Giovedì, 03 Novembre 2016 00:00

Gorino: ritorno all'Homo homini lupus? - parte 1

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Qualcuno li ha definiti eroi, quel centinaio di cittadini di Goro e Gorino che hanno costruito delle barricate di pancali per “resistere” all’“invasione” di dodici donne straniere (a cui poi si sarebbero dovuti aggiungere otto minori) che avrebbero dovuto esser ospitate nell’ostello di Gorino – l’Amore-Natura, di proprietà della provincia di Ferrara. L’Italia, che ha conosciuto la resistenza di partigiani che lottavano per la libertà dal nazi-fascismo contro le ingiustizie e le discriminazioni, ha visto, attraverso questo amarissimo specchio rappresentato dalla maggior parte della comunità di Goro e Gorino, una resistenza che porta con sé un significato totalmente ribaltato rispetto a quella partigiana: la difesa del proprio piccolo pezzo di orto contaminata dal razzismo più barbaro e becero.

La “dittatura” contro cui è insorta la “rivolta” di questi paladini della libertà non è quella nazi-fascista ma quella incarnata dallo straniero, che viene a invadere il proprio piccolo pezzo di terra. La nostra memoria storica è morta, impaccata sulle barricate che hanno costretto il pullman che trasportava le donne a fare dietrofront, così come su quelle barricate è morto l’essere umano, perché chi agisce con un odio tale, non è neanche più degno di essere chiamato tale. Quello che è accaduto a Goro e Gorino e che temibilmente potrebbe riaccadere in altri comuni, ha messo in scena gli istinti più ferini e ignobili che caratterizzano una parte di ciò che siamo, ovvero quella animale. È la ragione che ci differenzia dalle bestie e in questo caso ogni ragione è andata perduta. Siamo tornati all’homo homini lupus della società pre-contrattuale di matrice hobbesiana, in cui il più forte ha la meglio sul più debole. Qui però non era neanche in gioco la sopravvivenza dell’individuo a scapito della vita di un altro (anche se probabilmente gli abitanti del comune e della frazione della provincia di Ferrara si sono sentiti realmente minacciati), qui non si è lottato per la propria incolumità pagata con l’eliminazione dell’altro, in questo caso non si è agito solo per paura (che paura possono fare dodici donne e otto bambini?!), ma anche per odio razziale, fomentato da tutti i pregiudizi verso “il diverso”, alimentato a sua volta dalla propaganda dei vari Salvini di turno.

Invasione. È ormai parola che sentiamo berciare quasi ogni giorno senza mai prenderci la briga di andare a controllare i reali dati circa l’immigrazione in Italia. Forse non è noto a tutti che, ad esempio, l’Emilia Romagna abbia raggiunto il record negativo di accoglienza di profughi e richiedenti asilo in rapporto alla sua popolazione autoctona: in tutto sono state accolte 10.000 persone, praticamente due ogni mille abitanti. Al di là però dell’informazione reale su cifre e statistiche che in un nano-secondo demolirebbero tutte le castronerie strumentali e propagandistiche che inneggiano all’invasione e alla dittatura degli stranieri (diversi abitanti di Gorini hanno usato proprio questo termine, dittatura), a me risulta comunque inconcepibile pensare che, anche laddove il numero di migranti che arrivano fosse superiore alle cifre reali, una parte dell’umanità possa arrivare a comportarsi così come si è comportata. So che il paragone risulta forzato, ma ciò che spinge a innalzare barricate contro esseri umani inermi contiene, in parte,  lo stesso germe che ha fatto nascere la gramigna del nazi-fascismo. Alla base c’è la considerazione che alcuni esseri umani non siano più etichettabili come tali ma siano zecche, parassiti, microbi, e in quanto tali vadano eliminati, spazzati via, perché contaminano il resto della comunità umana, non essendo degni di farne parte.

Qualche giornale ha intitolato la vicenda prendendo a prestito il noto (e scomodo, tant’è che all’uscita nel 1963 procurò pesanti accuse e critiche all’autrice) libro di Hannah Arendt, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, sul processo – a cui la Arendt assistette (nel 1961, a distanza di quindici anni da quello di Norimberga) –  ad Adolf Eichmann, paramilitare e funzionario tedesco condannato a morte in Israele per crimini contro l’umanità. A mio avviso il rimando (con tutte le dovute e ovvie differenze e distanze) è drammaticamente azzeccato. In una lettera ad Heinrich Blücher,  Arendt definisce l’intera vicenda di una “normalità assoluta”. Con questo la filosofa non intendeva sminuire le atrocità compiute dai nazisti e dai loro complici ma evidenziava la “qualunquità” del male e la normalità o ordinarietà dei molti individui che lo hanno commesso, il che lo rende ancor più terribile. Eichmann non era un mostro, incarnava la totale normalità e questo era ciò che lo rendeva ancor più spaventoso, perché in un mostro non sarebbe stata possibile l’identificazione, mentre in una persona qualunque sì. Sempre nella lettera a Blücher Arendt scrisse che “l’uomo nella gabbia di vetro era per niente inquietante; a essere mostruosi erano i suoi atti, ma l’attore […] risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso”. Ciò che invece la filosofa captò bene di quell’uomo che aveva organizzato la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento, fu l’ “assenza di pensiero”: “la sola qualità che gli si poteva attribuire, sulla base del suo passato e del suo comportamento all’epoca degli interrogatori e del processo era negativa: non si trattava tanto di stupidità, quanto di un’autentica incapacità di pensare1.

Eichmann incarna così un’esperienza agghiacciantemente (stra)ordinaria2: l’assenza di una capacità di pensiero critico e indipendente. Durante il processo la Arendt arrivò alla conclusione che anche la tendenza di Eichmann a parlare per frasi fatte e meccanicamente, la sua incapacità di esprimersi con un linguaggio proprio, fosse inestricabilmente connessa alla sua incapacità di pensare e giudicare criticamente: “[…] un tratto più personale, nonché più importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri3. Ora, è ovviamente scontato che la figura di Eichmann e del contesto di regime totalitario in cui si muoveva erano completamente diversi rispetto al contesto reale in cui ci muoviamo oggi: “come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti «non ammazzare», anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenze omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: «Ammazza», anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggio parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati versi la morte); e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa bene quanto avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”4 Tenendo perciò ben ferma la consapevolezza della distanza tra la situazione della Germania nazista e la situazione di oggi, tra le forme di male commesso allora (che non ha eguali nella storia dell’umanità) e le forme di male che vengono commesse oggi, così come tra i soggetti fautori di quel male e i soggetti contemporanei che si rendono responsabili di azioni malvagie, un tratto che può ritrovarsi nella vicenda di Goro e Gorino è proprio la mancanza di senso critico e di capacità di giudicare le proprie azioni.

Come Eichmann questi cittadini non si sentono affatto colpevoli di qualcosa – “quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere innerer Schweinehund, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione”5 –  ed è certo vero che mentre Eichmann ha agito seguendo quella che, seppur non sempre scritta, era diventata la legge (ogni cosa che diceva Hitler diventava legge, per questo non vi era neanche bisogno che tutto ciò che diceva venisse messo per iscritto), ai cittadini di Goro e Gorino nessuno ha ordinato di agire in quel modo, ma scorgo nel loro atteggiamento come l’idea che quel che hanno fatto dovesse essere fatto, come in nome di una legge tacita, non scritta, ma implicitamente da dover rispettare. Come se si facessero portatori di qualcosa che è doveroso per la buona società in cui si vive e che questa richiede che venga sventata la minaccia dell’ “invasore” straniero che mette a rischio la nostra incolumità e la nostra tranquilla esistenza. Il male non viene riconosciuto come tale, acquisisce una tale legittimità da capovolgersi nella convinzione che quello che si fa è un bene per la comunità, che quelle azioni vengono portate convintamente avanti come se rappresentassero il dovere positivo del buon cittadino che difende la propria società, grande o piccola che sia e che agisce credendo di renderla migliore: “Se in una cosa egli [Eichmann] credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della «buona società» come la intendeva lui. […] Egli non ebbe bisogno di «chiudere gli orecchi», come si espresse il verdetto, «per non ascoltare la voce della coscienza»: non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con «una voce rispettabile», la voce della rispettabile società che lo circondava6.

Sicuramente ci sono molti fattori che hanno giocato nella vicenda di Goro e Gorino, a cominciare dalla propaganda di alcune forze politiche che cavalca il malessere e l’esasperazione generale in cui versano i cittadini italiani e le situazioni di precarietà (o assenza) lavorativa e materiale in cui molti di loro vivono finendo per far credere che la colpa di tutto questo (la mancanza di una casa, di un lavoro, del buon funzionamento della sanità etc, della delinquenza..) siano gli stranieri che arrivano in Italia, innescando la ormai tanto sdoganata “guerra tra poveri”, emersa in maniera eclatante durante gli episodi di Tor Sapienza del 2014, ma che a mio avviso meno si può applicare al caso di Goro e Gorino; Tor Sapienza è un quartiere periferico in preda al degrado, allo squallore e a una reale condizione di miseria, precarietà, criminalità e povertà di chi ci vive. Per quanto sia sempre ingiustificabile l’esplosione di una violenza (che ha pericolosamente ricordato, in gesti e parole, quella degli squadroni della morte) come quella a cui assistemmo appunto durante la “rivolta” del quartiere di Roma Est scagliatosi contro i rifugiati del centro di accoglienza di viale Morandi (visti come i responsabili di alcuni fatti di cronaca, tra cui, soprattutto, l’ultimo che scatenò la miccia, ovvero la molestia a una ragazza del posto), in quel caso risulta più comprensibile (ma ripeto, non giustificabile) che gli abitanti del quartiere, frustrati dalle precarie condizioni di vita (anche banalmente fisica del luogo stesso in cui abitano), e già di per sé – per lo meno una parte di loro – gente poco raccomandabile (si tratta di zone completamente abbandonate a sé stesse, lasciate totalmente sole dalla politica: sono zone di spaccio, di diffusa micro criminalità, di bassissimo livello di scolarizzazione, zone in cui mancano centri  culturali o di svago e aggregazione – non c’è neanche un parco per bambini ad esempio, né tantomeno una biblioteca) abbiano avvertito la minaccia dello straniero. Goro e Gorino sono però un comune e una frazione idilliache, tranquille, non estremamente popolari e disagiate o degradate come certi quartieri periferici.

L’unico tratto simile che si può riscontrare è il basso livello di istruzione: su 602 individui di età scolare, solo 10 hanno un titolo di laurea (9 femmine e un maschio), 87 un diploma e 252 una licenza media e 175 la licenza elementare7. Non voglio giungere all’affrettata conclusione che un basso livello di istruzione sia irrimediabilmente collegato ad un atteggiamento razzista, visto che molti esempi potrebbero confutare questo non meccanico binomio, ma credo che, anche se non sempre poi risulta così, tendenzialmente lo studio, la lettura, la cultura in generale possano fornire degli strumenti di analisi critica, di sviluppo e arricchimento del pensiero indipendente, sciolto da condizionamenti mediatici e sociali ingeriti e interiorizzati in maniera quasi automatica senza una capacità, appunto, critica e di messa in discussione. La capacità di svisceramento e di lettura della complessità del reale che tendenzialmente la filosofia (non nel senso stretto del termine, ma nella sua valenza etimologica, di amore per la conoscenza), rende più adeguata e aderente al contesto politico, economico, sociale, affettivo, esistenziale etc, che ci circonda e in cui agiamo, contribuiscano a formare una visione più ampia del mondo, cosa che l’esserne totalmente a digiuno rende più difficile.

Una quasi totale mancanza di acculturamento (e non intendo solo prendersi un titolo universitario, ma appunto di amore per la conoscenza, che poi può venire appagato in diversi modi), rende l’individuo più ovattato e recluso in una visione del mondo claustrofobica e autoreferenziale, senza slanci verso il “fuori” e distaccato dalle dinamiche del contesto in cui vive, sciolto da qualsiasi interesse per ciò che va al di là dei suoi bisogni più immediati, più spoliticizzato nel senso largo del termine politica (non significa qui necessariamente la militanza politica o l’adesione a un partito ma la consapevolezza che tutto ciò che ci circonda, così come ogni nostra azione, anche quella più piccola, ha una valenza politica, è politica), sganciato dalla polis e quindi di fatto de-realizzato perché sganciato dalla realtà che di per sé è politica. Una quasi totale mancanza di filosofia rende l’individuo più facilmente esposto al rischio di essere agito anziché agire, di farsi strumentalizzare e condizionare, di farsi rendere apatico o aggressivo a seconda di quel che richiede la forza politica di turno o il “sistema” (termine tremendamente abusato, e ormai purtroppo associato a quelle forze populiste che se ne sono appropriate usandolo come loro cavallo di battaglia) inteso nell’accezione foucaultiana, come l’insieme di quei dispositivi di potere e di regimi di verità performativi e pervasivi (in cui il discorso, le costruzioni discorsive, vengono a rappresentare il luogo di articolazione inestricabile di potere e sapere) che disciplinano e regolano in senso economico e produttivo il corpo sociale;  il processo stesso di soggettivazione è visto da Foucault come tecnica di una certa forma di potere “rivolta all’immediata vita quotidiana che categorizza l’individuo, lo segna della sua individualità, lo fissa alla sua identità, gli impone una legge di verità che egli deve riconoscere e che altri devono riconoscere in lui”8.

Insomma, se è vero che non necessariamente cultura, informazione e istruzione, voglia di approfondimento e conoscenza, rendano l’uomo migliore, il farne del tutto a meno rischia già in partenza di non produrre in lui un progresso nella sua interezza di essere umano. A mio avviso, l’individuo quasi totalmente incolto o che soprattutto non sente alcun bisogno di ampliare il proprio sguardo sul mondo e sulla realtà in cui vive (quindi questo va al di là del fatto di avere o meno un titolo di laurea), informandosi – e ricercando e acquisendo strumenti con cui essere maggiormente in grado di informarsi adeguatamente e leggere in maniera più cosciente la realtà circostante –  su ciò che lo circonda o sulla propria storia, passata e attuale, è mutilato nella possibilità stessa di crearsi una consapevolezza e una capacità di interpretazione di quella che è la sua condizione e la sua posizione nel mondo e di quello che è il contesto globale in cui vive; rischia di subire cioè, in maniera più acritica e passiva, una lettura del reale che gli viene calata dall’alto, senza disporre di maggiori e adeguati strumenti per rendersi conto che magari quella lettura e quel pensiero dominante che accoglie supinamente come un dogma o come l’unica verità possibile che non ammette alternative, non sono affatto, invece,  le uniche possibili interpretazioni del reale e neanche le più veritiere.

1 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004, p. 137.
2 Il pensiero, e in particolare il pensiero critico è la caratteristica peculiare umana, dunque straordinario non possederla; al contempo la mancanza di tale uso del pensiero è frequente e diffusa, pertanto da assenza straordinaria in quanto non-umana, finisce per risultare abbastanza ordinaria.
3 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2013, p. 55.
4 Ivi, pp. 156-157.
5 Ivi, p. 33.
6 Ivi, p. 133.
7 Italia.indettaglio.it
8 M. Foucault, Perché studiare il potere? La questione del soggetto, in M. Foucault, Potere e strategie, Mimesis, Milano 1994, p. 103.

Ultima modifica il Domenica, 18 Dicembre 2016 10:25
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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