Con la formazione dell'attuale governo la situazione sembra essere tornata alla calma e con la recente elezione di Sergio Mattarella alla più alta carica dello Stato l'opera di sterilizzazione di ogni possibile conflitto politico ha raggiunto il suo culmine: l'organico sembra aver trionfato sul tumultuoso conflitto sociale che aveva portato scompiglio anche nelle camere di compesazione del potere borghese. Così, il Presidente del Consiglio ha già annunciato di voler proseguire fino a fine legislatura e le opposizioni si sono immediatamente accucciate ai piedi del nuovo garante della Costituzione, già pronto all'ennesima picconata alla carta costituzionale.
Poco importa infatti che l'attuale Presidente della Repubblica sia stato eletto in una elezione di secondo grado da rappresentanti del popolo de facto sfiduciati dall'incostituzionalità della legge elettorale, infondo la legalità è mantenuta in quanto la sentenza n.1/2014 della corte costituzionale rimarcò l'imprescindibilità del principio fondamentale della continuità dello Stato, il quale continua ad operare, anche per inerzia, come è risultato evidente con l'elezione da parte di quello stesso parlamento di uno di quei giudici costituzionali alla Presidenza della Repubblica.
Difficile fare un riassunto più esaustivo della palude democristiana in cui siamo piombati con il governo Renzi.
Tuttavia c'è un frame che circola nel senso comune, secondo il quale "quando c'era la DC si stava meglio". Lo si sente spesso ripetere al bar, sui mezzi pubblici, tra i colleghi di lavoro, nelle sale d'attesa, questo perché effettivamente la DC è stata rappresentata unicamente, o quasi, come la forza politica del "Piano Marshall" e della generazione dei baby-boomer, per cui nella retorica decadente dell'attuale borghesia in crisi capita spesso di imbattersi in simili constatazioni.
Se sembra inutile far notare cosa ci fu dietro a quel "benessere" tanto sbandierato, meno inutile è far notare la fase di trasformazione attraversata da quel partito negli anni dell'egemonia del feudo irpino. Infatti, in quegli anni De Mita gestì l'avvicinamento della DC alla svolta (die Wende) della Cdu tedesca di Kohl elaborando la versione italiana dell'aggressione al demone dello "statalismo", che se risultò una novità politica per la DC di allora è ormai l'odierna retorica politica per noi, questo a dimostrazione di quanto siamo stati egemonizzati da quella svolta ideologica.
La critica del welfare state di De Mita rappresentò la rivoluzione copernicana della politica che dagli anni '80 a oggi continua a mieter vittime, dando voce ai presunti ceti produttivi emersi dopo la crisi degli anni '70. Poco importa che alla fin fine quei ceti produttivi siano sprofondati in una crisi gravissima proprio da allora, perché l'ideologizzazione è ancora operativa nonostante, paradossalmente, quei ceti si siano tragicamente tramutati nel loro corrispettivo negativo: il precariato.
La vulgata del self-made man venne riscoperta dai neoliberisti e scaraventata nella società come arma per aumentare la competizione più feroce a ribassi salariali ed erosione dei diritti crescenti. L'attacco al welfare state era ormai avviato anche in Italia e De Mita, di cui Mattarella fu fido collaboratore, non esitava a dare una lettura del contesto improntata al neoliberismo estremo: "il meccanismo si è inceppato per quel tanto e quel poco di socialismo che è stato introdotto nella nostra società" (cit. in P.Craveri, La Repubblica dal 1956 al 1992, Tes, Milano, 1996, p.889).
Sperare in una funzione di garanzia dall'attacco allo stato sociale che stiamo subendo da parte del Presidente Mattarella semplicemente perché, infondo, democristiano di sinistra (fece parte della corrente "Base"), è non solo illusorio, ma anche contrario a quella che è la visione del mondo del neoeletto Capo dello Stato. Questo al di là della sua funzione super partes che certamente eserciterà per garantire la stabilità di un regime politico che ha sempre più bisogno di ruoli mediatori come il suo.
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