"A caval donato non si guarda in bocca" è diventata la parola d'ordine per troppe persone, che hanno smesso di pretendere quei diritti per i quali negli anni si è tanto lottato e che hanno scordato che si lavora per vivere non si vive per lavorare.
Nei posti di lavoro, qualunque essi siano, si è fatta avanti una mentalità secondo la quale è importante solo produrre, senza guardare a quanto costa quella produzione, anche (e forse soprattutto) in termini di diritti dei lavoratori. Addirittura, come si è appreso recentemente dalla cronaca, è considerato un lusso andare in bagno durante l'orario di lavoro.
Senza arrivare, ma purtroppo ci siamo arrivati, a questi estremi, il lavoro ha modificato il nostro modo di vivere: basti pensare ad esempio al lavoro su turni. Tempo addietro sarebbe parso normale e sacrosanto sapere quando una persona sarebbe dovuta andare a lavorare, e quindi quando avrebbe avuto tempo per sé e per la famiglia. Adesso invece siamo abituati al lavoro a chiamata, che spesso costringe il lavoratore ad accorrere quando 'il capo chiama', spesso con preavviso irrisorio. Che ne è quindi del diritto a una gita fuori porta, al leggere un libro, vedere un film? Del diritto, più semplicemente, a disporre della propria vita? Non esiste più, perché si deve essere felici di far parte di quella schiera di pochi fortunati che hanno un impiego, e quindi possono contare a fine mese su uno stipendio (magari da fame).
Ma ancora più grave è l'essere costretti a rinunciare alla sicurezza sul lavoro, dover accettare di lavorare in condizioni veramente precarie, sotto la minaccia di essere licenziati perché 'la fila è lunga'. Di questa situazione sono spesso protagonisti gli immigrati che, per guadagnare quei pochi spiccioli per vivere e aiutare la famiglia rimasta in patria (o anche per poter dimostrare di avere un mezzo di sostentamento e quindi avere o mantenere l'agognato permesso di soggiorno) sono costretti ad accettare condizioni di lavoro che mettono a repentaglio la loro stessa vita.
Ma la conseguenza più terribile di questo stato di cose la si riscontra nella coscienza del lavoratore: non ci si ritiene più persone, ma pezzi di ricambio. Non si capisce più il valore intrinseco di ognuno, ma siamo ritenuti (e ci riteniamo) sostituibili e interscambiabili. Infatti non si riconosce più la professionalità di ognuno: un lavoro 'basta che venga fatto', bene o male non ha importanza. È desolante è osservare la mancanza di solidarietà fra lavoratori. Ormai quasi ovunque regna la 'legge della giungla'. Se un collega subisce un'ingiustizia o semplicemente rivendica quei diritti di cui si è detto non c'è più non solo la volontà di combattere al suo fianco, ma addirittura si fa fatica a dire che ha ragione, anche quando la verità è palese. Sembra che se qualcuno ottiene qualche diritto ciò sia uno svantaggio per gli altri. Non si capisce che invece si dovrebbe prendere esempio dalle 'pecore nere', dalle voci fuori dal coro.
L'unica speranza è che non sia troppo tardi: il rischio maggiore è l'involuzione, fino ad arrivare a lavoratori che abbiano una consapevolezza dei propri diritti pari a quella degli schiavi neri delle piantagioni di cotone e che... ringrazino di avere un lavoro!