivo quadro ideologico sul tema europeo, destinato ai militanti, fu affidato a Giorgio Amendola che, nel 1971, scrisse “I comunisti e l’Europa” 20. Nel testo, il dirigente comunista illustrava il funzionamento degli organismi CEE e la strategia del Pci nei confronti di tali istituzioni. L’opuscolo, sostanzialmente un documento programmatico, spazia da temi di politica economica, a questioni legate alla politica scientifica, sociale e industriale. Grande rilievo è dedicato, altresì, ai rapporti tra la Comunità e le due superpotenze. Contemporaneamente alla pubblicazione del testo di Amendola, il CeSPE organizzò un importante convegno per discutere circa le posizioni comuniste sull’Europa. Un anno più tardi, nel 1972, il neosegretario Enrico Berlinguer, impegnato alla Camera nella discussione sulla fiducia al governo Andreotti, all’interno del proprio intervento articolò una riflessione che da lì a poco diventerà parola d’ordine del Partito: «Si tratta ora di partire da presupposti del tutto nuovi. Il processo di unificazione europea deve dunque, per andare avanti, proporsi anzitutto di assicurare una posizione che sia insieme di piena autonomia e di cooperazione, su basi di eguaglianza, tanto nei confronti degli Stati Uniti quanto nei confronti dell’Unione Sovietica»21.
Con l’elezione e l’affermarsi delle posizioni di Berlinguer si determinerà quindi l’abbandono dell’idea di Europa dall’Atlantico agli Urali, concepita trent’anni prima da Togliatti, in favore della nuova idea di un’Europa «né antisovietica né antiamericana»22, in grado di assolvere ad una funzione di pacifica coesistenza tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica e, tra esse, e i Paesi sottosviluppati.
L’idea del Pci di un’Europa entità terza rispetto alle due grandi superpotenze, trovò applicazione nel luogo politico maggiormente rappresentativo dell’Occidente europeo, ossia la CEE.
Tale posizione di approccio collaborativo si concretizzò nel 1975 quando, tra lo stupore dell’assemblea di Strasburgo, gli eurodeputati comunisti italiani votarono in favore dell’approvazione della Convenzione di Lomé23. Oltre che sul piano dei rapporti con i Paesi del Terzo mondo, i rappresentanti del Pci al Parlamento europeo indirizzarono la propria attività nei più diversi settori: dall’elezione diretta del Parlamento europeo, alle politiche regionali a quelle agricole, fino alle iniziative antifasciste contro i regimi di Franco, di Salazar e dei Colonelli.
Al contempo maturò l’idea di proporre un nuovo socialismo per l’Europa occidentale, direzionando l’azione del Partito nella ricerca di collaborazione autonoma con gli altri partiti comunisti dell’Occidente. Tale lavorio sfociò, nel 1974, nella Conferenza di Bruxelles dei partiti comunisti dei Paesi capitalisti d’Europa. In tale assise, in cui si registrò un grande protagonismo di Giorgio Amendola - ormai comunemente considerato «leader simbolo dell’europeismo comunista»24 -, il Pci tentò di avvicinare i partiti comunisti occidentali alle proprie posizioni. Nonostante i positivi risultati raggiunti dalla Conferenza, l’obiettivo del Pci non venne mai raggiunto. In quella sede, però, emerse la tendenza a procedere comunemente con il PCF e il PCE: è l’avvio dell’eurocomunismo, elaborazione che occupò tutto il dibattito politico degli anni sessanta ma, pur dimostrandosi suggestiva, non si trasformò mai un progetto politico concreto.
Nella seconda metà degli anni sessanta, il Pci si configura, dunque, come un’organizzazione politica che ha compiuto la scelta dell’Europa, impegnandosi attivamente all’interno delle istituzioni comunitarie e lavorando - pur non sconfessando l’appartenenza al movimento comunista internazionale - alla costruzione di rapporti privilegiati con le forze socialiste e socialdemocratiche dell’Europa occidentale. Le valutazioni con le quali il gruppo dirigente colloca il Partito tra forze chiaramente favorevoli al processo di integrazione europea (distanziandosi ad esempio dai comunisti francesi), conquistarono l'approvazione di Altiero Spinelli, commissario CEE e punto di riferimento imprescindibile del federalismo europeo. L’interesse di Spinelli nei confronti del nuovo corso comunista25, si concretizzò con le dimissioni da commissario e la candidatura come indipendente nelle file del Pci alle elezioni politiche del 1976, con l’accordo che, alla prima occasione disponibile, il Partito avrebbe designato Spinelli a rappresentare i comunisti italiani a Strasburgo.
Nell’ambito di questo atteggiamento dei comunisti verso l’Europa, si colloca il voto favorevole, nel 1977, alla dichiarazione comune sulla politica estera. Nel documento, si esprime «Apprezzamento per gli indirizzi e l’opera del Governo italiano in campo internazionale e nel quadro dell’Alleanza atlantica e degli impegni comunitari, quadro che rappresenta il termine fondamentale di riferimento della politica estera italiana»26.
Nel 1979 il Pci partecipò alle elezioni europee «proponendosi come forza di cambiamento, capace di innescare un rinnovamento in senso democratico della Comunità, verso una nuova forma di potere in grado di rispondere alle sfide che si ponevano all’Europa, sfide che non erano più sostenibili dai singoli Stati nazionali»27. I 18 punti del programma elettorale europeo rappresentarono la concretizzazione elettorale del succitato saggio I comunisti e l’Europa pubblicato da Giorgio Amendola otto anni prima.
L’ormai consolidata visione europeista, complicò il già convulso dibattito sul voto parlamentare sull’entrata in vigore dello SME. Pur non mettendo in dubbio il proprio appoggio all’adozione di strumenti al servizio dell’integrazione comunitaria, il Pci giudicò il Sistema Monetario Europeo come un ostacolo alle riforme economiche italiane che la coalizione di solidarietà nazionale - già entrata in crisi dopo l’assassinio di Aldo Moro - avrebbe dovuto varare. Per tale ragione, nel dicembre del 1978, il Pci si espresse negativamente. È tuttavia indicativo come il Partito, nel motivare il proprio voto, tenne a precisare che l’opposizione allo SME non rappresentava un voto contro l’Europa.
Nelle elezioni del 1979 il Pci elesse 24 parlamentari europei. Il gruppo continuò a distinguersi per quel vivace impegno che aveva sempre caratterizzato l’attività dei comunisti italiani nel Parlamento di Strasburgo. Nel 1980 Berlinguer fu il primo a firmare il sostegno al progetto di riforma degli organi comunitari di manifesta matrice federalista proposto da Spinelli, precedendo addirittura l’adesione di Brandt e Mitterrand. Sottolineando l’inadeguatezza economica, sociale ed in politica estera dei singoli Stati nazionali, nel motivare il proprio voto favorevole al Progetto Spinelli, Berlinguer così si esprimeva: «Noi pensiamo che la causa principale della crisi che colpisce la Comunità e i suoi membri sia costituita dal prevalere di una concezione di corto respiro, che ha portato e porta i governi ad anteporre la difesa dei ristretti interessi immediati a quelli più profondi e duraturi dei loro popoli e dell’Europa occidentale nel suo insieme. […] La dimensione comunitaria è quella adeguata per far fronte con una vera forza economica, politica e culturale alle sfide e alle trasformazioni del nostro tempo»28.
Un anno più tardi, sarà proprio in occasione di una elezione europea, quella del 1984, che il Partito Comunista Italiano raggiunse lo storico risultato del sorpasso sulla Democrazia Cristiana, quasi a suggellare quella che all’epoca appariva come una definitiva ricomposizione del rapporto tra i lavoratori italiani e l’Europa.
1 C. G. Cirulli, La sinistra italiana e
il processo d’integrazione europea: la transizione del Pci attraverso il suo discorso sull’Europa, PhD Program in Political Systems and Institutional Change, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, XXIII Cycle, 2012, p. 4.
2 P. Togliatti, Il Piano Marshall, in «Rinascita», n.6, giugno 1947, p.139. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
3 1969: Una pattuglia di comunisti al Parlamento europeo. Intervista a Nilde Jotti (testimonianza raccolta a Roma il 18 gennaio 1995), in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit., la citazione è nelle pp. 122-123.
4 Atti Camera dei Deputati, serie Discussioni, seduta del 13 luglio 1949, intervento di Palmiro Togliatti, pagina 10314. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
5 Giuseppe Di Vittorio, intervento nella discussione del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dei seguenti accordi internazionali firmati a Parigi il 18 aprile del 1951, Atti Camera dei Deputati, serie Discussioni, seduta del 16 giugno 1952, pp. 38833-38844. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
6 Il PCI prima del ’56, op. cit., p. 80.
7 L’analisi e la tattica. Intervista a Carlo Alberto Galluzzi (testimonianza raccolta a Roma l’8 giugno 1993), in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit., la citazione è a p. 91.
8 C. G. Cirulli, op. cit., p. 63.
9 Segretario generale della FIOM dal 1962 al 1977, segretario generale della CGIL dal 1988 al 1994. Deputato per il Pci nella IV Legislatura della Repubblica Italiana.
10 B. Trentin, La situazione economica italiana e la lotta del movimento operaio contro il capitalismo monopolistico di Stato, in «Critica economica», n.5, ottobre 1956, pp. 79-80. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
11 Storico dirigente comunista, Deputato per il Pci nella V, VI, VII, VIII, IX, X, XI Legislatura della Repubblica Italiana e direttore de «l’Unità» dal 1958 al 1962.
12 Alfredo Reichlin, Il socialismo e l’Europa, in «l’Unità», 29 gennaio 1957. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
13 Membro dell'Assemblea costituente e Senatore nella I, II, III e IV Legislatura della Repubblica Italiana, per un periodo responsabile esteri del Pci.
14 Fondazione Istituto Gramsci, Archivio del Pci, Verbali Direzione, seduta del 14 febbraio 1957. Riportato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
15 Costituito nel 1966 all' indomani dell'undicesimo congresso del Pci, il Centro Studi di Politica Economica ha avuto quale primo presidente Giorgio Amendola.
16 Che cos’è e dove va la sinistra europea, in «Mondo Nuovo», 20 dicembre 1959. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
17 C. G. Cirulli, op. cit., p. 80.
18 M. Maggiorani, P. Ferrari, op. cit. p. 40.
19 Ivi, p. 43.
20 G. Amendola, I comunisti e L’Europa, Editori Riuniti, Roma, 1971.
21 Sconfiggere il governo di centro-destra aprendo la via a una alternativa democratica, in «l’Unità», 6 luglio 1972. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
22 Estratto del rapporto di Enrico Berlinguer al Comitato centrale del 9 febbraio 1973, in «I comunisti italiani e l’Europa. Dichiarazioni documenti interventi», a cura del Segretario del gruppo comunista a Parlamento europeo, p. 3. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
23 La Convenzione di Lomé è stato lo strumento di gestione del partenariato tra Comunità europee/Unione europea e Paesi ACP dal 1975 al 2000.
24 M. Maggiorani, P. Ferrari, op. cit., p. 60.
25 Nel 1937 Altiero Spinelli era stato espulso dal Pci con l'accusa di aver "minato l'ideologia bolscevica, e di essersi trasformato in un piccolo borghese".
26 Cfr. Antonio Rubbi, Il mondo di Berlinguer, Roma, Napoleone, 1994, p.53. Citato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.
27 M. Maggiorani, P. Ferrari, op. cit., p. 66.
28 Atti del Parlamento europeo, serie Discussioni, seduta del 13 settembre 1983. Riportato in M. Maggiorani, P. Ferrari (a cura di), op. cit.