“Lo Stato innovatore” è uno studio, talvolta ripetitivo ma assolutamente divulgativo, finalizzato alla dimostrazione di quanto sia fondamentale la dimensione del pubblico all’interno del mercato. La tesi di fondo è che nessun progresso fondamentale sarebbe stato possibile senza un impegno delle istituzioni. Non si tratta solo del luogo comune (fondato) per il quale senza la ricerca militare oggi non avremmo internet. Per fare un esempio tra i più efficaci, a cui la Mazzucato dedica più di un capitolo: le tecnologie che Apple ha usato per il lancio dei dispositivi basati sul sistema operativo iOS (iPhone, iPod touche e iPad) sono tutte basate su ricerche finanziate con i soldi della tasse dei contribuenti statunitensi. Niente della Silicon Valley esisterebbe oggi senza l’indebitamento della California che molti repubblicani e imprenditori denunciano con grande clamore.
Gli imprenditori e gli istituti bancari (privati) non si assumono rischi sul lungo periodo e rendono impossibili sistemi di ricerca permanenti. Anche i capitali investiti in progetti rischiosi puntano a ottenere il massimo dei guadagni in qualche anno,mirando a quotare in borsa le azioni di una nuova società e abbandonando tutto alla prima difficoltà.
«Quando rinuncia ad assumere un ruolo guida, lo Stato non rappresenta più un’alternativa reale al settore privato, ma un cattivo imitatore dei comportamenti di quest’ultimo» scrive Mazzucato, che individua nello Stato come «creatore dell’economia della conoscenza» l’unico modo per uscire da questa situazione di crisi. Tra le soluzioni per creare una crescita sostenibile c’è la necessità di dare vita a dei sistemi ecologici (economici) simbiotici in cui lo Stato, anche attraverso livelli regionali e di prossimità, garantisca il funzionamento di «un’economia fortemente intrecciata, con continui anelli di retroazione tra individui e organizzazioni».
L’innovazione e la conseguente crescita sono impossibili senza un processo globale che di fatto è esistito nel ‘900 ma oggi assume sempre più dinamiche parassitarie, in cui i privati fanno incetta delle scoperte pubbliche e le riescono a rivendere attraverso operazioni di marketing e integrandole tra loro, salvo poi pretendere sgravi fiscali e contestare le “ingerenze” del pubblico.
Il settore su cui ripartire viene individuato in quello della “rivoluzione verde”. «I governi devono continuare a sostener e le tecnologie pulire fintanto che il vantaggio (in termini di costi sommersi) delle tecnologie consolidate non sarà stato annullato, e in alcuni casi ci vorrà un secolo per arrivarci».
L’economista impiegata nel Sussex cita spesso Keynes contestandone l’idea che lo Stato possa impiegare le persone anche solo per scavare buche e poi fargliele riempire. Lo scopo del pubblico non è quello di garantire piena occupazione, ma di promuovere e guidare il mercato, sviluppando la crescita attraverso la ricerca (la piena occupazione ne è una conseguenza). Schumpeter e Polanyi sono altri due tra i nomi che ricorrono con maggiore frequenza, ma Mazzucato è attenta a non rinchiudersi mai su un livello accademico (o astratto) ed è costantemente tesa a dimostrare la necessità di una politica attiva immersa nel presente (il libro è stato scritto in inglese ed ora viene tradotto, ma si percepisce l’essere rivolto ai livelli decisionali della politica britannica).
Sul Sole 24 Ore di domenica 10 agosto un articolo di Filippo Astone sull’inserto della domenica chiude: «tra perdita della memoria e ignavia collettiva, di politica industriale sembra non voler parlare nessuno. A parte la Confindustria degli ultimi due anni, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, e alcuni settori avanzati della Cgil, che però non ne ha una visione struttura».
Su questo livello di discussione ci si può innestare per la costruzione di una coalizione anche di sinistra europea, non solo nazionale, che sposi un programma progressista alternativo a quello dei conservatori. Una sana alternativa alle larghe intese, oltre che a chi si ostina a voler smantellare lo stato sociale e il modello costruito nella parte occidentale del muro nel vecchio continente durante il secondo dopoguerra. Nello “Stato innovatore” ci sono elementi innovativi e gli strumenti per andare oltre la mera riproposizione di cose fatte nel corso del ‘900 e non più proponibili. Si tratta però di risposte immediate. L’approccio con cui avvicinarsi a un libro del genere non è l’esaltazione e il relegarlo a discussione tra intellettuali e politici illuminati, rivendicandone la lettura. Con queste posizioni politiche ci si presenta alle elezioni e si tenta di correggere il sistema nel breve e medio periodo, se si riesce ad affrontarle in modo serio (per intendersi non facendo la minoranza nel Partito Democratico di Renzi e magari usando la Mazzucato per battaglie interne o balbettare qualche cosa in risposta ai deliri di Oscar Giannino e compagnia).
Per un’organizzazione politica (quindi non per la Mazzucato ma per i molti che si affrettano ad esaltarla) “Lo Stato innovatore” non è questione sufficiente. Pare tanto nel deserto attuale, ma resta la necessità di comprendere che anche i mutamenti progressisti passano per i rapporti di forza all’interno della società, non solo in cabina elettorale, oltre al fatto che per chi ha ereditato la tradizione marxista ci sarebbe da ragionare, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, qual’è il modello alternativo di società che si propone sul lungo periodo (anche a sommi capi), tenendo conto che esistono l’America Latina e la Cina, dove si portano avanti progetti non replicabili in Europa ma comunque degni di essere compresi (e poi rifiutati o condivisi) in una discussione sul modello di produzione e il tipo di società per cui ci si impegna nella quotidianità.