Sabato, 04 Agosto 2018 00:00

Preoccupazioni tra sovranismo, sinistra e analogie storiche

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Preoccupazioni tra sovranismo, sinistra e analogie storiche

Probabilmente esagero, o magari sbaglio completamente. Da un po’ di tempo, non riuscendo a darmi una spiegazione logica della piega violenta che sta prendendo la polemica nella sinistra (sovranità nazionale, sovranismo ec.) ho cominciato ad ampliare lo spazio temporale della riflessione.

Complice la lezione di storia di un docente dell’Università per stranieri di Siena (per mio diletto, oltre al piacere di fare compagnia a mia nipote), che mi ha ricordato le acute e avanzate, nonché isolate, considerazioni di Engels circa le innovazioni industriali degli armamenti e della concezione della guerra, denunciandone la profonda trasformazione e i rischi per il proletariato internazionale di pagarne le terrificanti conseguenze - addirittura prevedendone i dettagli un bel po’ di anni prima della guerra mondiale del '14-'18 - sono tornato a ragionare su quell'aspetto fondamentale.

Mi è tornato così in mente il dibattito e la rottura che si produsse nel Movimento Operaio a ridosso della e nella prima guerra mondiale. Naturalmente non sono una specialista né ho le competenze accademiche per inoltrarmici più di tanto, tuttavia mi è chiaro, come credo sia chiaro a tutti, che i motivi della parte maggioritaria dell’interventismo di sinistra rimandassero le ragioni di appoggio alla guerra, alla constatazione dell’adesione alle concezioni patriottiche della maggioranza delle popolazioni (quelle che potevano parlare) e, pur partendo da posizioni pacifiste, di come non si potesse separarsi dalle «masse», tanto più che il nemico principale era individuato nella borghesia egoista e annessionista, soprattutto e sempre del Paese accanto.

Questa posizione era accompagnata da considerazioni sulla necessità di sostenere le proprie borghesie nazionali al fine del compimento dello sviluppo nazionale delle rispettive forze produttive. Naturalmente nello schieramento interventista c’erano anche posizioni ultra rivoluzionarie che concepivano la guerra come il modo più efficace per affossare le rispettive borghesie nazionali e tutte insieme ma, mi pare, che le posizioni maggioritarie fossero quelle del sostegno alle proprie borghesie, quale via per lo sviluppo delle forze produttive nazionali.

Come si sa la guerra fu il motivo dirimente della rottura nell’Internazionale Socialista (la II°): alla posizione maggioritaria si oppose una posizione di rifiuto, con la proposta leniniana di fare «guerra alla guerra», che si concretizzò in due conferenze in Svizzera (Zimmerwald 5-8 Settembre 1915 e Kienthal 24-30 Maggio 1916). Da questi convegni prese le mosse il movimento che, dopo la rivoluzione russa del 7 Novembre del 1917, porterà alla costruzione della Terza Internazionale (comunista).

Ora io, nelle mutate condizioni tra allora e ora, vedo alcune analogie con il dibattito a sinistra caratterizzato dal concetto di sovranità nazionale. A me pare che il punto di partenza di tutta una serie di posizioni che ruotano intorno al concetto di sovranità nazionale, dalle più estreme alle più ragionevoli e argomentate, stia nella analisi della crisi che attanaglia l'Europa (siamo qui e restiamo qui), quella economica che si ripercuote su quella sociale e attraversa i vari aspetti della vita, da quelli culturali fino a quelli giuridici e di assetto istituzionale. Il punto centrale di queste analisi sta nell'individuare i vincoli che legano gli stati nazionali alle norme sovranazionali nel tempo costruite, fino ad arrivare all'istituzione dell'euro, impedendoli di agire l'autonomia economica, fiscale e finanziaria che, sola, fa di uno Stato uno Stato e, per logica deduzione, quando non espressamente dichiarato e rivendicato, questa riconquista di sovranità sarebbe il primo passo per uscire dalla crisi, ricreando, anche, le condizioni per una dialettica virtuosa, ancorché conflittuale tra le classi, consentendo, par di capire, l'auspicato «compromesso capitale lavoro» in grado di rilanciare il ciclo keynesiano, dal quale poi ogni varia posizione deriva le prospettive che più pensa utili.

Credo di essere stato obiettivo e di aver riassunto il senso del punto di partenza delle varie posizioni che poi confluiscono, più o meno pienamente, nell'orizzonte sovranista. Da questa analisi ne derivano alcune considerazioni che ritengo logiche. Siamo invitati a pensare che se i vari paesi e, comunque l'Italia, non avessero seguito il percorso, peraltro molto lungo, di costruzione dell'Europa, questa crisi non sarebbe sopraggiunta? Qui le varie risposte mi pare si differenzino, tra chi sostiene che sì, era meglio non fare l'UE e l'euro, per altri UE e euro andavano fatti in altro modo, ecc., resta il punto che è individuato «un nemico»: l'UE e l'euro contro tutte le nazioni, salvo individuare poi nella Germania il responsabile principale, se non esclusivo, dell'attuale situazione.

Individuato «il nemico» il prossimo passo è una alleanza nazionale necessaria, «una unione sacra»? Di qui certe considerazioni sul Governo giallo-verde o sulla Lega che si, è di destra ma se tiene la posizione anti UE e anti euro, al punto che sostiene uomini critici già provenienti da sinistra, o tuttora collocati a sinistra:  è possibile ipotizzarci alleanze tattiche limitate, magari per un «fronte produttivo del lavoro» insieme ai ceti medi colpiti dalla crisi, contro il «nemico principale», che è sempre la borghesia di un altro paese, cui magari affibbiare il termine imperialista, oltreché globalista, che non guasta mai. Anzi, si sostiene: è così che si può tagliare l'erba sotto i piedi della destra e recuperare la rappresentanza dei ceti popolari oggi perduta.

Mi fermo qui, mi basta per argomentare le mie preoccupazioni. Non sono evidenti le analogie, sia pure nel contesto molto mutato? Anche allora tra le forze di sinistra si sosteneva che era insopportabile il patto spartitorio che dominava il mondo tra Inghilterra e Francia, con l'aggiunta interessata della Russia, impegnata in uno sforzo di modernizzazione faticoso dopo la sconfitta nel Pacifico con il Giappone nel 1905, e, dall'altra parte, si stigmatizzava l'aggressività della Germania imperiale alla ricerca di maggiore spazio commerciale per la propria industria prorompente, al culmine del periodo di espansione Bismarkiano e successivo. Tutti a sostegno delle rispettive borghesie nazionali per completare la rivoluzione borghese e creare le condizioni del «sol dell'avvenire».

Certo la spinta imperialista verso la guerra era potente, ma la causa non stava nelle «politiche» dei governi, bensì nella crisi generale esplosa nel 1873 e non più risolta strutturalmente e con l'affacciarsi di nuove potenze economiche in espansione: Germania, Stati Uniti e Giappone, che determinano inevitabilmente le politiche di guerra. Ci si poteva opporre? Engels aveva avuto modo di esprimersi in una lettera negli anni 80

«...Noi tutti, nella misura in cui siamo passati attraverso il liberalismo, abbiamo inizialmente condiviso queste simpatie per tutte le nazionalità 'oppresse', e io so quanto tempo e quanto studio mi è costato liberarmene definitivamente...se un paio di Erzegovini vogliono dare il via ad una guerra mondiale che costerebbe mille volte gli uomini che popolano l'intera Erzegovina - questo secondo me non ha nulla a che fare con la politica del proletariato».

Lungimirante! C'é chi, trentanni dopo le considerazioni di Engels, si oppose alla inevitabilità della guerra, Karl Liebknecht votò da solo contro i crediti di guerra nel parlamento tedesco e indicò ai proletari in divisa che «il nemico principale si trova nel proprio Paese», ripreso da Lenin con la parola d'ordine «il nemico è in casa nostra».

Da qui prende le mosse la produttiva rottura del Movimento Operaio e il rilancio di una diversa prospettiva piuttosto che seguire il destino delle borghesie nazionali. La storia ha dimostrato che era possibile evitare la guerra mondiale fra nazioni e trasformarla in guerra civile in ogni Paese, ma ciò si è concretizzato solo in Russia (e sappiamo con quanti contrasti anche in seno alla frazione bolscevica), ma ha dimostrato che era possibile un'altra prospettiva: il dominio della politica sull'economia e sulla società civile, i presupposti del welfare keynesiano che si affermerà definitivamente solo dopo la 2° guerra mondiale figlia della prima e della mancata affermazione in tutta Europa della prospettiva bolscevica.

Cosa significa oggi riproporre il problema della sovranità nazionale? (spero che nessuno salti sulla sedia)

Mi pare che si sviluppino due ragionamenti. Il più semplice e con le minori argomentazioni e quello che si rifà agli aspetti dell'indipendenza, qui non voglio riprendere l'argomento engelsiano dei due erzegovini e cioè di nazioni sopraffatte da potenze imperiali, non lo è sicuramente in Europa e non si può citare l'esempio della Grecia, dove l'UE e la Germania si sono comportate da strozzini spregevoli, perché la testa della Grecia nel cappio ce l'hanno infilata i dirigenti greci e non certamente quelli attuali, ai quali non si può che rinnovare solidarietà.

Meno che meno si possono richiamare le resistenze antinaziste, quelle sono state, tra il molto altro compresente, l'estrinsecazione di quella guerra civile che non ha seguito i tempi e i modi indicati da Lenin fuori dalla Russia, ma si è imposta strisciante, iniziata con la prima e finita con la seconda guerra mondiale, quando finalmente il modello che veniva introdotto con il dominio della politica sull'economia, imposto dai bolscevichi, si estendeva a tutta l'Europa e non solo.

Né si possono invocare le lotte di liberazione nazionali anticoloniali, al massimo possono fungere da richiamo morale.

Più impegnativo e pregnante è il ragionamento sull'economia. Qui i sostenitori della sovranità nazionale argomentano in modo determinato che se le singole nazioni non riprendono nelle loro mani il controllo degli strumenti che dominano l'economia (come affermato con il welfare keynasiano e anticipato dalla Russia sovietica), non può esserci ripresa né, tanto meno, politiche sociali efficaci in grado di dare risposte adeguate alla crisi che, in modo più o meno drastico, prende tutti paesi europei (anche in Germania esiste il «lavoro povero»). Proviamo su questa argomentazione a sviluppare qualche considerazione. In questa argomentazione, cui ho accennato anche sopra, io leggo il convincimento che il ciclo keynesiano è stato interrotto per volontà delle classi dirigenti e non perché ha raggiunto un livello oltre il quale non si può andare se non cambiando «...i rapporti di produzione esistenti, cioè...i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione)...».

A me sembra una riedizione del determinismo maggioritario nella II° Internazionale che innova la forma da lineare per tappe progressive a circolare con cui, come nel gioco dell'oca, si può sempre tornare in partita ripartendo dall'inizio, in una «naturalizzata» società antagonistica con la inossidabile lotta di classe, con il seguito della lotta salariale, l'esercito industriale di riserva e con il richiamo di masse sempre maggiori dal terzo mondo per fare concorrenza al ribasso ai lavoratori autoctoni, rigorosamente previsto da non so bene quale complotto globalista. Non si può, quindi, non vedere nella comune battaglia per la sovranità nazionale la prospettiva futura, esattamente come nella maggioranza socialdemocratica della II° Internazionale in quel frangente.

Al contrario, il welfare keynesiano, che è un «nostro» prodotto e che è stato un grande successo, ha raggiunto il suo limite. Le crisi fiscale degli Stati, la crescita di nuovo della disoccupazione dopo i «trenta gloriosi», non sono il frutto di un complotto, ma il nodo ineludibile , delle politiche keynesiane, che sarebbe venuto a maturazione come avevano previsto gli economisti conservatori, tipo Friedrich Von Hayek e Milton Friedman ma, molto prima di loro, ci aveva pensato lo stesso Keynes ad avvertirci che le sue politiche avrebbero funzionato per un periodo e che poi ne sarebbero state necessarie altre. Tipo, per farla breve, giornate di lavoro di tre ore e settimane di 15 ore, naturalmente senza decurtazione di salario e, ancora, l'eutanasia dei percettori di rendita da capitale, perché ce ne sarebbe stato e ce n'è, fin troppo e la società non sarebbe stata più in grado di valorizzarlo, cioè di mettere a lavoro (salariato) altre forze per estrarne valore. Ma per procedere in questa direzione non bastano le formule matematiche, è necessario un processo di trasformazione delle individualità che produca la consapevolezza della sopraggiunta non più necessità del dominio del Capitale, che non può esistere senza il suo antagonista, cioè il lavoro salariato.

Qui non basta Keynes, ci vogliono Marx e Engels, il problema è che, a differenza del periodo di quando la crisi spingeva alla prima guerra mondiale, non c'è stato nessuno (parlo di forze organizzate, politiche o culturali), sia pure minoranza, che abbia saputo indicare, sia pure confusamente, una via d'uscita progressiva, in grado di rendere inefficace la tendenza spontanea, al ritorno delle politiche liberiste.

Forse anche perché il volontarismo e l'ideologismo, non bastano a veicolare la sfida per un obiettivo ancora più ambizioso, in fondo si trattava e si tratta di affermare che «...Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana».

Forse è bene ribadirlo, il percorso del movimento operaio marxiano ha un orientamento ben definito che sta sul piano della storia universale dell'umanità, non è un qualcosa di arbitrario, imposto da una ideologia. Siamo partiti rompendo il carattere corporativo delle società di mutuo soccorso per portarle dall'assistenza al miglioramento, fino alla resistenza. Abbiamo combattuto le tendenze anarchiche agendo l'antagonismo per aumentare i salari, si sono costruiti sindacati per affermare la contrattazione e ridurre l'orario di lavoro, si è combattuto, soli, contro il colonialismo e la guerra, rompendo la II° Internazionale e, contro l'economicismo e il determinismo, abbiamo affermato la necessità del dominio della politica sull'economia, abbiamo sostenuto la lunga guerra civile europea contro la borghesia e così affermato il Welfare nei paesi europei a capitalismo sviluppato, che ha consentito di poter sviluppare le forze produttive a livelli che il Capitale da solo, senza lotta di classe, non avrebbe potuto raggiungere.

Un percorso complesso, difficile, quasi sempre drammatico, per niente predeterminato, che però, ci ha portato a dover valutare se non si era raggiunto il livello oltre il quale o si concepisce una nuova forma della proprietà, che riguarda tutti gli individui oppure ci debba essere «la comune rovina». A me pare inconcepibile parlare di vittoria del Capitale.

In conclusione.

A me pare che le tesi che argomentano sulla tematica della sovranità nazionale siano sbagliate nella sostanza e non pertinenti alle necessità. Ciò detto resta tutto da costruire, mi pare che siamo lontani mille miglia, non solo da un adeguato apparato teorico all'altezza dell'attualità, ma lontani anche da ciò che, sia pure da minoranze e sia pure ricorrendo al volontarismo e all'ideologismo, riuscirono a fare le minoranze socialiste di sinistra negli anni '10 del '900, che pure aprirono una prospettiva di validità universale.

Facciamo un esercizio di storia controfattuale, si pensi a cosa sarebbe stato se in minoranza fossero finite le posizioni interventiste nella sinistra europea e si fosse concretizzata in tutta Europa la parola d'ordine leniniana della «guerra alla guerra». Non per fare la storia con i «se e con i ma», ma ci saremmo probabilmente risparmiati due guerre mondiali e una guerra civile strisciante durata 28 anni, per affermare il dominio della politica sull'economia, che poi, dal '45, è diventato patrimonio comune.

Le insurrezioni successive, post guerra mondiale, in Germania, Ungheria e, anche Italia, non hanno lo stesso valore, sono tardive e con spinte imperialistiche vittoriose, tanto che studiosi di destra, alla Nolte, hanno potuto parlare di guerra civile europea, dove il fascismo e il nazismo appaiono quale risposta al bolscevismo.

La guerra civile leniniana doveva impedire la guerra o interromperla in tutta Europa e imporre il dominio della politica sull'economia e la società civile, così come era nell'ordine possibile e necessario delle cose; ma la maggioranza socialdemocratica non seppe vedere, accecata dal suo determinismo economicista, causando l'ecatombe dei proletari e trentanni di ritardo nell'avanzamento della storia.

La sinistra oggi non sembra in grado nemmeno di dividersi produttivamente; a chi ha scelto le magnifiche sorti e progressive del liberismo, sia pure per mitigarlo, non corrispondono altri che sappiano indicare, (attenzione!) all'intera umanità, il percorso da intraprendere all'altezza della storia universale.

ùMolte sono le critiche puntuali su aspetti parziali della situazione che ci si presenta, seguite anche da mobilitazioni importanti, a volte imponenti (il movimento dei movimenti), di resistenza alla pestilenza del liberismo, ma nessuno sembra in grado di offrire un quadro interpretativo organico in grado di consentire la comprensione della realtà e di proporsi di modificarla, così come ci indicano Marx e Engel, ma anche Keynes. In fondo, forse, si tratta di ricominciare a leggerli e studiarli. Ecco qua, a me preoccupa che non si riesca a intavolare una discussione su questi aspetti dirimenti e che si preferisca l'epiteto all'argomentazione (sinistrati, radical scik, rossobruni...). Evidentemente la sinistra, tutta, è a corto di argomenti anche per discutere al proprio interno e questo mi preoccupa, molto!


Immagine di copertina liberamente ripresa da upload.wikimedia.org

 

Ultima modifica il Venerdì, 03 Agosto 2018 15:40
Mauro Lenzi

Pensionato, una vita nella CGIL, di cui è stato anche nella segreteria regionale, consigliere provinciale per due mandati legislativi fino al 2004, successivamente nel Consiglio Comunale di Colle di Val d'Elsa, dove già era stato eletto nel 1980 è stato nominato Assessore nel corso di questo mandato.

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