Domenica, 05 Gennaio 2014 00:00

Renzi e il populismo dei moderati italiani

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Matteo Renzi moderato?

Per lungo tempo Matteo Renzi è stato percepito come un rappresentante di punta, all’interno del Partito Democratico, dell’identità «moderata». A questa caratterizzazione hanno contribuito soprattutto due suoi orientamenti: la sensibilità verso la Chiesa cattolica e l’apertura alle esigenze degli imprenditori. Il primo punto è con il tempo andato scemando, mentre il secondo sembra essersi mantenuto.

Eppure, nonostante questa sua identità di «moderato» (rigorosamente tra virgolette, vedremo perché), è stato percepito come il candidato più di rottura, e non sono stati solo osservatori di destra ad assegnare a questa rottura un valore positivo. A torto o a ragione, persone di sinistra hanno visto in Renzi la figura più in grado di fornire una scossa energica all’azione del governo Letta, giudicata incolore, insoddisfacente, appiattita da un lato sulla tecnocrazia europea e dall’altro su alleati indesiderati ma necessari.

Infatti, sebbene la più forte critica dei rapporti politici interni ed esterni al Pd provenisse da Civati, Renzi aveva l’insormontabile vantaggio di più trasversali consensi e di ineguagliabile notorietà nel vasto pubblico. (Del resto, molti che si definivano “di sinistra” votarono Renzi già alle primarie fiorentine del febbraio 2009: elemento, questo, oggi ancora presente ma forse occultato dai numerosi elettori che lo hanno votato per il desiderio di vincere le elezioni prima ancora che per il desiderio di cacciare la vecchia dirigenza.)

Come è stato dunque possibile che il candidato «moderato» risultasse anche il candidato sovvertitore, radicale, o, come si è definito lui stesso, “ribelle”? 

Per tentare una spiegazione occorre anzitutto considerare l’evoluzione di Renzi nelle varie primarie a cui ha partecipato e collegarla all’identità dei «moderati» italiani.

2009 (primarie per la candidatura a sindaco di Firenze): tasso di laicità minore degli altri candidati sui temi di rilevanza nazionale come le unioni civili; sui temi locali si segnala per la forte contestazione dell’amministrazione comunale e dei dirigenti nonché per il fortissimo “campanilismo provincialista” (un tema sul quale prima o poi si dovrà scrivere un libro);

2012 (primarie per la leadership della coalizione di centrosinistra): campagna all’insegna di un liberalismo definito come grande calderone tra Obama e Reagan, fondato sull’esaltazione delle qualità individuali nei suoi aspetti positivi (libertà espressiva, creatività) e negativi (individualismo economico, primato del singolo sulla collettività);

2013 (primarie per la segreteria del Pd): mantiene i temi del 2012 annacquandoli però in una strana fraseologia di sinistra, che si potrebbe definire come “sinistra senza aggettivi diluita in acqua distillata”. L’acqua distillata in questione si compone di vari ingredienti (notevolissimo l’uso della lingua inglese), il principale dei quali risulta essere il costante spostare in avanti il limite delle contraddizioni (che è poi uno dei tanti possibili significati dello slogan #cambiaverso), e dissimulando questo movimento con una accattivante oratoria.

Orbene, per comprendere Renzi si deve assumere che questi tre volti non siano tre maschere che di volta in volta l’uomo ha vestito e svestito, bensì tre componenti integrali della sua identità politica (la quale peraltro, come tutte le identità serie e che si rispettino, non è statica bensì in continua (tras)formazione).

Chi sono i «moderati» italiani?

Ciò fatto, bisogna tentare di addentrarci in quel peculiarissimo significato che il termine «moderato» assume nella politica italiana. Berlusconi ha più volte rivendicato di aver unito e portato alla vittoria i moderati nel 1994: e chi, come me, sbigottiva di fronte alla definizione di Msi e Lega come partiti moderati (per non dire della politica anti-istituzionale e tutt’altro che moderata di Berlusconi), ha avuto ed ha il torto di non capire la profondità di significato che quel termine si porta dietro. «Moderati» risulta infatti un modo politically correct e meno colorito per riferirsi a quella che Giovanni Orsina ha definito «l’Italia anti-antifascista», quel pezzo di Paese che dell’antifascismo nel 1945 rifiutò due cose: il legame con la sinistra (spesso confuso con una pura identità e sovrapposizione) e il progetto di usare lo Stato per intenti (mi rifaccio sempre a Orsina) ortopedico-pedagogici, atti cioè a raddrizzare e rieducare gli italiani minati (qui Orsina cede il posto a chi scrive) nella loro costituzione morale da un’identità nazionale sorta con gambe deboli, incubata viziosamente, cresciuta in modo deforme. Questa opposizione è rimasta anche dopo che, con il trascorrere dei decenni, il ricordo e la netta consapevolezza del fascismo e dell’antifascismo sono andati impallidendo.

Il rifiuto dell’antifascismo si accompagnò infatti al fastidio verso due elementi meno contingenti, ovvero le istituzioni democratiche e i partiti politici democratici. C’è sicuramente una buona dose di ipocrisia perbenista nel pretendersi «moderati» quando in realtà è con fastidio che si sopporta la democrazia; tuttavia il termine ha certamente maturato un suo diritto d’uso e come tale dobbiamo accettarlo, sia pure virgolettandolo. Però, più che al moderatismo, questo anti-antifascismo, questo «antipartitismo di destra» (Orsina) riconduce semmai al populismo.

Non si tratta qui di discutere il carattere populista di Renzi: esso è innegabile, fin dal 2009, sebbene abbia attraversato varie sfumature (il populismo campanilista di Prima Firenze; quello anti-elitario contro la dirigenza del Pd; quello di cultura popolare che fa leva sulle grandi esperienze condivise di musica pop, rete web e calcio…). Si tratta invece di riconoscere che non solo non c’è contraddizione fra l’essere populista e l’essere «moderato», ma che, anzi, in Italia l’elettorato «moderato» ha marcata connotazione populista (e chi vuole esserne referente deve dunque comportarsi di conseguenza: en passant, così si spiega anche il fallimento del progetto montiano). La stessa Dc è stata sì votata dai «moderati» per respingere il comunismo, ma mal sopportando le sue pretese stataliste e la sua collocazione nell’antifascismo. Dopo il crollo del Muro questo elettorato si è potuto ricollocare in una posizione più congeniale ai suoi umori (attingo ancora liberamente da Orsina: Berlusconi è stato il primo leader politico a dire che gli italiani vanno bene così come sono e non c’è bisogno di migliorarli), ma si avrebbe torto sostenendo che con il Muro sia finita anche la paura del comunismo: per questo elettorato, una politica di lotta all’evasione fiscale è già il comunismo (non parliamo, poi, di una politica di tassazione sulla casa!).

Renzi populista morbido

È per questi motivi che diciamo che Renzi manifesta, culturalmente, una espressione tipica della destra italiana, cioè fondata sui tipici caratteri di rifiuto dell’intervento politico-partitico sulla società e di equazione tra questo intervento, l’antifascismo e il comunismo. Certo a questi due termini non si dà più il medesimo significato che nel 1945 o nel 1960 o nel 1975. Oggi che antifascismo e comunismo non hanno più la forza e l’impatto emotivo dei decenni passati, essi sono visti come esemplari particolari di un genere politico più ampio, sul quale si appunta oggi l’opposizione dei «moderati»: ad esempio “le ideologie”, o “la sinistra ideologica”. (L’antifascismo, in particolare, non è più percepito come un pericolo ed è indicativo che la principale reazione contro l’Anpi sia definirla «una associazione di vecchi». Con questa espressione non si vuole significare soltanto che i partigiani hanno 90 anni, ma che è superata la loro opposizione al fascismo – esso è infatti identificato con le forme mussoliniane e non con il generale progetto di dittatura contro i lavoratori. Era del resto prevedibile che, come tutte le identità definite come anti-, anche l’antifascismo accusasse problemi di rigidità assai più dell’identità che combatte: motivo per cui esistono antifascisti che votano i nazigrillini senza problemi.)

Al rapporto fra italiani e politica Renzi ha dedicato alcune saltuarie ma veramente eloquenti battute. Nella scorsa primavera ha detto che troppo spesso la “sinistra non riformista” ha cercato di cambiare gli italiani, mentre lui, rappresentando la “sinistra riformista” vuole cambiare non gli italiani ma l’Italia (altro esempio di #cambiaverso come allontanamento della contraddizione). È in sintonia evidente con le parole di Grillo e Casaleggio nel condannare il voto di due senatori del M5S per abolire il reato di immigrazione clandestina: «Sostituirsi all’opinione pubblica, alla volontà popolare è la pratica comune dei partiti che vogliono “educare” i cittadini, ma non è la nostra». Il 15 dicembre, invece, all’Assemblea nazionale del Pd che lo ha formalmente proclamato segretario, ha detto: «Non si tratta, come ha detto qualcuno, di fare la pacificazione tra noi e Berlusconi: si tratta di fare la pace con gli Italiani! Si tratta di fare la pace tra i politici e l’Italia! Questo è il punto centrale!», specificando anche successivamente a quale “Italia” si rivolge: «Si tratta di fare un atto di pacificazione tra il piccolo e medio imprenditore – direi piccolo, per le dimensioni della media impresa in Italia – che in questi anni ha visto le banche dare credito in modo… diverso dal passato. […] Oggi il piccolo imprenditore che vede dare il prestito al grande speculatore […], vede dare dei prestiti straordinari, e poi vede chiudere il rubinetto a chi? A chi invece vorrebbe continuare ad andare avanti giorno dopo giorno; dobbiamo fare la pace tra quel piccolo imprenditore e chi è gruppo dirigente».

Il punto ambiguo di questa pacificazione sta, esattamente come per quella invocata da Berlusconi, nei suoi stessi termini. Per Berlusconi la pacificazione era la fine della guerra scatenata contro di lui da magistratura e sinistra, e, come tale, doveva essere a senso unico. La fine delle ostilità doveva provenire giocoforza da parte degli aggressori, e consistere quindi nel salvacondotto giudiziario. Così, la proposta di “pacificazione tra i politici e l’Italia”, ove rivolta a catturare il consenso del piccolo imprenditore, può essere interpretata come la cessazione delle ostilità contro il piccolo imprenditore (spesso un «moderato») da parte di una politica che lo ha aggredito intimandogli di pagare le tasse e rispettare le regole.

Renzi probabilmente conta che questo sia esattamente il modo in cui la sua proposta di pacificazione sarà recepita dai ceti «moderati». Ma non sono convinto che anche lui la intenda in questo modo. Una delle capacità di Renzi è, appunto, lo spostare sempre in avanti il limite della contraddizione senza mai svelarlo, il non scoprire le carte finché non sarà certo di minimizzare le perdite.

Per capire meglio questo punto è necessario, assodato che Renzi è un attore politico populista, cercare di capire quale tipo di populismo sia il suo.

Fin dall’inizio della crisi economica si è paventato il rischio di un’avanzata dell’euroscetticismo. Poi si è teso a distinguere fra euroscetticismo duro ed euroscetticismo morbido (ad esempio, in Grecia, rispettivamente il KKE e Syriza). Oggi, parlare in questi termini è perfino ridicolo: pochissime sono rimaste le forze politiche estranee all’euroscetticismo; nella variante morbida rientrava perfino Bersani quando, segretario del Pd, diceva «mi vergogno di come l’Europa si sta comportando con la Grecia». L’euroscetticismo è in realtà montato e si è trasformato in qualcosa di più corposo di una semplice reazione negativa, ovvero nel populismo.

In Italia possiamo distinguere tre sue varianti: il populismo estremo del nazigrillismo, che sfocia di fatto nel fascismo; il populismo duro del berlusconismo; il populismo morbido delineato da Renzi. Ciò che Renzi sta facendo è articolare una forma di populismo che, a livello dichiarato, formale, di delimitazione del proprio lessico, non rinneghi assolutamente le basi populiste ed anzi le assuma come proprie; ma che, nella specificazione interna, cerchi di annullarle di fatto riconducendole ad una politica non populista e anzi anti-populista (si veda anche l’interessante autocritica sul termine “rottamazione”).

La medicina contro il populismo è individuata da Renzi non nella repressione ma in una humiliatio (un avvicinamento all’humus) da parte del politico. Emblematiche di questo orientamento sono le parole dedicate al movimento dei forconi: il neo-segretario del Pd, pur non respingendo l’etichetta di “fascisti”, ha dichiarato di ritenere più opportuna quella di “sfascisti”. In questo modo, ha evitato l’operazione di identificare il nuovo nemico con il vecchio nemico, operazione che, pur corretta, ha la debolezza di essere percepita come stantia, inattuale, solito ritornello stanco della sinistra che bolla acriticamente di fascismo qualsiasi avversario (laddove, ricordiamo, per la massa degli elettori il fascismo è morto nel 1945). Al tempo stesso ha potuto dire parole di condanna contro i forconi, ritorcendo anzi contro di loro il loro stesso argomento populista: «Al Parlamento va detto “tutti a lavorare!”, non “tutti a casa!”». La riconduzione della politica a una dimensione di fatica tecnica costituisce parte della humiliatio, e rientra nel populismo morbido che Renzi intende perseguire (si veda la scelta di convocare la sua prima segreteria alle 7,30 di mattina, intesa come gogna offerta per il ludibrio dell’elettorato populista).

Immagine tratta da www.ilgiornale.it

Ultima modifica il Sabato, 04 Gennaio 2014 22:06
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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