La malattia è un dato oggettivo, di lesione anatomica di un corpo, ma anche esperienza soggettiva.Nel libro scrivo che la lingua inglese ci offre tre termini utili a cogliere la possibilità di coniugare i diversi significati del termine malattia: disease (come evento biologico), illness (come esperienza soggettiva), sickness (come condizione percepita, ossia come cambia la mia posizione sociale per via della malattia).
In occidente abbiamo l'abitudine di contrapporre le diverse visioni come se fossero in antagonismo, mentre l'atteggiamento orientale insegna una comprensione degli opposti che è fondamentale per comprendere il senso profondo dell'esperienza, compresa quella di fare il medico.
Cos'è oggettivo e cos'è soggettivo? La fisica del Novecento ci ha insegnato che ogni fenomeno, quando lo osservi, non può avere una dimensione realmente oggettiva. L'osservatore partecipa al fenomeno che osserva ed in qualche modo lo modifica per il semplice fatto di averlo osservato.
L'esistenza di parametri che danno indicazioni pure ed assolute è un mito.
2) La medicina quindi come ambito in cui far vivere la sintesi di un conflitto tra cultura umanistica e scientifica, che invece ritorna ciclicamente in modo polemico anche sui quotidiani italiani?
Sì, direi che è necessario trovare una sintesi al famoso dibattito su natura e cultura: la malattia come un modello in cui ricercare l'armonia tra gli elementi forniti dal paziente, con la sua storia e i suoi sintomi, e quelli del curante, che ricerca dati oggettivi.
Nell'affrontare la medicina si attraversa anche la questione su cosa sia il linguaggio. Una ricerca di qualche anno fa, condotta all'interno dell'azienda sanitaria di Firenze, nell'affrontare le relazioni medico-paziente, ha coinvolto cinque primari cardiologici rispetto alle definizioni di evento "eccezionale", "raro" o "frequente". Avevamo chiesto di associare a questi tre aggettivi un valore quantitativo in percentuale. Capita infatti che il paziente chieda al curante se le possibili complicazioni sono frequenti o improbabili. Gli intervistati erano tutti laureati in medicina, direttori di cardiologia, con pari livello di istruzione e appartenenti alla stessa fascia di età: nonostante l'omogeneità di campione abbiamo riscontrato divergenze clamorose.
Se nella mente del primario cardiologo registra una notevole variabilità nel’associare un dato quantitativo ad un aggettivo usato nel colloquio con il paziente, si può immaginare che questa variabilità sia ancor maggiore tra i vari pazienti, diversi tra loro per età, sesso, condizioni culturali ecc… C’è bisogno dunque di un grande lavoro di reciproco ascolto perché la relazione sia davvero occasione di comunicazione tra paziente e medico e non un dialogo tra sordi.
3) Il Sistema Sanitario Nazionale dovrebbe garantire condizioni di accesso universale alle cure. Un diritto costituzionale sempre più messo in discussione. Si dice che non possiamo più permettercelo, è così?
Il nostro è il modello di assistenza sanitaria più efficiente, viene chiamato modello Beveridge (dal nome del fondatore del welfare state in Gran Bretagna, che in Italia abbiamo copiato). L'altro è il modello Bismarck [sistema mutualistico, n.d.r.].
Personalmente ritengo che non sia effettivamente sostenibile un sistema che non verifica l'appropriatezza di quello che viene pagato. Non è sostenibile dare tutto a tutti, soprattutto quando questo tutto è inutile.
Ci sono ormai numerose evidenze rispetto al fatto che se riuscissimo a tagliare gli sprechi, al di là di quelle che sono le storture dovute alla corruzione e all'induzione di spesa per conflitti di interesse, riducendo semplicemente le prestazioni inutili (la futilità, per usare un concetto inglese), otterremo un risparmio del 10%-30%.
Una prestazione inutile è dannosa per le casse economiche, ma anche per la salute. Tu pensa alle indagini radiologiche: una Tac in più può essere anche dannosa per la persona che la riceve.
4) Nel libro citi esplicitamente i ticket come una dimostrazione di scelte politiche sbagliate.
Quello dei ticket è stata un fallimento clamoroso: è stato dato credito all'ipotesi che introducendoli si sarebbe guadagnato denaro fresco e contate per una determinata cifra. Si è invece verificato un calo del consumo in ambito sanitario e i miliardi di euro che si pensava di incassare non sono arrivati.
Chi ha rinunciato alle prestazioni? Purtroppo non si è avuta una riduzione, come auspicavo sopra, legata al taglio di interventi o analisi inutili. C'è stato un taglio lineare dei consumi, dovuto anche alla crisi, a scapito delle fasce di popolazione più svantaggiate. Ci sono gravi ricadute sugli indicatori di salute, è evidente soprattutto in Grecia, dove le politiche di austerità sono arrivate prima e con maggiore forza.
Serve invece un servizio sanitario solidale che abbia una forte valenza etica e che quindi ricerchi il taglio dei servizi inutili.
A questo aggiungo che se lo Stato ottenesse il pagamento delle tasse da tutti e non ci fosse il baco dell'evasione fiscale, non avremmo questi problemi. Il Sistema Sanitario Nazionale è gratuito solo per chi evade le tasse. In questo ritengo che anche l'utilizzo dell'indicatore ISEE vada in una direzione sbagliata, perché chi guadagna di più e paga le tasse ha già contribuito più degli altri alla fonte, mentre l'evasore fiscale risulterà probabilmente anche esente dal pagamento dei ticket.
5) Quindi consideri un brutto segnale anche l'integrazione sanitaria che stanno prevedendo alcuni contratti di categoria, mentre forze politiche considerate di sinistra e progressiste si fanno coinvolgere (in forme più o meno esplicite) nella gestione della sanità integrativa?
Certo, non ne do un giudizio positivo, così come però, ripeto, non do un giudizio positivo su una sanità alla carlona dove si dà tutto a tutti, senza verificare l'appropriatezza di quella prestazione. Credo debba essere questo il versante su cui si mira a tagliare e risparmiare.
Occorre ribaltare l'idea che con maggiori prestazioni si ottiene maggiore salute. L'insieme del SSN incide nella salute di un individuo per non più del 15%. Non bisogna concentrarsi sui consumi finali, ma lavorare sugli altri ambiti, compresa l'accessibilità alle prestazioni.
6) La figura del medico ha un ruolo sociale di cui da tempo non si sente discutere, nonostante sia una professione che viene associata ad alti livelli di istruzione e, si presume di conseguenza, di consapevolezza sociale. Eppure tolta Medicina Democratica e qualche altra associazione, la categoria non è nota per un particolare impegno nel Paese.
Parlo ovviamente a titolo personale: sono convinto della responsabilità sociale e culturale del medico, se non altro per il fatto che entrando in relazione con tante persone, soprattutto in un momento di debolezza, ha delle potenzialità enormi.
C'è un articolo del codice deontologico, che cito nel libro, per il quale siamo tutti responsabili dell'ambiente: questo implica non solo operare in modo adeguato da un punto di vista clinico, ma anche assumersi un impegno più pubblico e civile su questo fronte. Se ognuno è responsbile rispetto all'ambiente, i medici sono responsabili due volte.
Purtroppo noto un discreto silenzio della categoria su questo impegno.
Il ruolo del medico è in crisi per la complessità che oggi la società e la medicina presentano. Molte figure professionali si sono affiancante crescendo giustamente di ruolo e importanza: penso agli infermieri che sono passati da una professione ancillare (venivano chiamati paramedici) a una professione che ha una propria dignità e autonomia professionale. Poi ci sono i tecnici di laboratorio, di radiologia, i fisioterapisti, gli psicologi e altre figure simili, in passato meno presenti.
C’è una parcellizzazione delle competenze delle figure professionali coinvolte nella cura. La sfida è che questa pluralità di visioni e di competenze non sia vista come una diminuzione di autorità e potere, ma come una risorsa.
Non è facile passare da una visione paternalistica in cui il medico era l’unico responsabile della cura alla situazione presente.
Dobbiamo fare i conti con una ferita narcisistica: tutti ci ritroviamo in qualche modo a dover riconoscere ed elaborare, per non dire superare, il nuovo contesto.
Inoltre la figura del medico è in crisi perché la sanità viene gestista sempre più in modo economicistico. Il medico dipendente degli ospedali non è più solo un professionista con una cultura e un know-how, ma un dirigente di un’azienda e come tale deve rispondere a esigenze di policy aziendale, che non sempre collimano con la formazione che ha avuto.
All’unviersità si continuano a formare i medici sulle competenze tecnico-scientifiche e biologiche, ma non escono medici preparati a lavorare in un sistema orgaizzato. Una delle critiche che spesso sentivo in ospedale era: “quelli dell’azienda sanitaria ci chiedono questo”. Ma quelli dell’azienda siamo noi. Invece c’è questa visione per cui gli amministratori ci diminuiscono la libertà professionale e ci chiedono pratiche burocratiche per le quali siamo impreparati.
Inoltre è in crisi la relazione medico-medico. Oggi c'è una medicina del silenzio in cui fra loro i professionisti non si parlano.
I curanti non sono abituati a lavorare in una rete: una delle più semplici soluzioni per risolvere alcuni problemi sarebbe facilitare la comunicazione. Su un paziente che presenta una certa patologia nessuno si può più arrogare il diritto (ma non ha nemmeno il dovere) di curarlo da solo. Ci vuole una circolarità delle informazioni, mentre oggi invece non condividiamo le condizioni di cura. Questo vale soprattutto nelle cronicità, che stanno aumentando a fronte della diminuzione delle malattie acute. Siamo tutti più vecchi ma tutti più afflitti da alcune patologie.
Manca un po' di umiltà nella professione medica, mentre ci sarebbe bisogno di condividere le informazioni con altri specialisti, a partire dal medico di famiglia, che ha un ruolo centrale.
Bisogna andare nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa con la chiusura dei piccoli ospedali e l'indebolimento dei medici di famiglia, mentre si investe sulle grandi tecnologie in pochi centri, abbandonando il territorio. I piccoli ospedali sono certamente improduttivi ed inefficienti se li consideriamo come strutture di cura per i malati acuti, ma possono diventare una risorsa formidabile se li riconvertiamo in strutture di cerniera all’interno di una rete che vede una continuità tra il luogo dove il paziente anziano e cronico vive e le varie offerte sanitarie.
Sarebbe interessante piuttosto spostare i professionisti nelle case dei pazienti, laddove possibile.
Infine è necessario interrompere la logica del consumismo in campo sanitario: il CUP alla COOP è pericoloso perché le persone non sono pronte per evitare le insidie del mercato, manca un'educazione adeguata.
Invece bisogna convincersi che chi fa un esame inutile non solo ha corso un rischio per la propria salute, ma ha anche tolto un’opportunità di cura ad un’altra persona che magari di quell’esame aveva realmente bisogno.
Non è un caso che alcuni studi dimostrino come chi è meno informato consuma più cure. Stiamo finanziando l’inapropriatezza.
Per riassumere potremmo dire: la sanità è un diritto a cui accedere gratuitamente attraverso il pagamento - anticipato - delle tasse, non uno scaffale del supermercato da cui scegliere medicinali e analisi.
Nella foto Albert Beveridge, foto ripresa da Wikipedia