L’accusa era di omicidio colposo di 40 persone e di lesioni personali colpose ai danni di 5 persone: le uniche per le quali fosse verificato che erano state indotte a rimanere nelle proprie abitazioni dalle esternazioni della Commissione Grandi Rischi nei giorni precedenti il terremoto del 6 aprile, malgrado il susseguirsi nei mesi precedenti di piccole scosse sismiche di magnitudo sempre crescente. Da quest’accusa sono stati tutti prosciolti; lo stesso De Bernardinis è stato condannato solo per una parte residuale del capo d’imputazione.
Qualcosa non torna. Tralasciando l’entità dei danni, le vittime del terremoto del 6 aprile sono state 309, ben più delle 45 cui si riferisce il capo d’accusa; l’intero processo istruito è stato perciò vanificato in partenza dalla limitatezza dello stesso impianto accusatorio. Davvero sarebbe (stato) impossibile formulare un’accusa più rispondente alla portata del disastro?
La Commissione Grandi Rischi si era riunita a L’Aquila il 31 marzo precedente “con l’obbiettivo di fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane”; in tale occasione aveva effettuato una “valutazione dei rischi connessi all’attività sismica in corso sul territorio aquilano dal dicembre 2008” circa. A seguito della riunione, le dichiarazioni pubbliche rilasciate dai membri della Commissione erano state rassicuranti e volte a sedare l’allarme – tanto che l’accusa denunciava il venir meno rispetto ai doveri di “previsione e prevenzione” e di “informazione chiara, corretta, completa” nel sottostimare (e far sottostimare) il rischio. Secondo la ricostruzione del Pm, addirittura, la riunione si era configurata come una conferenza stampa, un’operazione mediatica, più che un vero e proprio tavolo tecnico: «La commissione non indirizzava le sue valutazioni al Dipartimento della Protezione Civile, bensì direttamente al pubblico, per volontà manifesta dello stesso Dipartimento, cui i membri della Commissione non si sottraevano.» Lo stesso verbale sarebbe stato redatto solo successivamente al 6 aprile.
Le motivazioni della seconda sentenza saranno pubblicate a novanta giorni dal suo pronunciamento; ad ora sappiamo solo che per sei dei sette imputati non si è riconosciuta alcuna relazione causale tra il comportamento come membri della Commissione e le 45 vittime; mentre, come commentato dal procuratore generale Romolo Como, la responsabilità è stata scaricata «tutta su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile […] La cattiva informazione è stata ascritta alla Protezione Civile e non agli scienziati. E quindi l'operazione mediatica tesa a rassicurare gli aquilani è stata attribuita non agli scienziati riuniti, ma al Dipartimento.»
Le esternazioni dei componenti della Commissione Grandi Rischi, nei giorni prima del sisma come in seguito, sono rimaste avvinghiate all’impossibilità di prevedere i terremoti con le attuali conoscenze scientifiche; tant’è vero che l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (il cui presidente Enzo Boschi era tra gli imputati), in un comunicato diffuso a seguito della sentenza di primo grado, denunciava l’impossibilità per uno scienziato di esprimere la propria posizione scientifica a fronte del rischio di incriminazione e condanna qualora quell’opinione non fosse stata gradita. Ma cosa si stava richiedendo alla Commissione Grandi Rischi? Non un parere scientifico sulla prevedibilità degli eventi sismici; bensì un pronunciamento netto sul pericolo per la popolazione de L’Aquila e dintorni, poiché a quel pronunciamento avrebbe potuto seguire un’evacuazione preventiva. Sul pericolo, i sei assolti si sono ben guardati dall’esprimersi pubblicamente; l’unico ad aver materialmente espresso rassicurazioni (unitamente ad aberrazioni scientifiche circa lo “scarico di energia” che depotenzierebbe eventuali sismi successivi) a seguito della riunione della Commissione, De Bernardinis, è stato l’unico condannato in appello.
La messa in pericolo di migliaia di vite, però, è su tutt’altro piano rispetto alla ricerca scientifica sulla prevedibilità dei terremoti. Esiste una responsabilità scientifica della comunità scientifica nei confronti della scienza e della società, riferita al progresso, cui presumibilmente tutti gli scienziati concorrono, delle conoscenze e della modellizzazione della realtà. Esiste però anche un’altra responsabilità della comunità scientifica nei confronti della società, una responsabilità politica che basa sul dato scientifico l’orientamento ai comportamenti migliori, più sicuri e più salutari, della comunità. A questa responsabilità politica i componenti della Commissione Grandi Rischi, anche in qualità di scienziati, sono venuti meno; poiché la categoria cardine non avrebbe dovuto essere la previsione dei terremoti, bensì la prevenzione. Davvero sarebbe (stato) impossibile istruire un’accusa riferita a questo mancato assolvimento della propria funzione pubblica?
Che il pericolo fosse concreto, infatti, era noto: ad esempio, in base ai dati del “Censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici” del 1999 (cui avevano lavorato anche alcuni degli imputati della Commissione Grandi Rischi), che individuavano a L’Aquila circa 550 edifici in muratura di vulnerabilità medio-alta – in alcuni dei quali, il 6 aprile 2009, sono morte delle persone. Altrettanto noto era l’elevato rischio sismico dell’area aquilana.
Si può quindi dire qualcosa anche sulla prevedibilità dei terremoti. Sono ancora imprevedibili in termini di coordinate temporali, poiché la periodicità dei cicli sismici fornisce indicazioni troppo grossolane; sono però ben prevedibili in termini geografici: sappiamo quali aree siano a maggiore rischio sismico e conosciamo anche il comportamento dei sismi in quelle aree; siamo in grado di prevedere, inoltre, gli effetti e le conseguenze di un evento sismico per le comunità di quelle aree. Nell’ottica di un decisore pubblico, in altre parole, di una figura chiamata ad esprimersi sul pericolo ed avviare eventuali misure preventive, i terremoti sono sufficientemente prevedibili.