Lo straniero è il nemico e questa convinzione sta assumendo, in una larga fascia della popolazione globale e di alcune sue istituzioni o forze politiche, un infido e terribile aspetto di normalità e scontatezza. È scontato che il nemico sia lo straniero a casa nostra. È scontato che vada combattuto, respinto. È scontato che sia un nemico, è scontato e ovvio che sia un pericolo. È questo aspetto di ovvietà che rende il male ancor più subdolo e pericoloso, perché lo rende più anonimo, lo maschera di una patina di giustizia e legittimità che invece non possiede. Lucifero incarna, ma all’opposto, questa doppia faccia del male: il diavolo è un angelo, decaduto dal paradiso, ma di fatto è un angelo. Qui il diavolo viene assunto tra gli angeli, il male non è più visto come ciò che realmente ed essenzialmente è, ma diventa qualcosa di necessario, giusto, buono, e, necessario giusto e buono in maniera scontata e ovvia. Banale appunto. Il diavolo ha riassunto, per una parte di società, la forma dell’angelo. Lucifero è riaccolto in paradiso.
È impressionante come in chi grida all’invasione dello straniero non baleni mai il dubbio che quello che fa o dice contro di lui non sia qualcosa di umanamente ed eticamente (per le categorie di bene e male che le moderne società sono abituate a pensare) sbagliato e malvagio. Lanciare sassi e molotov contro uno o più immigrati o impedirgli di passare, va al di là della distinzione bene-male, supera questa categoria e diventa atto necessario e doveroso. Non vi è più giudizio etico, non vi è anzi proprio più giudizio, bensì automatismo e assenza di pensiero, si risponde naturalmente a una legge su cui non viene più applicato il metro di giudizio che si riserva a qualsiasi altro aspetto della nostra vita. L’odio razzista e xenofobo, per una parte del nostro e di altri paesi, non è passibile di considerazioni etiche su cosa è bene e cosa è male, su cosa è giusto e cosa non lo è, ma è una legge o un comando cui naturalmente, ordinariamente, scontatamente automaticamente si è chiamati a rispondere. E questo fa paura, proprio perché è silenziosamente strisciante anche quando non esplode in tutta la sua più eclatante ferocia e violenza.
L’accettazione del male è l’accettazione di quella che si considera una giustizia o anzi, un’evidenza implicita che è dovere rispettare, condividere o portare a compimento. Il male giusto non è più male. Da qui tutte le frequenti espressioni “non sono razzista ma”, ed è in quel ma che si racchiude tutta la potenza meschina e subdola di un male che ha perso le sue vere e diaboliche sembianze assumendone altre. Il male che diventa banale, ha davvero ragione Hannah Arendt a dire che è più pericoloso, perché è più invisibile e interiorizzabile senza aver più coscienza che si stia commettendo del male, esso attecchisce più spontaneamente nel corpo sociale, ha più possibilità di espandere le proprie radici e affondarle nell’essere umano, tacitamente, a volte inconsapevolmente. Il male diventa ancor più assoluto e pervasivo quando non viene più riconosciuto come tale o quando viene accettato e quindi reso, a livello di percezione, meno disturbante, meno lancinante e meno sconvolgente facilitando l’identificarsi in questo stesso male proprio perché ne viene scardinata la stra-ordinarietà ed essendo reso più ordinario e accettato socialmente (per lo meno da una fetta della società e della politica), viene di conseguenza percepito più innocuo o naturale, meno preoccupante.
Se da una parte c’è stata un’indignazione e una recriminazione assolute nei confronti dei fatti di Goro e Gorino, dall’altra c’è stata identificazione, incoraggiamento, partecipazione emotiva e comprensione, se non addirittura giustificazione. “Bisogna capirli”, si è sentito dire da qualche alta carica politica. Quando si comincia a capire senza però voler cambiare o contrastare è allora che il male rischia di avere la meglio. Capire non deve poter significare accettare, se non si vuole rendersi complici del male stesso perpetrato verso altri esseri umani. La mia amarezza è proprio dovuta alla sensazione che purtroppo una larga accettazione di atteggiamenti e comportamenti umani che per altri tipi di individui sarebbero – giustamente – etichettate come legalmente e moralmente condannabili, finiscono per risultare comprensibili, legittimi e perdonabili. Stiamo sempre più perdendo la capacità di “pensare dal punto di vista dell’altro”. Come scrive Arendt a proposito di Eichmann, “comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano”, la percezione è che gli altri e la realtà in quanto tale non tocchino anche una parte dell’odierna società umana e che quindi tutto finisca per assumere un aspetto ordinario, indifferente, anche quando si tratta di azioni che dovrebbero risultare straordinarie.
L’altro se è uno straniero immigrato, per una parte della società umana perde i connotati di quell’aurea, di retaggio anche cristiano, che circonda l’idea stessa del prossimo e quindi non c’è empatia che tenga. Il suo volto non è più quello di cui parla Lévinas, cioè epifania, rivelazione, alterità etica, traccia dell’infinito, ma è il volto del nemico, del pericolo, della minaccia che in quanto tale va cacciata. Non è più il volto levinassiano che pone l’uomo, nell’incontro appunto con il “volto dell’altro”, di fronte a una grande responsabilità in quanto l’altro, come espressione vivente del comandamento “non uccidere”, mi mette sempre in questione, chiamandomi a rispondere, di me e di/a lui. Secondo Lévinas, l’altro, ineffabile e pre-fenomenologico, è colto innanzitutto attraverso il suo volto, che non è però oggetto intenzionale. La sua alterità sfugge a qualsiasi intenzionalità. Pre-categoriale, pre-linguistico e pre-individuale, il volto è la nudità esposta, è un appello che mi chiama a rispondere, mi mette in questione. Volto che non è immagine ma traccia di trascendenza, visibilità che cela o in qualche modo lascia trasparire l’invisibile e l’intelligibile dell’altro, l’alterità infinita dell’Altro che non può mai esser ridotto a un alter-ego, poiché rimane inafferrabile nella sua esteriorità assoluta. Il volto è quindi paradossale in qualche modo: è presenza ma anche assenza, nel senso che è traccia di un’assenza infinitamente inaccessibile, un al di là dell’essere che solitamente chiamiamo Dio, ma che proprio per questo ci invoca a rispondere, a dare una risposta: “Altri, rivelandosi attraverso il volto, è il primo intelligibile […] L’infinito ha effetto sull’Io senza che l’Io possa dominarlo […], ha effetto sull’Io anarchicamente, […] si impone come Responsabilità-per-Altri, che questa affezione suscita”9. Il volto è l’orma, la traccia di questa trascendenza, è la traccia della parola, o del comandamento divino che non cessa di interpellarmi e mi sollecita a diventare soggetto responsabile: “L’alterità […] ha nel suo volto, nella sua autosignificanza, irripetibilità, nudità e totale esposizione, la propria metafora e metonimia […] l’altro è il prossimo: la prossimità come non-indifferenza nella differenza, come responsabilità”. Nel faccia a faccia col volto dell’altro, con questa assoluta esteriorità, e nel mio accogliere questa radicale alterità sta la mia messa in questione ed io non posso sottrarmi a questo appello, non posso non prendere coscienza dell’ineluttabilità, della necessità della mia risposta: “La messa in discussione di sé, è precisamente l’accoglienza dell’assolutamente altro. questi non si mostra all’Io come un tema. L’epifania dell’Assolutamente Altro è il volto in cui l’Altro mi interpella e mi ordina, con la sua nudità, il suo denudamento. Esso mi interpella […] Mi vede, ma resta invisibile, per questo si assolve dalla relazione in cui entra, resta assoluto. L’assolutamente Altro è Altri. E la messa in discussione del Medesimo da parte dell’Altro è un’intimazione a rispondere. L’Io non prende semplicemente coscienza di questa necessità di rispondere, come se si trattasse di un ordine o di un dovere su cui può decidere; egli è, nella sua posizione stessa, da parte sua, responsabilità”11.
Il volto dell’altro dunque, nella sua totale nudità, mi convoca, mi chiama, mi impone di rispondere alla sua chiamata, “l’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, anzi «comando etico incondizionato che […] rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui»”12. Nell’incontro col volto dell’altro il soggetto è messo in discussione e chiamato a rendersi responsabile dell’altro. Oggi una parte di mondo sta rovesciando questo assunto. La responsabilità è diventata quella di tutelarsi dall’altro e di agire come se non ci fosse nessun Altro, invisibile, a guardarmi. Non l’Altro nel senso divino ma il grande Altro di cui parlava anche Lacan, quell’ “ordine simbolico virtuale” o “quella pratica senza soggetto che ciascuno coscientemente si pone: da una parte (soggettiva) come soggetto virtuale (altro) deputato al controllo morale, dall’altra (oggettiva) come idea regolativa della soggettività e delle pratiche ad essa inerenti; in altri termini di vita quotidiana, si potrebbe dire che esso ci si manifesta de finitamente nei suoi effetti quando agiamo […] come se fossimo osservati”13. L’occhio che ci osserva però da una parte sembra esser diventato quello che ci dà, più o meno direttamente, l’autorizzazione a comportarci in un certo modo, oltre ogni etica, oltre ogni responsabilità a cui l’altro ci chiama a rispondere.
L’altro, o per lo meno, un certo tipo di altro, non rappresenta la nudità esposta di cui devo prendermi carico, l’ “indigenza” di cui devo rendermi responsabile e che mi mette in discussione, ma rappresenta una minaccia e l’unica responsabilità che sento è quella di difendere il mio, il mio spazio, il mio pezzo di esistenza in questo mondo, contro l’aggressione di qualsiasi presenza altra, o che comunque non faccia parte di ciò che è autorizzato a esistere e a far parte del mio piccolo mondo, del mio piccolo pezzo di spazio. L’occhio virtuale esterno, il potenziale osservatore Altro approva la mia resistenza al pericolo che oggi incarna colui che arriva, portatore di minaccia e differenza spaventosa, metafora di tutto ciò che è male, in una logica appunto rovesciata, in cui chi compie determinati atti crudeli si sente paladino di una giustizia o di un dovere morale sacrosanti, di quella legge interiorizzata come naturale che impone di difendere se stessi e il proprio pezzo di mondo e di esistenza dalle minacce del nemico. E quando un (certo tipo di) altro, viene assunto come “nemico di tutti”, per citare il titolo di un’opera di Heller-Roazen (sebbene lì questa connotazione fosse attribuita al pirata), allora davvero il male che viene fatto contro questo nemico, rischia di diventare male condivisibilmente accettabile e legittimabile, tanto da perdere, appunto, le sembianze di male esecrabile.
9 E. Lévinas, Dall’altro all’io, a cura di A. Ponzio, trad. it. di J. Ponzio, Meltemi, Roma 2002, pp. 47-48.
10 A. Ponzio, introduzione a E. Lévinas, Dall’altro all’io, op. cit., pp. 44-45.
11 E. Lévinas, Dall’altro all’io, op. cit., pp. 106-107.
12 www.antemp.com, cit.
13 www.universitarianweb.com