Blue Whale prende il proprio nome da quel fenomeno che vede alcune balenottere azzurre arenarsi sulle spiagge, comportamento erroneamente paragonato a un suicidio. Il “gioco dell’orrore” contiene una serie di prove – 50 ad esser precisi – sempre più estreme, imposte da un misterioso “master” che fornisce istruzioni ai partecipanti. Le prove prevedono un crescendo di masochismo e auto-lesionismo: incidersi mano o braccio con un rasoio inviando la foto della conseguente ferita al master, guardare film psichedelici o orrorifici, auto-privarsi del sonno, tagliarsi molte volte, incidere una balena su una mano e altre simili fino ad arrivare alla sfida finale. Quest’ultima prova è davvero la fine, non solo del gioco, ma anche della vita del giocatore, che, stando ligio alle regole, dovrebbe lanciarsi da un edificio molto alto “per riprendersi in mano la propria vita”. Paradossale se si pensa che riprendere la propria vita in mano coinciderebbe in tal caso a morire.
Philipp Budeikin è un dottore in psicologia di San Pietroburgo che, una volta arrestato, ha giustificato la creazione e diffusione del gioco affermando di voler “ripulire la società dai rifiuti organici”, motivazione che richiama inquietantemente quella esasperazione del darwinismo sociale che ha portato, nella Germania nazista, alla segregazione razziale e all’eugenetica in nome della selezione naturale. Il gioco sembra essersi diffuso inizialmente sul social network russo Vkontakte (VK). “L'episodio che ha scatenato il tam tam sul Blue Whale è stato il suicidio di Rina Palenkova, una 16enne russa che prima di morire aveva caricato delle foto e dei video sulla piattaforma per documentare il suo suicidio, avvenuto nel 2015. Il fenomeno raccontato da Rina si identificava con la sigla "f57". In questo gruppo di VK venivano postati contenuti e testimonianze di utenti con pensieri suicidi. Ma non era l'unico ritrovo per adolescenti depressi. Tra questi, c'era anche il Blue Whale” . Da qui in avanti pare ci siano stati numerosi suicidi di ragazzi che hanno deciso di partecipare al gioco o vi sono stati coinvolti. Le fonti discordano sul numero complessivo dei suicidi, anche per la difficoltà di ricondurre la morte dei giovani al gioco. Il “Centro per la salvezza dei bambini dai crimini online”, fondato dai genitori dei ragazzi “vittime del gioco”, in un’ inchiesta svolta dal giornale russo Novaya Gazeta, dichiara che in Russia sono almeno 130 i suicidi di giovani partecipanti al gioco; il report de “Le Iene” di un mese fa parla di 157 morti solo in Russia. Alcuni media hanno in seguito riportato che sia stata gonfiata la dimensione dei suicidi legati al gioco, tra cui lo stesso inviato delle Iene Matteo Viviani che ha dichiarato “ di aver inserito dei video falsi nel servizio sul caso, ammettendo di aver acquisito le fonti con leggerezza” .
Il fenomeno Blue Whale si è diffuso rapidamente non solo tra gli adolescenti che ne sono o ne sono stati i protagonisti e le vittime, ma ha fatto parlare di sé continuamente sui media e sul web. Il gioco viene così delineato come una specie di “arma di distruzione di massa” che si espande indisturbata sui social network, come fosse un virus letale di un film apocalittico. Si inveisce contro il gioco e chi l’ha ideato, ma forse occorrerebbe anche domandarsi perché molti giovani hanno deciso di partecipare a Blue Whale, per quale motivo si sono tolti la vita seguendo il comando di qualcuno che, dall’altra parte dello schermo, li spingeva al suicidio sulla base di raccapriccianti regole di un gioco online. È criminale banalizzare la portata di un gioco che ha spinto molti adolescenti al suicidio, è tuttavia miope e superficiale fare di Blue Whale la panacea di tutti i mali dei giovani di oggi, ossia l’unico motivo per cui hanno preso l’estrema decisione. Lo psicologo Bulli, cercando di dare una possibile spiegazione alla scelta dei ragazzi di partecipare a un gioco che li spinge a prove sempre più cruente, sostiene che "la totale assenza di speranza per il futuro potrebbe spingere il giovane a [...] un esilio dal mondo reale subendo al contempo la fascinazione della realtà virtuale. È qui che il Blue Whale potrebbe rappresentare un’opportunità di riscatto di Sé, tale da ingenerare quel consenso e approvazione che il giovane non è riuscito a ottenere nella vita vera."
Ad ogni modo per capire che il gioco non è causa ma semmai effetto di un malessere giovanile che trova tragicamente sfogo nella morte, basterebbe considerare alcuni dati. In Russia la percentuale di suicidi tra adolescenti è tre volte più alta della media mondiale: negli ultimi dieci anni i giovani tra i 15 e i 19 anni a suicidarsi sono stati intorno ai 1500 all’anno. A quanto riporta La Stampa, i suicidi di minori non sembrano in aumento a causa di Blue Whale, anche perché il tasso di ragazzini che si tolgono la vita è molto più alto nelle città di provincia poco digitalizzate. È inoltre chiaro che la diffusione del gioco sia stata fatta e particolarmente incentivata da ragazzi che già avevano pensieri suicidi. Difficilmente possiamo demarcare un confine netto chiarendo quanto Blue Whale abbia influito sulla scelta di togliersi la vita da parte di molti adolescenti, possiamo però concordare sul fatto che è evidente che ci siano delle situazioni e delle dinamiche estranee al gioco e che Blue Whale è stato sicuramente uno degli incentivi –forse quello determinante- ma che non è stato certo l’unico. Perché di adolescenti che scelgono il suicidio purtroppo ce ne sono tanti, tantissimi, e non c’è nessun capro espiatorio, nessuna ragione unica e assoluta.
Negli Stati Uniti, la Pediatric Academic Socieities, in uno studio sui suicidi giovanili, ha affermato che nell’ultimo decennio siamo arrivati a 119mila suicidi di minori tra i 5 e i 17 anni, “analizzando percentuali di rischio in continuo aumento: dallo 0,67 per cento del 2008 si è arrivati all’1,79 per cento del 2015” . Qui l’incidenza di Blue Whale è praticamente nulla, tuttavia, come emerge anche dai dati relativi alla Russia, il fenomeno del suicidio tra adolescenti è aumentato. Quindi la domanda da farsi è: perché un adolescente oggi decide di suicidarsi? Sapendo di non poter rispondere a una domanda tanto complessa, a darci alcune spiegazioni, ma soprattutto a porre il problema da un altro punto di vista è stata la serie televisiva americana, ormai diventata un tormentone, 13 Reasons Why, creata da Brian Yorkey e basata sul romanzo 13 di Jay Asher. Nella serie la protagonista Hannah Becker prima di suicidarsi registra 13 audiocassette indirizzate a 13 perone, ognuna delle quali rappresenta un motivo per cui ha deciso di togliersi la vita. 13 Reason Why ha avuto il merito di porre l’attenzione sul tema del suicidio adolescenziale spezzandone un po’ il tabù. Certo, forse non lo sviluppa in maniera esauriente e totalizzante poiché si sofferma sul caso della protagonista, ma ha il pregio di problematizzare la scelta del suicidio senza banalizzarla, cercando di farla comprendere al pubblico, di renderla reale pur mantenendone il distacco. La serie è stata accusata di rappresentare il suicidio in maniera romantica e quindi come una possibilità allettante e attraente che sembra giustificata dalle ragioni per cui Hannah Becker sceglie di togliersi la vita. Tant'è che molte scuole americane hanno allertato i genitori riguardo al contenuto "pericoloso" della serie affinché fosse tenuta lontana dai loro figli adolescenti.
Come nel caso di Blue Whale, pur mantenendone le enormi differenze, l'opinione pubblica americana, come quella russa, ha preferito trovare l'ennesimo capro espiatorio a disagi e malesseri profondi che spingono molti giovani al suicidio. La scelta di morire da parte di un adolescente non può essere, e forse in questo 13 dà un'immagine parziale, soltanto determinata da una serie di concause, ma spesso deriva dal bisogno di scappare da un dolore insopportabile, una frustrazione intollerabile che annienta ogni aspettativa, ogni speranza e ogni stimolo per continuare a vivere. “La maggior parte degli adolescenti intervistati dopo un tentativo di suicidio affermano che le cause principali sono riconducibili per lo più a sentimenti di impotenza e disperazione. [...] Vivono la propria vita provando estrema vergogna circa la propria inadeguatezza e questo vissuto li espone al rischio di umiliazioni e mortificazioni sociali che incrementano, in un circolo vizioso, il dolore e la vergogna rendendo la prospettiva del futuro assolutamente angosciosa”. Il piano soggettivo/individuale è del resto sempre accompagnato da quello sociale, e soprattutto influenzato da questo. La società in cui viviamo crea sempre maggiori aspettative che spesso risultano irrealizzabili, o si avvertono come tali, innescando un processo che porta ad ansia, stress, senso di impotenza e inadeguatezza, a cominciare dal mondo scolastico, che negli Stati Uniti compendia, in maniera esasperata, quelle dinamiche per cui un giovane, per essere accettato, deve risultare “vincente”, “figo”, perfetto, bravo a scuola, nello sport e nelle relazioni amorose. Chi non è conforme a determinati modelli viene emarginato e/o bullizzato. Viviamo in un mondo in cui ciò che conta di più è l'apparenza rispetto all'essenza, in cui siamo ciò che gli altri pensano o dicono di noi, in cui la nostra immagine finisce per creare la nostra stessa identità, scolpita ad arte in questa nuova “società della vergogna”. Hannah ad esempio subisce atti di bullismo di varia natura e gravità, dalle voci che girano su di lei nella scuola e che sono più forti della realtà dei fatti - che non interessa a nessuno - al vero e proprio isolamento in cui viene relegata da amici e compagni di scuola, fino ad arrivare a esser vittima di uno stupro, episodio che la getterà nella più totale apatia e in un disperato disinteresse per la propria vita. Il bullismo nelle scuole – e oggi il cyberbullismo sempre più endemico nei social network – è causa di numerosi suicidi o tentativi di suicidio tra gli adolescenti. Come spiega il fratello di un sedicenne americano che si è tolto la vita dopo abusi, insulti e minacce online, “oggi i bulli non ti spingono in un armadietto, non ti aspettano dietro un angolo fuori dalla scuola, ma si nascondono dietro profili anonimi e usano i social network per insultare e abusare delle persone più buone e innocenti" .
Anche per quanto riguarda il fenomeno del cyberbullismo, è necessario evitare facili semplificazioni e categorizzazioni. Emblematica a proposito di questo, l'affermazione provocatoria della psicologa australiana Serena Smith che, scagliandosi contro 13 Reasons Why, dichiara che “il suicidio non è causato da bulli, il suicidio è causato da depressione o da un problema mentale”. Occorre invece essere capaci di comprendere questi atti, non solo nella loro singolarità, ma mettendoli in rapporto con la società contemporanea, nelle sue parole d'ordine e distorsioni, nelle sue norme performative e nei suoi valori fondanti, nella opprimente e indotta esigenza collettiva dell'accettazione sociale e dell'omologazione. Questa pressione si può fare così insostenibile da sfociare in una depressione profonda, la quale, lontana da essere solamente individuale, diviene depressione sociale e collettiva, “malattia” generalizzata del nostro tempo e non un problema mentale del singolo. Non può essere solo un “disturbo mentale”, né solo un atto estremo indotto da un gioco online, né possono essere esclusivamente le offese e le umiliazioni di qualche sadico cyberbullo dall’altra parte dello schermo a spingere molti ragazzini a togliersi la vita. Ci devono essere, oltre a tutto questo, altre ragioni più profonde e difficilmente sondabili, quelle che nutrono le radici di questa società fondata sul turbocapitalismo, sull’idea che tutto può essere comprato e consumabile, dai prodotti di mercato fino alle relazioni amicali e lavorative, nel mondo delle relazioni scolastiche e nel rapporto adolescenti-adulti. Come ha descritto Zygmunt Bauman, che forse negli ultimi tempi è stato colui che meglio di tutti ha saputo rappresentare la fase di smarrimento in cui ci troviamo, a cominciare dal celebre saggio “La società liquida”, nella società contemporanea si sono “liquefatti” i legami sociali e personali tra gli individui così come si è disgregata anche ogni sfera in cui questi interagiscono diventa sempre più effimera, vacua, vuota. Il processo di “liquefazione” crea un individuo sempre più affetto dalla solitudine, disorientato, che si trova a essere “un punto instabile in un universo di oggetti in movimento”. In questo vuoto, in questa solitudine spaesante e priva di punti di riferimento sembra non esserci appiglio, ancore solide cui aggrapparsi e talvolta, molte volte, si finisce per cadere e soccombere. Forse, se non ci sono modi semplici per dare spiegazioni alle morti volontarie, di giovani ma in generale di ciascun essere umano, bisognerebbe comunque provare a scavare un po’ più nel profondo quelle dinamiche del nostro tempo, delle nostre relazioni umane, dei nostri legami e di ogni ambito della nostra esistenza che innescano senso di solitudine e inadeguatezza, di abissale vuoto che soffoca ogni slancio vitale. Occorre provare ad ascoltare il silenzio di chi forse vorrebbe provare, ma non riesce, a gridare il proprio bisogno di aiuto, di chi si trova perso in un mondo caotico che tende a schiacciare o a risucchiare chi non sa trovare il suo posto, o di chi, quel posto ha proprio smesso di cercarlo.
“Ciò che tutti apparentemente temiamo, affetti da «depressione da dipendenza» o no, in piena luce del giorno o tormentati da allucinazioni notturne, è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, banditi, ripudiati, abbandonati, spogliati di ciò che siamo, il vederci rifiutare ciò che vogliamo essere. Temiamo che ci vengano negati compagnia, amore, aiuto. Temiamo di venire gettati tra i rifiuti” (Zygmunt Bauman)