Lunedì, 28 Luglio 2014 00:00

Pensioni, un punto di vista di classe - Intervista a Giovanni Mazzetti

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1) Ragioneria di Stato, INPS e Confindustria lanciano l'allarme: non ci sono più i margini per tenere in piedi il sistema pensionistico, perché si va in pensione troppo presto rispetto alle aspettative di vita. Un discorso già sentito, anche se in forme diverse. Pare quasi che la pensione sia un privilegio e non salario "sottratto" dalla busta paga per essere recuperato in età non lavorativa. A leggere le pagine del Sole 24 Ore emerge quindi che i lavoratori di ieri e quelli di oggi hanno pagato e pagano troppo poco rispetto a quanto percepiscono o percepiranno di pensione: è così?

Direi che Ragioneria, INPS, Confindustria e Governo, non si comportano diversamente da come hanno fatto negli ultimi venticinque anni. Periodo nel quale hanno fatto peggiorare significativamente le condizioni materiali dei lavoratori e dei pensionati. L’allarme è la forma più efficace per chi vuole piegare i suoi avversari, specialmente se questi hanno le idee confuse sugli argomenti in questione. Il fatto che dopo la cosiddetta “riforma” Fornero si continui sulla vecchia strada è un bruttissimo indice. In questi decenni i conservatori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano, ciononostante insistono nel dire che si dovrebbe fare di più.

Ciò è possibile per la nostra totale inconsistenza come avversari, e l’effetto ultimo potrebbe essere quello di un disastro sociale senza ritorno. Occorre però fermarsi e riconoscere che, come non si può accusare un prete di mettere in guarda i suoi fedeli sul peccato, così non si può chiedere alle classi dominanti di oggi di pensarla diversamente da come fanno sul fatto che chi riceve dei soldi deve prima averli sborsati.

La tua domanda contiene una sorta di inconsapevole trabocchetto. Se fosse solo “salario differito”, rivalutato per il costo della vita e per l’aumento del PIL, la pensione dovrebbe rientrare nei criteri che i conservatori hanno imposto e stanno cercando di aggravare. Ma la base del sistema pensionistico esistente fino al 1992, ispirato ai criteri del Welfare keynesiano, teneva conto di un aspetto che l’approccio conservatore ignorava e ignora. Di che cosa si tratta? Del fatto che se non si vuole precipitare in una situazione contraddittoria, che inibisce ogni ulteriore sviluppo, bisogna trovare un modo per utilizzare produttivamente il forte aumento della capacità produttiva e delle innovazioni realizzato proprio con l’accumulazione capitalistica.

Per farla breve la cosa può essere posta in questi termini schematici. I pensionati debbono avere indietro solo i soldi che hanno versato, o debbono essere messi comunque in grado di comperare i prodotti che, grazie all’aumento della produttività scaturito dal loro lavoro passato, la società è oggi in grado di produrre, anche se quei trattamenti eccedono i fondi accantonati? La risposta del sistema del 1969 andava in questa seconda direzione, appunto perché si basava sulla convinzione marxiana e keynesiana che il sistema produttivo fosse ormai entrato in una fase nella quale la capacità produttiva eccedeva strutturalmente la domanda, e quindi bisognasse consentire agli stessi produttori immediati di appropriarsi di una parte crescente di quel prodotto aggiuntivo. Se questa appropriazione sarebbe mancata il sistema avrebbe finito con l’avvitarsi su se stesso, perché la produzione avrebbe cominciato a ristagnare per la repressione dei bisogni che avrebbe dovuto e potuto soddisfare.

Per dirla con poche parole: se i vecchi non vengono messi in condizioni di spendere, i giovani sono privati della possibilità stessa di produrre. Chi fantastica dei giovani impegnati in immaginarie attività propulsive – magari nell’export! - non sa nulla del rapporto che esiste tra bisogni e produzione, e non si rende conto che, quando un terzo della popolazione ha più di 65 anni, o produci per quel terzo o gli altri due terzi lavorano necessariamente a regime ridotto, diventando più poveri. Insomma la base del sistema pensionistico che è stato ormai smantellato era il riconoscimento del fatto che, richiedendo sempre meno lavoro, la soddisfazione dei bisogni deve via via intervenire su scala allargata senza una contropartita monetaria equivalente. È quello che Marx ha chiamato l’appropriazione del pluslavoro da parte dei lavoratori. Se questa manca, il sistema può fantasticare di trovare acquirenti altrove, ma si tratta, appunto, di una chimera.

2) La soluzione, stando alle dichiarazione di chi ci governa, o di chi influenza i governanti, sono i fondi pensione integrativi e l'uso del TFR dei lavoratori...

Qui occorre essere consapevoli del fatto che i nostri avversari ragionano all’interno del loro sistema di pensiero. Per loro la previdenza non può essere altro che una forma di assicurazione. Il problema dello sbocco del prodotto eccedente lo ignorano. È allora del tutto coerente che insistano per i fondi pensione. Vuoi più soldi quando sei vecchio? Mettine da parte di più quando lavori! L’imbroglio, in questo caso, sta nel prospettare fantastiche crescite dei fondi accantonati in conseguenza del loro uso sui mercati finanziari. Beppe Scienza da anni sottolinea, dati alla mano, che tutte le argomentazioni contro la conservazione del TFR sono ingannevoli, perché il confronto con il rendimento della maggior parte dei fondi pensione è a favore del TFR.

3) Nei tuoi libri e in alcuni incontri che abbiamo avuto occasione di tenere, abbiamo discusso come l'unica soluzione sia rilanciare l'obiettivo della piena occupazione e della diminuzione delle ore di lavoro a parità di salario. Siamo alle soluzioni opposte rispetto a quelle dei vari ministri che si sono susseguiti in questi ultimi decenni. Sei ancora convinto di questa posizione, anche davanti alla narrazione della crisi di giornali e telegiornali?

Giornali e telegiornali non entrano mai nel merito di ciò che ha scatenato la crisi. La maggior parte dei giornalisti ripete ossessivamente che la crisi è dovuta al crollo di borsa del 2007/2008, né più e né meno per decenni si è ripetuto che la crisi della seconda metà degli anni Settanta – la crisi dello Stato sociale keynesiano - era dovuta allo shock petrolifero.

La situazione, invece di migliorare peggiora, perché gli interventi sono del tipo di quelli sulle pensioni. Invece di fare in modo che si lavori di meno (settimana lavorativa e vita lavorativa) si costringono tutti a lavorare di più. Poiché il problema è quello di riprodurre il rapporto di lavoro salariato questa strategia espelle ulteriormente lavoratori dal mercato e fa impoverire la società.

Ti basti dire che negli ultimi trent’anni la durata del lavoro dei dipendenti è aumentata, in Italia, del 15/20%, cioè che sono state distrutte occasioni di lavoro per 500.000 lavoratori o più. Le imprese non si rendono conto che i salari che pagano e le pensioni sono i redditi che comprano le loro merci, e puntano sempre su fantastici acquirenti altri. Se a questo aggiungi la cosiddetta spending review, che punta a ridimensionare la spesa dello stato, il sistema è destinato ad avvitarsi su se stesso. Ma sia chiaro non è solo l’Italia ad essere presa in questa trappola, perché il demenziale ritorno al pensiero del passato c’è ovunque. Ovviamente non starò qui a esporre nuovamente lo schema della mia teoria sulla “necessità” di redistribuire il lavoro fra tutti a parità di salario. Ma nei miei testi si trovano validi argomenti a favore di questa prospettiva, che non solo non rinnego, ma sto continuando ad approfondire in altri scritti, per favorire quel processo di formazione dei cui c’è bisogno.

Immagine tratta liberamente da cdn.blogosfere.it

Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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