Sabato, 07 Marzo 2015 00:00

Chi salva una vita salva un mondo intero

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"L’Europa è incapace di concepire una cultura di pace". Non appena varco la soglia dell’aula 400 dell’Università di Pavia, vedo decine di teste abbassarsi in segno di accettazione triste. ‘

"A noi piace definirci pacificatori, costruttori di pace". È una donna bellissima, con due occhi profondi difficili da dimenticare, a parlare, una di quelle persone che, quando parla in pubblico, con lo sguardo abbraccia tutto l'ambiente, non solo chi ha di fronte, perché dà importanza a ogni dettaglio presente, a uno sbadiglio involontario o a degli occhi lucidi, a essi risponde spesso con un sorriso tenero che può sembrare stanco ma mai vuoto.

"La pace è un lavoro paziente, nascosto, da fare a mani nude, vita dopo vita", in questa frase svela tutto il senso del suo fare che è diventato il suo essere. Alganesh Fessaha, presidentessa dell'associazione Gandhi, freschissima dell’Ambrogino d’Oro, racconta nel convegno Chi salva una vita salva un mondo intero, (svoltosi nell’ambito del Festival dei diritti organizzato dal Centro Servizi Volontariato di Pavia) il lavoro che fa: salva la vita agli esuli.

Si tratta a volte di veri e propri salvataggi nel deserto del Sahara, altre di negoziamenti per la liberazione dei profughi detenuti nelle carceri libiche, ma non solo, il suo lavoro consiste anche nell’accogliere e sostenere queste persone al loro arrivo in Italia, e lo svolge prevalentemente a Lampedusa.

Una donna determinata che facendosi forza e scudo del suo talento comunicativo pacifico ha saputo dialogare persino con un fondamentalista salafita.

"Lui mi ha aiutato a salvare 750 persone, scendeva in piazza a dire alla gente che non si doveva uccidere nessuno, insieme abbiamo arginato le violenze sulle ragazze, siamo riusciti a liberare dalle prigioni tre mila persone, salvataggio dovuto anche all'intervento del governo etiope."

Alcune delle persone che sono tratte in salvo continuano il viaggio rischiando ancora una volta di finire nelle mani sbagliate.

"Spesso guardando gli sbarchi gridiamo allo scandalo, alla vergogna, al sovraffollamento ma non sappiamo che storia c'è dietro alla fuga, in Eritrea scappano da un servizio militare che è permanente, (...) ci sono situazioni politiche interne tremende. Quando un ragazzo è schiavizzato nella miniera che vita potrà mai avere? Loro scappano in cerca di una vita che sia degna di chiamare con questo nome".

Intanto l'Italia, non stanca dei cimiteri marini, collabora con il governo eritreo, appoggiandolo politicamente trovando in cambio terreno fertile per le imprese italiane che si avvolgono del ponte strategico-economico. Oltre le parole Alganesh presenta il suo lavoro attraverso delle fotografie perché "è disumano ignorare cosa c'è dietro la storia di ogni persona, dunque vediamo di cosa stiamo parlando". Lembi di pelle strappata, ferite sanguinolente, tumefazioni violacee, immagini che arrivano come un pugno allo stomaco, come un calcio nei genitali, una bruciatura nei seni, un livido nel petto.

Il lavoro comune potrebbe risollevare le sorti di molte persone, un’opera diplomatica, sociale, religiosa, immediata, pacifica "i cristiani e i musulmani potrebbero spingere per l’apertura dei corridoi di pace". Il prossimo obiettivo della presidentessa soprannominata Gandhi dalla gente che ha salvato, è creare una scuola nel Sinai per i figli dei beduini: "è necessario ripartire dalla cultura, dal basso, dai piccoli. Ho visto bambini che avevano un kalashnikov, è inimmaginabile la naturalezza grottesca di questo quadro. Mettere da parte i pregiudizi e rimboccarsi le maniche non si traduce nello scendere a compromessi ma nel creare alleanze positive, in cui ciascuna e ognuno è trasformato dalla relazione, in nome di un fine comune. Se io non avessi trattato con il salafita non avrei salvato così tante vite, grazie anche a lui tra pochi giorni potrò tornare in Egitto per mettere la prima pietra di questa scuola".

Su questa scia, Don Jorge Lopez, della Comunità salvadoregna di Sant'Egidio, ha proseguito il discorso sui diritti negati ai bambini. Jorge ha una voce dolce, scandisce le parole, le ripete, per necessità e anche per rabbia. Ritorna con la mente alle ingiustizie perpetrate nel suo paese, prima con i latifondisti che hanno schiavizzato, i neo-fascisti che hanno trasformato i significati umiliando la maturazione intellettuale e infine le bande che hanno distrutto l’infanzia a moltissimi bambini. Per contrastare il fenomeno delle baby gang, le maras, che hanno ricevuto addestramento militare e si sono impadronite del territorio, arruolando ragazzi e bambini nella miseria, la comunità di Sant'Egidio ha fondato la scuola della pace, offrendo un'alternativa alla strada: uno spazio pacificato.

“Molti bambini sono apparsi induriti al primo contatto con la scuola. È normale che sia accaduto ciò, quando nessuno dice a un bambino che esiste l'amore e alla fiducia e gli si abitua al fatalismo, al tutto e subito perché il domani non esiste. Abbiamo cercato di sostituire i vecchi simboli di cui erano portatori con dei nuovi. Il tatuaggio donava un senso di appartenenza al gruppo e allora noi abbiamo creato delle magliette con una colomba che sorvola un arcobaleno. Essere bambini è la cosa più bella del mondo, nel Salvador è una maledizione, noi cerchiamo di invertire la rotta”.

La loro prima di tutto è una battaglia culturale, Don Jorge non nega le sconfitte come la perdita di un "suo" ragazzo: "Guillermo per esempio, era un'attivista molto amato, attirava i bambini con l'affetto, a soli 21 anni è stato portato via dalla Maras".

Con la stessa determinazione di Alganesh ribadisce che i costruttori di pace sognano ancora un modo diverso di vivere.

Sì, pace vuol dire anche decantare rabbie e rancori, sapere disintorbidarsi per trovare il modo –ogni volta difficile– di eliminare il male senza eliminare il malato o nuocergli, capacità di sacrificio personale, sapere maturare le qualità essenziali e, quando è buio, anche se il buio dura terribilmente, saper vedere oltre. Ma tutto questo, se non è concepito nel quadro più vasto, è ancora un ingenuo tentativo di evasione: uno dei tanti modi di suicidarsi.

«La pace che amiamo e dobbiamo realizzare non è dunque tranquillità, quiete, assenza di sensibilità, evitare i conflitti necessari, assenza di impegno, paura del nuovo, ma capacità di rinnovarsi, costruire, lottare e vincere in modo nuovo: è salute, pienezza di vita (anche se nell’impegno ci si lascia la pelle), modo diverso di esistere.» [Danilo Dolci, Inventare il futuro, 1968, p. 84.]

Ultima modifica il Domenica, 19 Aprile 2015 23:09
Rosalba Barbato Di Giuseppe

Sono sicula arbreshe, originaria di un paese in provincia di Palermo, Piana degli Albanesi.

Mi sono laureata in Scienze della comunicazione a Palermo e attualmente vivo e lavoro a Pavia in un'associazione femminile

la Fildis, che si occupa di cultura, formazione e comunicazione di genere.

Amo la poesia, il cinema d'autore, mi interessano le storie di immigrazioni, di memoria e femminismo. 

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