Il pretesto dei tanti detrattori questa volta non era un presunto accordo tra Ong e trafficanti di esseri umani (sic!) ma un “compromettente” smalto sulle unghie che ha dato adito a una fervida fantasia che faceva della donna un’abile attrice e di tutta la tragedia del naufragio, che per altro, ha causato la morte di due donne e un bambino, una montatura fatta a tavolino per creare scandalo. Lo scandalo è semmai dover leggere commenti del tipo: «È un’attrice», «Non c’è stato alcun naufragio», «Si è rifatta le unghie tra un naufragio e l’altro», «Funziona come Cocoon, dopo 48 ore in acqua sei più bella». Cinismo disumano prima ancora che razzismo1. In questo articolo non ci impegneremo a smontare l’assurdità di tali affermazioni – cosa che è già stata fatta da importanti testate2 –, poiché quello che ci preme è constatare quanto ormai anche la potenza di certe immagini non riesca a innescare nessun sentimento di empatia e solidarietà in un “pubblico” sempre più assuefatto e sempre più indifferente alla disperazione di determinati individui.
Qualche anno fa si pensava che l’immagine straziante del piccolo Alan Kurdi3 avrebbe potuto contribuire a cambiare il modo di guardare al fenomeno dell’immigrazione, non soltanto rispetto alla reazione che ha avuto sull’opinione pubblica, ma anche rispetto al modo di approcciarsi alla questione migratoria da parte della politica nazionale e della comunità europea. Il piccolo Alan è diventato il simbolo della sofferenza e della morte che può incontrare chi attraversa il Mediterraneo, ma evidentemente né prima di questo episodio né successivamente la sinistra ha avuto la capacità di mettere a punto un discorso politico efficacemente alternativo alla retorica leghista, forse perché impreparata, in un momento di crisi di identità e di valori. Si è persa quindi nuovamente l’occasione di creare una vera e propria cultura e politica dell’accoglienza e dell’integrazione al di fuori delle logiche dell’emergenza perenne quando ancora forse era possibile fare leva su un’opinione pubblica più incline di adesso a manifestare un minimo vicinanza e comprensione verso il migrante. Oggi sembra ancora più difficile cercare di sensibilizzare le persone a certe tematiche, in un panorama politico e culturale in cui l’odio sociale verso coloro che sbarcano sulle nostre coste è sempre più legittimato e giustificato perché fonte di un consenso che pare inesauribile.
Adesso sembra impossibile ribaltare la narrazione dominante soprattutto per due ragioni che secondo chi scrive sono state determinanti per contribuire a provocare una sconfitta culturale della sinistra in materia di migrazione. In primo luogo, come su molti altri temi, lo smarrimento ideologico, valoriale e identitario della sinistra degli ultimi trent’anni ha permesso che si aprisse un vuoto di idee e di proposta politica che l’ha resa incapace di affrontare la nascente questione migratoria. Un po’ per la novità della problematica a cui far fronte, un po’ per il disorientamento generale e la ricerca di un ricollocamento politico della parte maggioritaria di una certa sinistra, intenzionata a porsi come forza di governo per il Paese; l’incapacità di costruire un discorso politico convincente intorno alla questione migratoria era sia politica che culturale.
L’avvento di Internet e l’utilizzo sempre più massiccio dei social media da gran parte dell’opinione pubblica hanno poi favorito ulteriormente la semplificazione del messaggio politico di una sinistra in cui il dibattito politico interno si impoveriva al diminuire della militanza e delle adesioni ai maggiori partiti, tanto da non riuscire ad accompagnare le narrazioni, le storie e le immagini di sofferenza dei migranti con una adeguata strategia politica e delle proposte strutturali e di lungo termine capaci di uscire dalla logica della contingenza del soccorso immediato per favorire un sistema di accoglienza più efficiente e una reale integrazione.
Di fronte a un tema davvero spinoso e complesso come quello dell’immigrazione, certamente non esistono soluzioni semplici ma dal nostro punto di vista, uno degli errori commessi dalla sinistra è stato quello di elaborare soluzioni politiche non corrispondenti a una cultura politica riconoscibilmente alternativa alla narrazione delle destre. In altre parole, non si è riusciti a creare un immaginario politico collettivo del fenomeno della migrazione che andasse al di là della visione del soccorso in mare, dell’interventismo per la salvezza di vite; e anche di fronte a tematiche più complesse quali accoglienza e integrazione, è evidente l’incapacità di trovare soluzioni di lungo termine in grado di facilitare l’approdo del migrante nella società, agendo sulla comunità prima di tutto per dotarla dei giusti anticorpi contro il rischio diffidenza, intolleranza e xenofobia, oggi sempre più dilaganti.
La debolezza della proposta politica della sinistra – e qui arriviamo alla seconda ragione della sconfitta culturale a cui alludevamo – ha provocato quel vuoto di idee e di visione politica che la retorica della destra ha saputo riempire alla perfezione, costruendo una realtà parallela che trasforma la vittima – il cosiddetto migrante economico e/o il richiedente asilo – in un usurpatore, in una distorsione mentale secondo cui i diritti universali diventano patrimonio esclusivo e privilegio dei soli cittadini italiani. Seguendo questa visione semplificatoria il respingimento del migrante, la chiusura dei porti, il “rimandiamoli a casa loro” può avvenire solo in quello che è fatto passare come un contesto di emergenza: un’emergenza che è umanitaria perché se ci fossero meno sbarchi non si morirebbe in mare, che è sociale perché non ci sarebbero tensioni fra italiani impoveriti e stranieri, che è economica perché risparmiando sull’accoglienza si sgraverebbero le casse dello stato.
Nonostante la realtà confuti facilmente queste argomentazioni, ormai diventate dei veri e propri luoghi comuni, il consenso verso questo edificio retorico è talmente solido che niente sembra poterlo scalfire, tanto che negli ultimi anni persino i precedenti governi di centrosinistra non hanno saputo respingere la retorica leghista ma hanno agito nell’ottica di assecondare il clima di sempre maggior insofferenza e sospetto nei confronti del migrante, appiattendosi di fatto su soluzioni politiche che richiamano a una visione securitaria della società appartenente alla destra. A tal proposito possiamo riportare alla memoria l’indecente accordo con la Libia, frutto del decreto Minniti-Orlando sotto il governo Gentiloni, ma si può tornare anche molto più indietro, alla legge Turco-Napolitano del 1998 sotto il primo governo Prodi che inaspriva le misure per contrastare l’immigrazione irregolare e inaugurava la nascita dei Cpt (centri di permanenza temporanea) degenerati poi in Cie (centri di identificazione ed espulsione) con il “pacchetto sicurezza” del 2008/2009 sotto il governo Berlusconi.
In questo modo si è contribuito a sedimentare un tipo di cultura (o meglio, un’ “anti-cultura”) vuota, superficiale e, addirittura, istintuale e primitiva, violenta e aggressiva. Un’“anti-cultura” priva di una reale struttura poiché fondata prevalentemente su una retorica e un linguaggio che anziché favorire il pensiero critico e uno svisceramento della complessità del reale mira a una facile decostruzione puramente verbale – in quanto non accompagnata da una contro-verifica – dei dati, delle argomentazioni di esperti in tema, delle analisi che cercano di dar conto della complessità della tematica, delle statistiche e dei numeri e che, come ultimo dei suoi affondi, decostruisce e dunque annichilisce persino la stessa umanità e la stessa soggettività del migrante. È in un simile panorama che la percezione del reale si sostituisce alla realtà dei fatti ed è su questa percezione che il discorso politico fa leva, così come fa leva sugli istinti più bassi (come paura, odio, aggressività) rinunciando a dover trovare soluzioni concrete a una questione complessa come quella della migrazione che è diventata un mero contenitore di parole d’ordine (“la pacchia è finita”, “qui non sbarca più nessuno”, “chiudiamo i porti” ecc.), propaganda, tweet a ripetizione, luoghi comuni.
E questa anti-cultura è stata così interiorizzata e ha piantato così a fondo le sue radici che nemmeno la potenza di un’immagine o di una storia (perché le storie dei singoli o i loro sguardi di solito innescano maggiore empatia rispetto a una folla anonima di numeri) riescono a bucare lo schermo di quella che ormai si è affermata come incontrovertibile narrazione percepita come l’unica reale e veritiera e che spinge a cercare, come nel caso di Josefa da cui siamo partiti, assurdi elementi che mettano in discussione la tragedia del naufragio o la drammatica verità delle morti in mare senza prendere in considerazione la reale motivazione che spinge alcuni esseri umani a fuggire o a cercare il proprio destino altrove, nella speranza di costruire un futuro migliore lontano dai luoghi di origine.
L’errore è stato proprio quello di lasciar fomentare questo tipo di visione, di alimentare, restando passivi, una cultura brutale e disumanizzante senza edificare una “contro-cultura” efficace, una cultura accompagnata da un agire polito che rispondesse in maniera complessa e non semplificatoria a una questione tanto complessa. Non esistono soluzioni facili a un problema intrinsecamente difficile, ma oggi, più di ieri le possibilità di risultare incisivi nel proporre una narrazione alternativa a questa deriva di umanità (sia di coloro che annegano sia di coloro che guardano, semi-indifferenti, annegare) sembrano sempre minori. Ovviamente non basta limitarsi alla commozione davanti a un’immagine, ma bisognerebbe cominciare a chiedersi e a lavorare seriamente anche sul perché quelle immagini non tocchino ormai quasi più nessuno e cosa poter fare per dare delle riposte politiche e culturali che contrastino seriamente l’assuefazione, l’indifferenza e l’odio che quell’anti-cultura e quel linguaggio di cui abbiamo accennato stanno ispirando, costruendo di fatto una realtà che pare sia l’unica ad essere data, pensata e agita come vera, contro anche ogni altra palese evidenza.