La nave, il 14 agosto scorso, ha trasbordato 190 migranti che si trovavano a bordo di un barcone in acque maltesi. Le autorità locali maltesi infatti, pur avvistando il barcone (“mezzo inadatto alla navigazione”), avevano deciso di non intervenire lasciando che questo navigasse verso le coste italiane dove viene intercettato dalla Diciotti che carica a bordo le persone: 13 di loro in condizioni di salute critiche vengono fatti sbarcare a Lampedusa, ma gli altri 177 rimangono a bordo in attesa di sapere quale sarà il loro destino.
Per giorni la nave militare ha atteso il via libera al largo dell’isola di Lampedusa, dopo il diniego da parte del governo di Malta di attraccare sulle sue coste e la minaccia del nostro ministro degli interni Matteo Salvini di respingere i migranti in Libia se altri paesi dell’Unione Europea non si fossero presi carico di una parte di loro. La partita a pingpong tra Salvini e il governo maltese “per scaricarsi reciprocamente i migranti” avrebbe qualcosa di grottesco se non fosse profondamente drammatica, proprio perché quello che le due controparti si rimbalzano a suon di dure parole non è una pallina ma sono persone in carne e ossa e particolarmente vulnerabili, dato che su di loro già grava un passato di abusi, violenze, dolore, paura, e la posta in gioco non è il risultato su un tabellone ma la stessa dignità dell’essere umano e il suo benessere psico-fisico.
Solo il 21 agosto, dopo cinque giorni di stasi, arriva la notizia – o meglio, il tweet di Danilo Toninelli – attestante il fatto che alla fine la nave sarebbe attraccata a Catania. Tuttavia l’abomino non finisce qui. La nave, che effettivamente ha attraccato nel porto di Catania è ad oggi bloccata lì, in attesa di poter far sbarcare le persone a bordo, dato che il Viminale non ne ha ancora autorizzato lo sbarco, usando le persone a bordo come merce di scambio per ricattare l’Europa, minacciando – e gli fa eco anche Di Maio – di togliere i contributi italiani all’UE se i paesi europei non “accettano i migranti”.
Soltanto i minori non accompagnati sono stati fatti sbarcare e sono stati affidati alle cure dei soccorritori. Gli operatori di Terre des Hommes e di Medici Senza Frontiere parlano di “27 scheletrini” riferendosi ai ragazzini soccorsi, la maggior parte dei quali è rimasta reclusa in Libia per oltre un anno. La psicologa di Medici Senza Frontiere, Nathalie Leiba è riuscita a raccogliere alcune delle loro storie che rivelano vessazioni e violenze subite in Libia, tra cui quella di un bambino che fa fatica a vedere poiché era stato detenuto in Libia per un anno al buio. E come loro anche gli altri 150 rimasti a bordo della nave hanno sulle spalle il trauma di un vissuto che per noi non è neanche immaginabile. Le condizioni psicologiche e fisiche di queste persone sono molto fragili, pertanto sono soggetti ancor più vulnerabili e che più di altri richiedono attenzioni, tutela e cura e non un trattamento così disumano e deprivante la loro libertà personale.
Oltre alla paura e alle pene del viaggio, che è sempre una scommessa con la morte, oltre alla pesantezza tragica del proprio passato, si aggiunge così a un carico di disperazione e angoscia, anche questo stallo meschino, che li costringe a stare 24 ore al giorno sotto il sole in preda dell’umidità e alle burrasche estive, con solo due bagni chimici a bordo, e probabilmente, provando un senso di umiliazione per l’essere stati desoggettivati e ridotti a mera posta in gioco, a oggetti di scambio, vedendosi strappata vigliaccamente la loro intelligibilità di esseri umani che dovrebbero avere diritto, come tutti gli esseri umani su questa terra, alla propria salvezza e al proprio benessere fisico e psicologico, doppiamente leso dagli abusi subiti nei paesi d’origine e in Libia e infine da quelli, sebbene differenti, che stanno subendo adesso in questo stato di tragica sospensione del proprio essere.
Salvini più volte ha ribadito che le loro condizioni sono ottime e che sono continuamente monitorati. Sicuramente gli operatori della nave stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per garantirgli le migliori condizioni possibili, ma queste, come accennato, sono limitate dalla contingenza del contesto, del luogo in cui si trovano, degli spazi a disposizione, del clima aggressivo e umido del porto, del sole cocente di Catania, della spossatezza, della stanchezza e della paura che queste persone si può immaginare stiano provando. Queste non possono essere “le migliori condizioni”, nemmeno a voler pensare come Pangloss, che si ostinava a credere nel migliore dei mondi possibili, anche laddove l’evidenza dimostrava il contrario, perché no, non può essere questo il migliore dei mondi possibili.
E che non lo sia affatto, il migliore dei mondi, lo stanno sperimentando sulla propria pelle le 150 anime a bordo della Diciotti. È questo il prezzo che stanno pagando – e continueranno a pagare – le persone a bordo della nave, così come quelle che erano a bordo dell’Aquarius: la lesione della propria dignità di persone, del proprio status di persone, della propria riconoscibilità di persone; la loro degradazione a oggetto interscambiabile, barattabile, contrattabile, la loro disponibilità nel senso etimologico del termine (disponere, ovvero “porre a proprio luogo, con un certo ordine, secondo un dato fine o disegno voluto”1; disporre di, che se ne può disporre), il loro divenire strumento di contrattazione, di scambio, di ricatto soprattutto. Il loro esser diventati ostaggio di una politica disumana e aberrante, una politica che vive di slogan, propaganda feroce, invettive che mirano a colpevolizzare, individuare un nemico, un capro espiatorio contro cui far riversare la frustrazione degli italiani.
Addirittura il ministro dell’Interno ha definito illegali questi esseri umani. Come si fa a definire illegale una persona indipendentemente dalle sue azioni? Qui infatti viene stigmatizzato come illegale un soggetto non per ciò che è stato dimostrato aver fatto ma per ciò che quel soggetto di per sé è, o meglio, per l’etichetta che gli si affibbia addosso, per lo status con cui viene percepito e reso riconoscibile e identificabile dalla comunità. Un essere umano termina di essere tale perché tutto il suo essere viene annullato e inglobato nel suo essere per altri, nella definizione che il mondo gli dà, definizione che slitta da un piano semantico a un piano ontologico, così che quell’essere umano non è più tale, perde tutto il bagaglio della propria umanità, della propria soggettività, per diventare solo “il migrante”, di per sé termine neutro ma che spesso si carica di tutto un immaginario, una retorica, una narrazione, un apparato semantico, definitorio ed asseverativo stigmatizzante e negativo.
L’essere “migrante” diviene così l’unica caratteristica che identifica e qualifica – per lo più negativamente – questi soggetti, deprivandoli di una qualsiasi altra individualità (o meglio, della possibilità stessa di una qualsiasi altra individualità, una qualsiasi altra soggettività), svilendone l’identità di persone e cancellando la loro stessa riconoscibilità come esseri umani, rendendoli in tal modo identificabili e intelligibili unicamente attraverso lo “status” desoggettivante che gli viene incollato, lo status di migrante appunto. Che immediatamente diventa, implicitamente o, spesso, esplicitamente migrante irregolare, clandestino e criminale. Per Salvini (e chi persegue una simile politica) evidentemente l’essere migrante implica già di per sé la sua illegalità.
Ma illegale è un’azione, un comportamento, un potere, a volte persino il linguaggio, e, giuridicamente e normativamente parlando, illegale si applica a chi, appunto commette qualcosa di illegale, senza intaccare comunque il suo statuto ontologico di persona. Un individuo però non è o non dovrebbe risultare illegale semplicemente per ciò che è e rappresenta, per lo statuto che gli abbiamo conferito, anziché per ciò che ha commesso. Definire qualcuno “illegale” per ciò che ontologicamente è, significa spogliarlo non solo del suo status giuridico di persona e dunque bandirlo dallo stesso stato di diritto ma anche degradarne lo status ontologico considerato “fuori legge” per sé stesso, per la sua stessa natura ontologica. Salvini è abile nel ricamare, attraverso ogni parola che usa, attraverso ogni espressione declamata a gran voce e fatta risuonare sui social media (dalla “pacchia”, ai “migranti palestrati”, alle “persone illegali”), un immaginario che fa del migrante un nemico prima ancora di approdare in Italia.
In questo modo qualsiasi atteggiamento che in altri circostanze o diretto verso altri soggetti, lederebbe la dignità e i diritti umani, sembra essere autorizzato in nome della “tutela dell’ordine pubblico e della collettività” (parole usate anche dal ministro Giulia Bongiorno durante una puntata di In Onda), innescando l’idea di una “guerra virtuale, potenziale” (che in realtà è unidirezionale) contro l’invasione di un pericoloso nemico: se siamo in “guerra”, ogni mezzo è necessario e giustificabile pur di garantire la difesa pubblica di coloro che sono considerati i legittimi cittadini da proteggere dal nemico. Nemico che appunto è disegnato e propagandato come illegale, fuori legge e perciò bannabile, espellibile, “osteggiabile”, riducibile a oggetto e strumento di baratto, di ricatto.
Applicando però la definizione aprioristica e incondizionata di illegalità al migrante, viene confuso il piano normativo e giuridico con quello ontologico: dichiarare qualcuno illegale significa trasporsi sul primo livello, il che implicherebbe però, da parte di chi si vi si pone, una cognizione dello stesso concetto normativo di persona, mentre in questo caso vi è una confusione tra il concetto giuridico di persona e quello ontologico. Illegale, nel caso delle parole usate dal ministro, non è giudicata una persona a causa di suoi comportamenti ritenuti illegali da norme giuridiche o morali, bensì illegale è qui la persona nella propria qualificazione ontologica, nel suo essere e non nel suo fare, è illegale per ciò che ontologicamente è – un migrante, dunque un nemico, un irregolare, dunque un criminale – e non per ciò che ha fatto o fa.
Non solo, ciò che viene sovrapposto è anche lo stesso linguaggio normativo su quello del linguaggio quotidiano, ostentando così una sorta di legittimazione giuridica nell’usare espressioni puramente populistiche e propagandistiche, oggi ancor più amplificate e reiterate in maniera martellante dal linguaggio digitale e mediatico. Si tratta di un’operazione di “inquinamento semantico-linguistico tra linguaggio ordinario, politico e linguaggio giuridico. […] Il linguaggio politico si alimenta delle forme più minacciose del populismo, facente leva sul triangolo immigrato, immigrato-clandestino, immigrato delinquente e sulla politica di esclusione attraverso l’inferiorizzazione culturale e biologica. La metafora principale era, ed è ancora oggi, quella dell’immigrato-nemico. […] La metafora del nemico richiama, immediatamente, l’idea che vi sia una guerra da combattere. […] Se vi è una guerra in atto, vi è una sola risposta logica, appunto l’autodifesa”2.
Con la legge Bossi-Fini poi, questa metafora che si impone come narrazione unica diventa norma giuridica e il migrante diviene, appunto, una persona illegale. Nell’ambito giuridico “Si tratta […] di un concetto normativo in forza del quale certi comportamenti assumono rilevanza giuridica o morale, non in quanto tali, ma in virtù di una loro qualificazione da parte di norme morali o giuridiche. In altre parole, si è «persona» quando certe norme, morali o giuridiche, obbligano o autorizzano certi comportamenti. Non si è, quindi, «persone» in base a connotati ontologicamente fondati, bensì in base al trattamento normativo predisposto per certi comportamenti”3.
Ma se questo concetto normativo si applica in generale, potenzialmente, a ciascun soggetto, diventa altra cosa quando lo si usa nel definire i migranti soggetti illegali “sancendo sanzioni per «modi d’essere», per status, piuttosto che per «comportamenti». In questo mutato quadro non si è più «persona in senso giuridico» in quanto titolare di diritti e obblighi attribuiti da norme giuridiche in relazione ad atti ben determinati, bensì si diviene «persona in senso giuridico» grazie all’appartenenza a una particolare «specie» di uomo, che il diritto può qualificare come «illegale» alla luce di connotati ontologici della cosiddetta «natura umana»”4.
Come se il migrante fosse ontologicamente “nemico di tutti” (secondo la celebre espressione di Heller-Roazen), ontologicamente fuori-legge, ontologicamente illegale semplicemente per ciò che è e rappresenta. È il suo “status” di migrante che assume valore di illegalità giuridica. Un’illegalità sancita per un modo d’essere, per l’appartenenza a una categoria (in tal caso quella dei “migranti” o dei “clandestini”) cui è attribuito valore di irregolarità e illegalità. Persone che non arrivano in Italia tramite un regolare visto sono per Salvini illegali, clandestine, indipendentemente dal fatto che probabilmente fuggono da abusi, torture, dittature, guerra possa aver impedito a queste persone di avvalersi delle procedure legali di fuoriuscita dal proprio paese.
L’Europa ha chiamato “ostaggi” i 150 uomini e donne a bordo della Diciotti e la procura ha aperto “un fascicolo contro ignoti” per sequestro di persona. Ma Salvini va avanti, immune a tutto questo, anzi fiero di restare sulle proprie ferree posizioni, convinto che presto farà scendere l’Europa a patti così da incassare l’ennesimo plauso dell’opinione pubblica. Quello che infatti sta facendo il ministro dell’interno non è deprecabile e condannabile soltanto da un punto di vista etico e, per così dire, civile, ma anche da un punto di vista giuridico.
Salvini non pecca solo di brutalità che lede qualsiasi spontanea norma di civiltà, qualsiasi norma di rispetto verso l’altro, chiunque esso sia, ma pecca anche di ignoranza, perché dimostra di non conoscere bene né la Convenzione di Ginevra, né la nostra Costituzione, né gli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (D.U.D.U), firmata a Parigi nel 1948, in risposta alle nefandezze del nazifascismo, e promossa dalle Nazioni Unite affinché avesse valore per tutti gli stati membri. All’articolo 13 di quest’ultima si legge che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato” e, al punto numero 2 dello stesso articolo che “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”.
Invece, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sancisce chiaramente il principio di non respingimento, affermando che “Nessuno stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Le persone soccorse dalla Diciotti provengono da paesi “ a rischio” (la maggior parte di loro proviene dall’Eritrea) e dunque sono potenziali richiedenti asilo, impedirne lo sbarco compromette la valutazione delle singole situazioni e l’iter di assegnazione dello status di rifugiato a soggetti vulnerabili.
Ad ogni modo, indipendentemente dal loro essere potenziali richiedenti asili (cosa alquanto probabile), il trattenimento aberrante che stanno subendo e la limitazione della propria libertà personale implica anche una violazione della nostra stessa Costituzione che all’articolo 13 dichiara che “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria" e, all’articolo 10 che “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge".
Stesso principio è ribadito dal Codice Penale che all’articolo 605 stabilisce che “chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni” (e le persone a bordo della Diciotti sono stati effettivamente privati della libertà personale senza che la decisione sia stata presa da un magistrato). E ancora: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) all’articolo 3 stabilisce il “divieto di trattamenti inumani e degradanti, soprattutto se sono coinvolti soggetti vulnerabili come minori o persone traumatizzate”. Inutile ribadire che queste persone hanno subito traumi inimmaginabili e ora si trovano a dover subire l’ennesima vessazione.
Purtroppo sembra anche inutile ricordare al Ministro norme che in fondo, probabilmente, lui stesso conosce, perché sembra che la realtà sancita dalle norme del diritto, dallo stato di diritto, così come dalle norme etiche e di buon senso civile e convivenza democratica – che dovrebbero garantire un istintivo moto di soccorso verso chi si trova in palese difficoltà, verso chi è avvertito come particolarmente vulnerabile – sia soppiantata dalla realtà creata dalla narrazione salviniana. Una narrazione che, si potrebbe dire, rimanda un po’alla costruzione schmittiana di amico-nemico. L’individuazione, o meglio, la costruzione di un nemico – che sia interno o esterno – da parte dello Stato legittima quest’ultimo a far valere la sua norma legale tanto da “affrontare il nemico in uno scontro totale” anche se ciò implica la rottura dell’ordine costituzionale.
Salvini sembra muoversi in una sorta di perenne “stato d’eccezione” giustificato dal pericolo del nemico e, come abbiamo detto, dall’obbligo di tutela dell’ordine pubblico e della collettività, che gli fa credere di avere l’autorizzazione a violare qualsiasi norma del diritto stesso, nazionale e internazionale. Ma noi non siamo in uno stato d’eccezione, né in uno stato di emergenza, dunque il diritto non può essere sospeso, non può essere messo tra parentesi come nel caso, appunto, di uno stato di eccezione, che conferirebbe il diritto allo Stato, di operare anche contro il diritto stesso.
Nemico è da intendersi nel senso che ne dà Carl Schmitt – da cui ovviamente ci discostiamo da un punto di vista ideologico (Schmitt fu uno dei sostenitori del regime nazista ma anche un grande teorico del diritto e del pensiero politico): “Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base a una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio”.5
Mentre l’inimicus è il nemico privato, L’hostis è appunto il nemico pubblico, il nemico che si carica di rilevanza politica in quanto avverso all’intera comunità. E l’hostis prima ancora che nemico è lo straniero: “Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo o esteticamente brutto. […] Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”6.
Scatta l’assioma per cui di colui che è estraneo alla comunità si deve supporne l’ostilità, la minaccia. Ed è proprio questa costruzione simbiotica tra straniero e nemico, fatta passare come naturale e sostanziale, questa automatica equazione tra i due elementi evocata dalla figura dell’hostis che emerge prepotentemente nelle derive xenofobe del nostro tempo, nella paura dello straniero, nell’odio verso di lui, nel definire “illegale” o irregolare” la sua “estraneità”, quella che appare come una radicale alterità rispetto all’occidente.
Nell’ottica schmittiana e nell’ottica xenofoba di molti dei governi attuali lo straniero è essenzialmente, ontologicamente nemico della comunità, è l’hostis per eccellenza, dimenticando che nel latino arcaico questo termine – come ci ricorda anche Cicerone – , non implicava l’idea di ostilità, bensì quella di ospitalità, di reciprocità. Come osserva Umberto Curi “in origine hostis è una figura alla quale mi lega un rapporto che non è di ostilità, ma di compensazione, nel senso che sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto”7.
Sebbene questa definizione portasse Schmitt a conclusioni differenti dal contesto in cui ci stiamo muovendo (la guerra totale come prosecuzione della politica, detto in soldoni e metaforicamente questa ipotesi non è neanche così lontana da quello che portano avanti i governi xenofobi e sovranisti: una guerra, magari non armata, ma pur sempre efferata allo straniero, al migrante), a parere di chi scrive, l’identificazione del nemico come nemico pubblico in quanto paradigmatico di un raggruppamento umano altro, straniero e automaticamente ostile rispetto alla comunità che lo stato si sente in dovere di proteggere, calza abbastanza bene nel caso del migrante.
Questo infatti, come abbiamo accennato, costituisce una minaccia proprio in quanto rappresentante di una alterità che “virtualmente lotta” contro la “nostra società”, la “nostra comunità”, “il nostro raggruppamento umano”. Il nemico costruito da Salvini è anche quello che, come accennato precedentemente, Heller Roazen chiama “il nemico di tutti”. Nel caso dell’autore il nemico di tutti era il pirata, paradigma del nemico totale, universale, in quanto situato in una zona non zona, uno spazio extra-spaziale, extra-territoriale. Contro un tale nemico lo stato si sente autorizzato ad applicare e giustificare strategie politiche e militari straordinarie, eccezionali, in nome della sicurezza e della tutela dei “propri cittadini”.
Per Salvini non è il pirata ma il migrante il nemico di tutti contro cui qualsiasi mezzo può venire giustificato e legittimato, perché anche il migrante ha perso una sua territorialità, è extra-spaziale, e come ha perso una territorialità ha perso anche un’identità, si vede annullato il processo di soggettivazione e di riconoscimento nella sua individualità di essere umano, vedendosi assegnato uno status – quello di migrante e migrante irregolare – che finisce per diventare un contenitore vuoto, una forma senza più sostanza, un’identificazione senza identità.
Per fortuna non proprio tutti sono disposti a lasciarsi irretire dalle trame di questa narrazione costruita attraverso strategie comunicative e psicologiche che hanno finito per creare una realtà percepita come l’unica veritiera. Per fortuna c’è ancora chi risponde al nemico di tutti non puntandogli il dito contro, ma offrendogli degli arancini in segno di accoglienza, ospitalità e istintiva, umana empatia.
1 https://www.etimo.it/?term=disporre
2 S. Salardi, Discriminazioni, linguaggio e diritto. Profili teorico-giuridici. Dall’immigrazione agli sviluppi della tecno-scienza: uno sguardo al diritto e al suo ruolo nella società moderna, Collana Univ. Milano Bicocca-Scuola di Giurisprudenza, G.Giappichelli Editore, Torino 2015, p. 120.
3 Ivi, p. 121.
4 Ivi, p. 122.
5 C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna, 1984, p. 111.
6 Ivi, p . 118.
7 U. Curi, Lo straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 59.
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